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Congo.La storia di un massacro pilotato

di Vincenzo Maddaloni - 02/04/2008

Fonte: vincenzomaddaloni


 

L'elevato debito estero, l'alto livello di corruzione e la gestione economica poco oculata del governo dello Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo, causano il 13 maggio del 1978 un tentativo di secessione da parte della provincia dello Shaba (ex Katanga). Esso si conclude il 22 maggio dopo l’intervento, con il supporto logistico dell'Aeronautica militare degli Stati Uniti, di 700 francesi della Legione Straniera e 1.700 soldati del Belgio, che evacuano dalla provincia duemila cittadini europei e liberano la città di Kolwezi occupata dai ribelli, dopo due giorni di combattimenti casa per casa. Malgrado alcune difficoltà nei collegamenti fra i comandi delle forze francesi, belghe e zairesi e la cattiva pianificazione delle operazioni di aviolancio, l’intervento dei Legionari era stato considerato un brillante esempio di operazione di soccorso. Ma davvero di soccorso si trattò? A distanza di trent’anni vi ripropongo quel mio reportage perché meglio aiuti a comprendere il presente.

Kolwezi, 25 maggio 1978

«Gli europei uccisi a Kolwezi dai ribelli katanghesi potrebbero essere oltre duecento, ma per molto tempo sarà impossibile avere un preciso bilancio della tragedia. Le difficoltà sono di vario genere: ilmancato censimento delle persone evacuate; l’impossibilità di identificare i molti cadaveri. I legionari francesi si sono ritirati. Nella cittadina mineraria è tornato l’ordine: vigilino i marocchini e gli egiziani». Giovedì 25 maggio 1978, la guerra nello Shaba (ex Katanga), provincia dello Zaire (ex Congo Belga), cominciata dodici giorni prima, è già nelle pagine interne dei quotidiani, in fondo ai titoli dei Telegiornali. Esauriti i racconti degli scampati, le panoramiche sulla città disseminata di corpi massacrati, sui negozi e le case svaligiate e incendiate, l’invasione alimenta ormai soltanto le polemiche internazionali.

Il Washington Post chiede all’amministrazione americana di decidersi a intraprendere “operazioni di aiuto militare” nei paesi africani « amici»(e lo Zaire è uno di questi ) che si trovino in «si trovino in situazione critica». L’ex segretario di Stato Kissinger denuncia una « perdita di coraggio» della leadership di Carter. Il presidente dello Zaire, Mobutu Sese Seiko, dichiara che la ribellione è stata appoggiata da Unione Sovietica, Cuba, Germania Orientale, e sottolinea la «rinuncia totale dell’Occidente davanti alle aggressioni totalitarie in Africa». Castro convoca il più importante rappresentante americano all’Avana per negare che nel massacro di Kolwezi ci sia lo zampino cubano. Giscard d’Estaing giustifica l’intervento dei parà della Legione con l’esigenza di difendere l’integrità dei residenti europei. Il premier belga Tindemans propone che le frontiere dell’Angola e dello Zambia (da dove sono arrivati gli uomini del “Fronte di liberazione nazionale del Congo”) siano sorvegliate da truppe africane con l’appoggio logistico della Cee. Avverte Claude Cheysson, commissario della Cee, che la logica dei parà non conviene all’Europa.

11 25 maggio Kolwezi è pattugliata dai marocchini, i parà francesi si sono attestati a trecento chilometri, a Lubumbashi, capitale dello Shaba. La zona sembra tornata alla calma. Ma basta un niente: troppi interrogativi sono ancora senza risposta. Dietro ai katanghesi ci sono davvero i sovietici, i cubani e i tedesco-orientali? E questi cosa vogliono: la secessione dello Shaba, la paralisi economica dello Zaire, il rovesciamento di Mobutu? E fino a che punto l’Occidente è disposto a sostenere il regime del dittatore africano?

