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La sfida della decrescita

di Achille Rossi - 31/10/2007





 

Le società contemporanee non possono continuare a crescere consumando materie prime, energia e logorando la terra. La crescita economica non è più la soluzione ma il problema. Per aprire un futuro alle nuove generazioni dobbiamo mettere in discussione l'immaginario della crescita e abbandonare la religione dell'economia, del progresso e dello sviluppo ad ogni costo.

Con questi proponimenti il mensile l'Altrapagina di Città di Castello (PG), lo scorso mese di settembre ha organizzato un seminario al quale hanno preso parte Riccardo Petrella, Enrique Dussel e Serge Latouche.

Riportiamo il resoconto dell'incontro di quest'ultimo con Achille Rossi che dell'incontro internazionale di Città di Castello è stato l'ispiratore e il conduttore.

Serge Latouche, il teorico della decrescita, esordisce evocando la possibile sesta estinzione delle specie per ricordare che l'umanità è una specie suicida, non in quanto tale, ma perché ha scelto come criterio guida del suo percorso la crescita fine a se stessa. “Una crescita infinita – spiega Latouche – è incompatibile con un pianeta finito”. Il sociologo francese avverte subito il bisogno di spiegare il significato della parola decrescita: “È uno slogan per indicare la necessità di uscire dalla fede nello sviluppo e, al tempo stesso, un'utopia concreta”. E intorno a questi due punti si dipana tutto il suo discorso.

LE OTTO ERRE

La crescita, continua il professore, sembrava mettere tutti d'accordo, ma c'erano due perdenti: la natura, trattata come una risorsa a costo zero, e il sud del mondo, che non ne otteneva alcun beneficio. La necessità di cambiare strada si esprime per Latouche nella realizzazione del circolo virtuoso delle 8 R: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare.

Non si sofferma il sociologo nell'analisi dei singoli passaggi del circolo; si accontenta di dire che “non è un programma politico, ma un progetto politico” e passa a riflettere sul disegno di autonomia della modernità. L'aspirazione dell'epoca moderna, quella di emancipare l'uomo da ogni forma di dipendenza dalla religione e dalla tradizione, “paradossalmente si è capovolta nella più cruda eteronomia, perché le società contemporanee sono piombate sotto il dominio della mano invisibile del mercato”. Alcuni pensatori, come Illich e Castoriadis, si sono accorti prima di altri di questa spietata dittatura dell'economico sulla vita dell'uomo contemporaneo e hanno invitato a rafforzare le tecniche conviviali più che quelle eteronome. Illich ha parlato addirittura di controproduttività dello strumento che, al di là di una certa soglia, non risolve i problemi per i quali è stato creato, e ha invitato a diminuire lo spazio del mercato nella propria vita. Un proposito ritenuto retrogrado nel momento in cui è stato formulato, ma che mostra oggi tutta la sua attualità. Tant'è vero che Latouche lo riprende: “Non si può continuare con questa eteronomia, è necessario intraprendere un tecnodigiuno”.

L'espressione potrebbe apparire scioccante e il professore la spiega in questo modo: “Occorre decretare una moratoria sulla ricerca tecnologica. Non ho nulla contro la scienza e la tecnica, ma mi oppongo alla sua assolutizzazione e al suo dominio incontrastato. Come pure a certe imprese criminali perpetrate in nome della scienza. Potrei citare l'esempio della Bayern durante la seconda guerra mondiale e quello della Monsanto nella nostra epoca. È necessario sviluppare un'altra scienza e dare ai cittadini la possibilità di decidere sulle sue applicazioni”.

IL PROBLEMA DEI LIMITI

Latouche richiama poi la necessità di porre limiti, altrimenti nessuna società potrebbe sopravvivere: “È indispensabile controllare l'espansione del sapere senza limiti. Questi ultimi possono nascere da una certa saggezza, quella che gli antichi greci chiamavano fronesis, o dal compromesso politico”. Comunque l'idea di crescita riscuote un vasto consenso popolare, tant'è vero che “le vittime votano per le destre”. Segno che il miraggio della crescita rimane fortemente appetibile. Resta il fatto che una società democratica ha bisogno di superare se stessa; Latouche parla di autotrascendenza, ma confessa che su questo punto il suo pensiero rimane ancora aperto e in movimento.

