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Dove non c’è niente c’è tutto. La decrescita tra città e campagna

di Valerio Pignatta - 23/04/2008


 

 

«Le città sono luoghi in cui l’autoproduzione di beni e la prestazione non mercificata di servizi alla persona trovano difficoltà difficilmente sormontabili. In città si deve comprare tutto ciò che serve per vivere, per cui tutte le attività lavorative sono esclusivamente finalizzate a ricavare denaro. Chi vive in città non può fare altro che produrre merci per poter comprare merci. Le città sono luoghi di mercificazione totale».
Maurizio Pallante – Manifesto per la Decrescita Felice

“Non c'è niente” è la frase che viene utilizzata normalmente da un abitante di una grande città per descrivere un luogo in cui impera la natura e non vi sono strutture artificiali costruite dall'uomo per scopi di tipo direttamente economico (negozi, ristoranti ecc.) o per l'industria del divertimento e del turismo.
“Non c'è niente” significa in realtà che non ci sono sedi adatte in cui è possibile spendere i propri soldi per fare degli acquisti, per la maggior parte inutili, o per obnubilare i patemi dell'esistenza con qualche surrogato che li faccia dimenticare: cinema hollywoodiano, discoteca adrenalinica, stadio-guerriglia, residence faraonico con idromassaggio ecc.
Dove “non c'è niente” non ci sono vetrine da osservare annoiati, o al contrario eccitati, secondo la quantità di stimolanti in corpo del giorno. Dove “non c'è niente” non si può fare una scappata a fare shopping, sia esso di borse o di libri o di cibo surgelato.
Dove “non c'è niente”, la sera non si può trovare un bowling o un piano-bar. Tanto meno un pub dove raschiare sul fondo del barile le ultime energie rimaste per rimorchiare uno straccio di relazione umana.
Dove “non c'è niente”, la notte è buia e lampioni non ce ne sono. Insegne luminose nemmeno.
È proprio notte, e quei pochi abitanti spesso sono già a letto da un pezzo. Che follia!
Dove “non c'è niente” non ci sono cartelloni pubblicitari o rotocalchi con quegli uomini e quelle donne bellissimi e super longilinei che non esistono da nessuna parte. Non ci sono le loro espressioni, i loro input. Non esistono. Finalmente, davvero.
Dove “non c'è niente” non ci sono le montagne di oggetti che ci sommergono. Le esposizioni di innovazioni tecnologiche che fanno fremere le dita dei ragazzini e non solo. Non ci sono. Nemmeno una cabina telefonica.
Niente metropolitana, niente aeroporto, niente ipermercato, niente stazione ferroviaria, niente piscina, niente palestra, niente autostrada, niente McDonald's, niente parcheggio sotterraneo, niente semafori, niente salone di bellezza, niente toeletta per cani, niente fabbriche, niente uffici, niente concerti, niente traffico, niente di niente di tutto ciò che costituisce oggigiorno la maggior parte dell'esistenza della maggioranza della popolazione umana. Popolazione che sgobba quotidianamente per acquistare tutto quello di cui abbisogna, o spesso che semplicemente desidera pur non avendone necessità, ubriacandosi con le illusioni che il Sistema offre per mantenere a lungo clienti affezionati e disposti a spendere senza fare troppe domande su questo Paese dei Balocchi che produce alienati e malati a un ritmo raccapricciante.