Lo Shaba è la più ricca regione mineraria dell’Africa. Qualcuno la definì uno “scandalo ecologico”: cobalto, diamanti industriali, rame, zinco. Tecnici stranieri a migliaia per sfruttare i vasti giacimenti. E quasi un secolo di soprusi e di violenze. Prima la brutale conquista belga, il saccheggio delle ricchezze, poi i l’indipendenza nazionale raggiunta dopo anni di terrore. Lotte tribali, ingerenze straniere, carneficine con la regione dello Shaba sempre in primo piano. Allora si chiamava Katanga, lo Zaire era il Congo Belga, Kinshasa e Lubumbashi erano Léopoldville ed Elizabethville. La secessione del Katanga arriva pochi giorni dopo l’indipendenza del Congo (30 giugno 1960). Le motivazioni tribali e anche personali (Ciombé contro Lumumba), abilmente manovrate dai potenti interessi stranieri padroni del rame katanghese, incoraggiano la sfida. Arrivano i mercenari bianchi del “colonnello” Schramme; il presidente Kasavubu consegna a Ciombé il suo primo ministro Lumumba. Poi l’assassinio di Lumumba, il nuovo capo del Governo Adula che chiede l’intervento dell’Onu. Ciombé allontanato e poi riproposto come primo ministro. Altro sangue: tra i tanti, muore il segretario generale dell’Onu Hammarskjöld e muoiono tredici aviatori italiani a Kindu. La guerra dura cinque anni. Il 24 novembre 1965 il giovane generale Joseph Desiré Mobutu, comandante dell’Esercito, con un colpo di Stato incruento destituisce Kasavubu e s’ impossessa del potere. Nel suo primo discorso dice: «Bisogna finirla con i tribalismi, con i regionalismi e i discorsi sterili dei politici. Rimbocchiamoci le maniche e mettiamoci saggiamente al lavoro. Io vi chiedo cinque anni di fiducia per ricostruire il Paese e ricreare l’unità».

Mette fuori legge le 230 organizzazioni politiche, scioglie il Parlamento e fonda un partito unico a cui « tutti devono essere iscritti fin dalla nascita ». Impone il culto della personalità, il mobutismo predica la autenticità: «Noi», spiega, «dobbiamo agire come avrebbero agito i nostri padri se non fossero stati vincolati dalle pastoie del colonialismo. Torniamo alle origini, bagniamoci nel fiume della nostra storia e della nostra natura, recuperiamo il senso intatto della nostra cultura». Cambiati i nomi alle città, proibiti gli abiti occidentali, sostituiti i nomi cristiani con quelli autoctoni: Joseph Desiré Mobutu diventa Sese Seko Kuku N’bendu Wa Za Banga che significano la “Terra”, “pepe ardente”, “il guerriero onnipotente che lascia fuoco sulla sua scia e va via di conquista in conquista”. La rivoluzione tocca anche i libri di scuola: Stanley e Livingstone non sono più gli “esploratori di un continente sconosciuto”, ma “l’avanguardia della penetrazione della conquista coloniale” .

Il prezzo del rame alle stelle (a Kolwezi c’è il giacimento più vasto) incoraggia altre iniziative. Nel 1973 si vara la nazionalizzazione delle imprese commerciali industriali e minerarie. L’Union Minière scompare assorbita dalla Gécamines, un ente minerario di proprietà statale sostenuto con i finanziamenti e l’assistenza stranieri. Allontanati dalle stanze dei bottoni gli occidentali, compaiono i manager zairesi. Ma non ci sono benefici per la popolazione, i salari non subiscono aumenti. Il gruppo manageriale zairese, seguendo l’esempio predecessori stranieri, gestisce il Paese come un affare personale. Corruzione altissima, ma efficienza zero. L’agricoltura langue, le città si gonfiano, la disoccupazione cresce. Il crollo del prezzo rame aggrava la crisi. Nel 1965 l'indice dei prezzi del minerale era di 160, 163 nel 1974: in dieci anni è rimasto pressoché immutato. Soltanto tra la fine del 1973 e nei primi mesi del 1974, dopo il golpe militare in Cile ( il maggior produttore del mondo), il prezzo tocca il punto più alto, 150 sterline la tonnellata. In quell'anno lo Zaire introita con l'esportazione di rame 858 milioni di dollari.

Dura poco: nei paesi industrializzati, dopo l'aumento del costo dell'energia, soffia il vento della recessione, che travolge per primi i paesi produttori di materie prime. L'indice dei prezzi del rame crolla a 80, lo Zaire incassa 532 milioni di dollari nel 1975, per scendere a 300 milioni di dollari nel ’76. Il passivo della bilancia dei pagamenti passa in due anni da 86 a 135 milioni di dollari. E tuttavia si continua a spendere. una politica economica dissennata, incoraggiata dagli imprenditori stranieri, dirotta gli investimenti su costruzioni di “prestigio”, costose e altrettanto inutili: il palazzo delle Comunicazioni, il grattacielo tutto vetro e cemento del World Trade Center (un centro import-export) il terzo del mondo: ce n’é uno a New York, l'altro è a Londra. Nessun investimento per incrementare la produzione nelle miniere, dove mancano i pezzi di ricambio per i macchinari e persino il combustibile.