La seconda parte dell'intervento dell'intellettuale francese è dedicata a descrivere la decrescita come utopia concreta locale, perché “il luogo dove possiamo agire concretamente è il locale”. Latouche suggerisce di inventare la democrazia ecologica locale che dovrebbe far perno sulla bioregione, ossia una realtà geografica locale, storica, culturale che presenti una certa unita-

rietà, pur nella molteplicità delle differenze. Il sociologo francese pensa a qualcosa come un municipio di municipi, un villaggio di villaggi, dove sarebbe più facile ridurre lo spreco e il sovraconsumo e ricuperare il senso dell'otium classico, ossia il tempo necessario per prendere le decisioni. Nessuna apologia però di un localismo gretto. Per Latouche “il locale è un universale con i muri e l'universale il locale senza i muri”. Questa prospettiva che salvaguarda le differenze ci aiuta a vivere nel pluriverso delle diversità piuttosto che nell'universo dell'omogeneità.

RILOCALIZZARE L'ECONOMIA

L'utopia concreta delineata da Latouche passa per la rilocalizzazione dell'economia. Oggi assistiamo a un assurdo viaggio delle merci intorno al mondo, con sprechi e inquinamento a non finire, per rispettare i criteri della globalizzazione. È tempo che ogni territorio ricominci a produrre per le proprie esigenze, se si vuole ricreare davvero una democrazia economica locale. Questo implica anche uno sforzo per giungere a un'autonomia energetica puntando sulle fonti rinnovabili. Ma gli obiettivi delineati fin qui sarebbero improponibili senza un'opera di decolonizzazione del nostro immaginario. L'uomo della società dei consumi è ossessionato dalla pubblicità, che gli fa desiderare ciò che non possiede. Dopo il traffico d'armi è la pubblicità con i suoi 500 miliardi di dollari annui il principale affare delle società occidentali e la pubblicità ci tiene legati a filo doppio con la prospettiva della crescita. “Siamo tossicodipendenti della crescita!” esclama Latouche. Il professore, però, non è incline al pessimismo, come dimostra la sua conclusione: “Quando l'aspirazione a un mondo migliore si combina con la necessità qualcosa di positivo può accadere”.

IL RUOLO DEGLI INTELLETTUALI

Gli interventi del pubblico sembrano preoccupati di un ritorno alle chiusure e agli egoismi localistici, per cui il professore transalpino è costretto a precisare che “intendere il locale come tribalismo è una contraffazione”, ma che, al tempo stesso, “le nostre identità sono plurali” e che “dobbiamo resistere al rullo compressore della globalizzazione”. Preconizza Latouche un ruolo attivo degli artisti e degli intellettuali nella creazione di un nuovo immaginario orientato verso la decrescita e, soprattutto, invita l'Occidente a imboccare questa strada prima possibile per dimostrare al sud del mondo che si può cambiare. Continuare a proporre agli altri la società dei consumi ha un effetto devastante e spetta a noi intraprendere un cambiamento che assomiglia in qualche modo a una conversione religiosa.In fondo anche Latouche si sente, a suo modo, un convertito e racconta il suo itinerario da missionario dello sviluppo a critico della crescita. Bisogna essere stati nel sud del mondo e aver visto l'impatto devastante delle nostre prospettive economiche sulle culture della maggior parte dell'umanità, per abbandonare definitivamente ogni idea di sviluppo, anche nelle forme addolcite di sviluppo sostenibile, ecocompatibile e via discorrendo. In realtà si tratta di “reincorporare l'economia all'interno della società” e di abbandonare una visione totalitaria che la colloca al di sopra di tutto. “Ma questa uscita da un quadro economicista in direzione di una economia a misura d'uomo ci fa ancora paura”.