Cambiare il sistema: è davvero possibile?
Tuttavia non tutti gli abitanti di questo mondo hanno la sventura di vivere in ambienti artificiali e urbanizzati. Una buona fetta di popolazione mondiale vive ancora a stretto contatto con la natura. Altri vi hanno fatto volontario ritorno. Altri ancora, pur vivendo immersi nella plastica e nell'asfalto si impegnano in vista di un mondo migliore e adottano stili di vita compatibili con l'ecosistema e con il benessere psicofisico individuale. E anzi, sono proprio costoro che, in prevalenza, hanno prodotto e producono una cultura “altra” che sogna e propone un pianeta diverso, pulito ed equo.
Ma davvero una riforma di questa società è possibile? Lasciandola tutto sommato così com'è? Prendendo la strada dello sviluppo sostenibile? Fermando le macchine e la dittatura di fabbriche e grandi magazzini come i “decrescenti” invocano? E questo sistema ce lo lascerebbe fare?
Non esiste ancora, a mio parere, una diffusa consapevolezza di quelle che sono le conseguenze intenzionali della cosiddetta società dell'informazione in cui ci troviamo a vivere.
Dice Thomas Hylland Eriksen (Tempo tiranno. Velocità e lentezza nell'era informatica, Elèuthera), noto studioso di antropologia sociale, che «ci sono forti indizi che fanno pensare che stiamo creando una società in cui risulta quasi impossibile pensare qualcosa di più di una frase smozzicata. I vuoti sono colmati da esili frammenti – schegge di informazioni – che invadono i corpi coerenti di conoscenza e li frantumano, apparentemente pronti a spiazzare qualsiasi cosa sia un po' vecchia, un po' grande, un po' lenta».
La città è il luogo d'elezione di questo bombardamento dell'informazione e degli stimoli. Una sorta di tirannia dell'istante che sta devastando le concezioni di passato e di futuro senza le quali l'umanità non può esistere. Senza contare, come dice Eriksen, che la creatività può derivare solo da un intervallo…
Si annaspa invece nell'elaborazione di un numero sempre maggiore di dati. Il servizio sanitario nazionale norvegese ha pubblicato, nella metà degli anni Novanta, uno studio in cui si precisa che il 60% delle risorse destinate dallo Stato a detto servizio, viene impiegato per l'elaborazione dei dati dello stesso.
E la produzione di oggetti? Che tempi ha? Che tempi detta? Oggi può capitare che un prodotto arrivi sul mercato già superato e obsoleto. Per esempio con i computer succede spesso.
Possiamo pensare davvero di uscire da questa “Rete” di dati, oggetti, consumi e maxischermi rimanendovi dentro?
L'accelerazione caratteristica delle società urbane è il dato di fatto che spinge a far pensare che non sia più possibile modificare in senso più umano il mondo occidentale.
Rinverdire la “civiltà metropolitana” o renderla più “giusta” non cambia molto l'essenza della situazione dell'umanità su questo pianeta (Cfr. Green Anarchy Collective (a cura di), Green anarchy. Introduzione al pensiero e alla pratica anticivilizzazione, Nautilus ). Se davvero ci interessa prenderla in considerazione bisognerà prendere atto che la felicità, ma anche solo la serenità, sono traguardi ben lontani dall'essere realizzati. Il dominio dei pochi sui molti è tuttora la regola dominante tra gli umani. La speculazione e la corsa al potere, al denaro e alla fama sono i “valori” più diffusi E le città, massmediatici strumenti per eccellenza, sono la culla di questa “cultura” che mercifica ogni cosa, ambiente e relazioni comprese. Basti pensare al nuovo fenomeno del turismo ai poli, per assistere allo scioglimento dei ghiacci dovuto all'effetto serra, che sta producendo ancora più danni e velocizzando alquanto l'evento. La città non si ferma davanti a nulla.
E non si parli, al solito, del servigio della produzione di cultura che le città offrono agli umani.
Il fenomeno del confinamento nel ghetto della cultura del pensiero realmente rivoluzionario in senso concreto e, non astratto, è stato lucidamente descritto da Bernard Charbonneau (Bernard Charbonneau, Il sistema e il caos, Arianna Editrice): «Nel meccanismo dell'organizzazione, la Cultura ha la funzione di introdurre l'apparenza della libertà e della vita. Più questa è grigia e rigidamente programmata, impersonale, più i personaggi debbono agitarsi su una scena pittorescamente decorata; per la massa anonima, questi attori, il cui nome è scritto a caratteri cubitali, mimano l'amore, le passioni, il sangue. Se sono pagati tanto, è perché assolvono una funzione essenziale: fabbricare l'anticorpo senza il quale l'organizzazione perirebbe. In mancanza di una preda, il popolo di contenta dell'ombra: dello spettacolo. [...] Ciò che un tale sistema non assimila, lo stritola o espelle fuori dal reale. E ciò che non riesce ad annientare, lo assimila».

Vivere alla periferia dell’Impero
È dunque tutto il sistema che va abbandonato, così come i topi abbandonano una nave che sta affondando. Non esiste altro modo per continuare a garantire un futuro ai nostri figli e al pianeta se non ricostruire, in altri luoghi “fisici”, un altro modello che abbia il meno possibile contatti con il primo. Anzi, i lavori sono già in corso da un pezzo.
Nei luoghi più decentrati del sistema, da molti anni vivono persone che hanno abbandonato gli schemi mentali ed economici prevalenti nel centro del sistema stesso. In queste “periferie” è possibile (sebbene non sempre e non facilmente) vivere relazioni umane diverse, lavorare per la serenità della propria vita e per la propria libertà, senza troppi orpelli materiali che appesantiscono l'esistenza.
Queste persone sono sempre alla ricerca di un miglioramento del proprio uso del tempo e della natura, nonché della creatività e della convivialità. È un processo in costante evoluzione, sia individuale che collettiva. E non intravedo, sino ad ora, altre strade per un reale cambiamento ecosociale.
Un mondo radicalmente decentrato che non abbisogna delle illusioni del consumismo, che non conosce mediazioni nella vita di coloro che ne fanno parte, e che fa a meno di istituzioni e manifestazioni fisiche di questo incubo di cemento e petrolio, è forse quello che serve realmente. La costruzione di questi nuovi monasteri del terzo millennio, come li definisce Maurizio Pallante, è già iniziata da qualche decennio in tutto il mondo, e continua a evolvere.
Essi sono i laboratori di una nuova umanità affacciata su splendide visioni color verde-azzurro. Quei monti e quei panorami dove “non c'è niente”.