La decolonizzazione portoghese dà un duro colpo alle esportazioni. Lo Shaba s’incunea tra frontiere di Paesi ostili al regime di Mobutu: lo Zambia di Kennet Kaunda; l’Angola di Agostinho Neto. La linea ferroviaria del Benguela, che collega Lubumbashi al porto atlantico di Lobito, lunga duemila chilometri, di cui milletrecento in territorio angolano, è bloccata. Per far uscire il rame dallo Shaba bisogna attraversare lo Zambia, la Rhodesia fino al porto di East London, nel Sud Africa. Con il permesso dei regimi razzisti di Pretoria e di Johannesburg si riescono ad esportare soltanto 25 mila tonnellate di minerale al mese. Troppo poche per un’economia che si regge quasi solo sul rame. L’inflazione raggiunge l’80 per cento, scarseggiano i generi di prima necessità, gli investimenti (nonostante l’invito agli stranieri di ritornare nel Paese) ridotti a zero. Le condizioni poste dalle banche occidentali per fornire nuovi crediti sono pesanti. Si accetta l’offerta di una società tedesca, l’Otrag, costruttrice di missili, che affitta centomila chilometri quadrati nello Shaba settentrionale per costruire un razzo per il lancio dei satelliti. Satelliti di che tipo? Angola, Tanzania, Zambia protestano: temono che gli scopi dell’Otrag siano militari; l’Unione Sovietica rincara: «Gli esperimenti rientrano in un complotto della Nato per stabilire una base missilistica nella regione». E Io Shaba ancora una volta è in primo piano. Adesso c’è chi sostiene che dietro al generale Nathaniel M’Bumnba, comandante dei katanghesi, ci sono i tedesco-orientali desiderosi di mandare a monte i progetti dell’Otrag. Ma non è questa la sola ragione: bloccare la produzione di rame e cobalto vuol dire mettere in crisi il regime di Mobutu. Non è una impresa difficile. Si può sempre far leva sulle rivalità tribali, soffiare sul fuoco di antichi rancori mai sopiti.

Le tribù Lunda che popolano questa zona non si rassegnano a dividere con i Bakongo (che vivono intorno a Kinshasa) le risorse della loro ricchissima regione. Hanno sempre seguito chi potesse favorirne la secessione senza guardare il colore politico. Prima, con Ciombé, hanno difeso gli interessi delle grandi compagnie minerarie e del colonialismo portoghese in Angola. Ora seguono i russi, i cubani, i tedesco-orientali e gli angolani di Agostinho Neto. Da «ex agenti dell’imperialismo e della Cia » a fomentatori di una rivolta che il sudafricano Vorster definisce “marxista” e la Cina “socialimperialista”. Cambiano le alleanze, ma, come rileva Il New York Times, «l’ideologia Lunda rimane solo Lunda».

Negli ultimi quattordici mesi tentano due invasioni. La prima nel marzo dell’anno scorso (1977) ha scarsi risultati. Conquistano Mutshatsha sulla linea ferroviaria Benguela-Lobito, puntano su Kolwezi. Con ingenti aiuti internazionali e le truppe marocchine Mobutu riesce a bloccare l’avanzata. E’ una strana guerra. Non si precisa il numero dei morti, due soltanto i prigionieri katanghesi. Ricordo le testimonianze che raccolsi a Kolwezi: molti soldati governativi erano stati colpiti dagli stessi commilitoni; l’aviazione mobutista aveva sbagliato diversi obiettivi; e, come sempre, si erano consumate vendette: un militare aveva sterminato una intera famiglia (Lunda) perché gli aveva rifiutato una coperta. Nei quattordici mesi successivi la repressione nella provincia “infedele” aumenta: fucilazioni di “traditori”, vessazioni, operai fermati all’uscita delle fabbriche e costretti a consegnare il salario. Scarseggiano i viveri, mancano i medicinali.

Il 13 maggio, quando i cinquemila soldati ex katanghesi si lanciano all’attacco possono contare sull’aiuto di una popolazione esasperata. Dirà il comandante dei legionari francesi, il colonnello Erulin: «L’azione era stata preparata con gran cura e coordinata da una quinta colonna che si trovava all’interno della città». L’operazione si inizia alle sei: in poche ore conquistano l’aeroporto, la stazione radio, l’ufficio postale, e alcuni soldati “regolari” sono uccisi nel sonno. Molti abbandonano armi e divise, e fuggono.Felice Zambetti, Rino Brighenti e Cesare Bottani, tre operai bergamaschi scampati all’eccidio, adesso raccontano: «In un primo momento scambiammo i colpi d’arma da fuoco per esercitazioni. Poi ci accorgemmo che il bersaglio eravamo noi europei ».