Una civiltà moribonda e una civiltà nascente
Dove “non c'è niente” c'è proprio quello che manca e che non ci potrà mai essere in una città: il mondo nella sua dimensione reale. La natura così com'è da milioni di anni. Un ritmo regolare e fisiologico. Un'essenzialità che difficilmente deborda nel superfluo.
Dove “non c'è niente” ci sono la luna e le stelle. C'è il cinghiale che viene a bere alla fonte e i bramiti del capriolo in amore.
Dove “non c'è niente” non c'è proprio nulla che manca, tranne l'odore del gasolio e il rumore assordante delle auto che rincorrono l'esistenza senza raggiungerla mai. Compressi tra frammenti di tempo sempre più piccoli gli umani, nel sistema, si agitano per fronteggiare (o corteggiare) la vita. Ma come ci ha insegnato M. Kundera (La lentezza, Adelphi) velocità e intensità dell'oblio sono direttamente proporzionali.
E chi non ha tempo per fermarsi a ricordare chi è e cosa sta facendo può solo continuare a produrre e acquistare sino alla fine dei tempi, per la gioia del liberismo trionfante.
Dice argutamente Pallante che «Per aver bisogno di comprare tutto ciò che serve a soddisfare i propri bisogni vitali bisogna essere incapaci di tutto. Solo chi non sa fare niente di ciò che gli serve può diventare un consumista senza alternative» (Maurizio Pallante, “Il mondo lo salvo con l'autoproduzione... beh, quanto meno mi salvo”, documento circolato via e-mail nel circuito del nascente movimento della decrescita, 1 luglio 2005). Questa è solitamente la condizione in cui si viene a trovare chi vive in un appartamento al quinto piano, lavora nove ore al giorno e la domenica si incolonna per andare al mare. Come può estrinsecare la propria creatività?
Al contrario, un certo livello di autoproduzione e autosufficienza è sempre possibile in determinate situazioni decentrate (dove “non c'è niente”) e permette un notevole risparmio di ore di lavoro, che dovrebbero essere impiegate per guadagnare soldi. L'autosufficienza o anche solo l'autoproduzione di alcuni beni o servizi permettono inoltre di integrare il lavoro manuale con quello intellettuale, divisione che è da secoli alla base di profonde disuguaglianze sociali. Autoproduzione e autosufficienza infine sono paradossalmente pratiche che aprono alla convivialità, allo scambio, alla relazione disinteressata. Ve lo immaginate il libero scambio di conoscenze, saperi e manualità al centro commerciale di turno? C'è una civiltà moribonda e una civiltà nascente.

Schierarsi dalla parte della responsabilità
Ovviamente autoprodurre o vivere in campagna non è la discriminante che stabilisce la coerenza e onestà di una persona verso se stessa, gli altri o il pianeta. Anzi, si può essere contadini a tempo pieno e lavorare per le multinazionali dell'agroalimentare, assolutamente presi nel circuito di banche, prestiti e ultimi modelli fiammanti di trattori energivori.
C'è infatti, a monte, un bivio: tra il principio di responsabilità da una parte e il consumo narcisistico e frenetico dall'altra. Va fatta innanzi tutto una scelta che riguarda la propria etica personale. Va chiarito, anche con se stessi, dove si vuole stare. Non c'è più spazio (e nemmeno tempo) per il politically correct. Bisogna schierarsi. Come ha felicemente annotato Hans Jonas (Sull'orlo dell'abisso. Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, Einaudi): «Non si deve prima valutare le prospettive e poi, in base a queste, decidere se si debba o meno fare qualcosa. È vero semmai il contrario: si deve riconoscere il dovere e la responsabilità e agire come se vi fosse una chance, persino se personalmente si nutrono seri dubbi al riguardo». E ancora: «Una semplice intuizione fa risultare come la presenza di responsabilità sia meglio della sua totale assenza. È un arricchimento del mondo. Quindi diviene un dovere della responsabilità che continui ad esservi responsabilità anche in futuro. Questo è possibile solo se gli esseri che possono avere responsabilità [gli umani, n.d.r.] continuano a esistere. [...] In altre parole: il mondo non è privo di valori; vi è almeno quell'unico valore nel mondo, l'esistenza della responsabilità, che è meglio della sua non-esistenza».
In secondo luogo, poi, a mio modesto parere, va considerata l'irrecuperabilità delle metropoli attuali e il loro necessario smantellamento quali luoghi di sofferenza, di delirio, di frantumazione temporale e di distruzione dell'ecosistema.

Il seguente articolo è tratto dala rivista Consapevole 14.

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