L’attacco coglie tutti di sorpresa. Nessun segno nella notte precedente. Ricorda Rino Brighenti: «Quella sera ero andato a cena da amici. Alle due avevo attraversato la città per tonnare a casa. Tutto era tranquillo». Ma c’è un particolare strano in tutta la vicenda: i quaranta tecnici americani che lavorano alla costruzione della linea elettrica di Inga Shaba riescono a mettersi in salvo poco prima dell’attacco. Dice Zambetti: «Qualcuno deve averli avvertiti, saranno venuti a prenderli con gli elicotteri:c’erano la sera prima, alle sei erano già spariti». Aggiunge Bottani: «Per noi, invece, sono stati sei giorni di inferno, tappati in casa con mia moglie e la figlioletta Mara. Hanno scritto che i bianchi sfruttano i negri. Io ero a Kolwezi perché in Italia non trovavo lavoro».

Racconta Brighenti: «Un’ora e mezzo dopo l’inizio dell’attacco sono stato fatto prigioniero. Mi hanno fatto togliere le scarpe, trasportato assieme ad altri europei all’aeroporto. Trentasei ore in piedi sotto il sole e nella notte gelida. Ci tenevano svegli con la minaccia dei fucili, poi mi hanno riaccompagnato a casa, mi hanno legato a un albero e hanno cominciato a sparare. Forse volevano farmi morire di paura, non so. Restai in quella posizione una ventina di minuti, e ogni minuto sembrava un secolo. Infine, mi hanno spinto in casa e hanno ricominciato a sparare. Mi sono salvato non so ancora come ».

L’eccidio degenera in un’ orgia di sangue mercoledì sera «quando attraverso la radio vengono a sapere che arriveranno i paracadutisti francesi». Negozi incendiati, uomini, donne e bambini massacrati. Poi, il silenzio. «Alle quindici e cinquanta di venerdì, quando cominciano a scendere i parà, non si sente più un colpo di fucile». Fuggiti tutti, perché? «L’uomo bianco armato fa ancora paura». Chi erano gli invasori? «Non erano di certo i katanghesi dei tempi di Ciombé. C’erano moltissimi giovani, con gli occhi stralunati, dovevano essere drogati». Avete visto i cubani? «No, non se ne sono visti ».

Il fatto che gli uomini di M ‘Bumba siano stati costretti a ripiegare non significa la vittoria di Mobutu, le miniere restano bloccate. Senza l’aiuto europeo lo Shaba non marcia, e la crisi economica si aggrava. Ma chi è disposto ad aiutare il regime di Mobutu? Cuba ha in Africa 30-40 mila uomini, quanti erano gli americani in Indocina all’inizio del conflitto in Vietnam, e li manovra secondo le direttive di Mosca. Se una guerra serve agli interessi del Cremlino la si appoggia, come in Angola e ora nello Zaire, altrimenti no. Non è una questione ideologica, ma di conquista di nuovi domini. Il Corno d’Africa è un altro esempio. I sovietici non vogliono che il Mar Rosso diventi un mare arabo in cui difficilmente troverebbero basi di appoggio, e i cubani si schierano al fianco dei marxisti etiopici contro i marxisti eritrei che combattono per l’indipendenza.

Gli americani stanno a guardare, salvano “in tempo” i connazionali: non vogliono crearsi altri Vietnam. I francesi vogliono riempire il “vuoto americano”, ma sono già impegnati in “guerre di liberazione” nel Sahara occidentale e nel Ciad: fino a quando potranno sostenere il regime di Mobutu? Ha detto Cheysson, commissario Cee: «Quello che temo di più è che gli occidentali comincino a solidarizzare con i bianchi contro i negri, magari in nome della razza e persino della religione cristiana. Ora io trovo orribile il massacro dei bianchi nello Shaba. Ma non trovo meno orribile il fatto che seicento neri siano stati uccisi dai sudafricani nell’Angola meridionale, o che cinquanta neri siano stati massacrati nello Zimbabwe dagli uomini di Smith. Tutto questo non può essere dimenticato, perché in questo modo daremmo a Vorster un formidabile atout per perpetuare l’apartheid in Sud Africa. E permetteremmo che l’Urss si arroghi da sola il diritto di presentarsi di fronte al mondo intero nelle vesti di unico difensore delle libertà africane».

Fin qui la storia. Dopo 75 anni di colonialismo, 38 anni di dittatura neo-coloniale sempre percorsi dalle guerre, il popolo congolese continua a vivere come uno dei popoli più poveri del mondo in un Paese tra i più ricchi del mondo. Quelli che sembrano o che vengono spiegati dai media come conflitti tribali, o di matrice religiosa ed etnica sono quasi sempre massacri pilotati, per acquisire o mantenere il dominio delle risorse energetiche e quindi strategiche, da potenze estranee all’area dove essi si svolgono. Così l’Africa, e la Repubblica popolare del Congo più di chiunque altro, paga con la guerra perpetua il suo contributo alla globalizzazione.