Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / ‘68, non c’è stato ma si vede

‘68, non c’è stato ma si vede

di Filippo D'Angelo - 26/05/2008

  
Secondo Gilles Deleuze il Sessantotto rimase confinato all’individuo e non riuscì a concretizzarsi in una realizzazione politica durevole. L’articolo, passando in rassegna le recenti elaborazioni della storiografia francese, illustra come il giudizio di Deleuze sia oggi superato, sostituto da una più attenta riflessione storica.
Oggi il Maggio francese viene innanzitutto pensato come un movimento socialmente e geograficamente più ampio degli studenti di Parigi, un movimento che seppe coinvolgere tutti gli strati della società.
Anche la periodizzazione del Sessantotto francese subisce un ampliamento, collocandolo in una dimensione di lungo periodo che va dalla guerra di Algeria del ‘62 fino all’elezione di Mitterrand a presidente della repubblica (1981).


Il maggio del ’68 non ha avuto luogo» scriveva il filosofo Gilles Deleuze in un celebre articolo pubblicato a metà degli anni 80. Con questa affermazione paradossale, l’autore dell’Anti-Edipo intendeva dire che il potenziale rivoluzionario del Maggio era rimasto circoscritto a forme di espressione individuali, senza riuscire a convertirsi in proposte politiche all’altezza delle aspettative. Il ‘68 aveva fatto irruzione nel presente come «un’apertura del possibile», ma si era poi eclissato dalla storia per restare una potenzialità incompiuta del passato. Riletto a quarant’anni di distanza, il ‘68 sembra invece non solo avere avuto luogo, ma essersi sedimentato nella vita politica, sociale e intellettuale. Questa è almeno la tesi che emerge dalla maggior parte delle pubblicazioni francesi consacrate al quarto decennale del Maggio, un’imponente massa di volumi composta da saggi storici e romanzi, libri di memorie e album d’immagini d’epoca, raccolte di documenti d’archivio e pamphlet. Il presupposto della percezione del ‘68 quale fenomeno ormai metabolizzato dalla società francese è la sua trasformazione da episodio mitico a evento storico. I rivolgimenti di quarant’anni fa sono puntualmente contestualizzati persino nei casi in cui vengono rievocati attraverso il prisma della scrittura romanzesca, come in ‘68 amore mio, romanzo autobiografico di Daniel Picouly. Quanto al lavoro degli storici, l’ampiezza dello sguardo da loro rivolto ai giorni che sconvolsero la Francia assume dimensioni in gran parte inedite. I volumi Maggio-Giugno ‘68 (a cura di Dominique Damamme, Boris Gobille, Frédérique Matonti e Bernard Pudal) e ‘68: una storia collettiva (curato da Philippe Artières e Michelle Zancarini-Fournel) insistono sulla molteplicità e complessità delle cause che concorsero agli avvenimenti del Maggio. Il ‘68 non è più visto come un evento essenzialmente parigino e studentesco, sorto dallo slancio estemporaneo di giovani idealisti, ma come un movimento di massa le cui radici si ramificavano dalla capitale alla provincia profonda, dalla borghesia intellettuale alle classi popolari. Anche per quanto riguarda la durata del ‘68, gli storici sembrano ormai prediligere una visione a più ampio raggio. Secondo le loro ricostruzioni, l’epicentro del fenomeno si estese dal mese di maggio a quello di giugno (teatro d’importanti proteste operaie), e il contesto delle cause e ripercussioni dell’evento andrebbe inquadrato in un arco temporale di almeno vent’anni: dalla fine della guerra d’Algeria (1962) all’elezione di François Mitterrand (1981). Alla luce di queste riletture dell’evento, le dichiarazioni di Sarkozy sulla necessità di cancellarne una volta per tutte l’eredità suonano come una riformulazione estrema, e strumentale, delle tesi degli intellettuali neoconservatori, la cui matrice anti-sessantottina è brillantemente ricostituita da Serge Audier (Il pensiero anti-’68. Saggio sulle origini di una restaurazione intellettuale). Il ‘68 appare troppo solidamente radicato nella storia per pensare di poterlo estirpare dai costumi e dalle mentalità. Le conquiste civili cui contribuirono i ventenni di allora sono state introiettate anche dai loro più severi detrattori, i quali spesso non sono altro che quegli stessi ventenni convertitisi nel frattempo al verbo neocon. L’assimilazione del Maggio è inoltre avvenuta tramite un’opera di depurazione delle sue peggiori scorie ideologiche, come l’ubriacatura maoista o le tentazioni insurrezionali, fenomeni di cui nemmeno i più ispirati fra i cantori delle barricate oserebbero ormai rivendicare l’attualità. Fare del ‘68 un oggetto di polemica politica significa dunque dimenticare un lungo processo di rielaborazione culturale; significa, soprattutto, ignorare la natura composita di un fenomeno ampiamente sedimentato. Ciò che del ‘68 può ancora suscitare coinvolgimento o passione non è il destino delle posizioni ideologiche allora sul terreno, ma la dimensione inattesa di un evento che seppe rimettere in discussione un ordine simbolico di valori, dando voce a settori della società esclusi dallo spazio della parola pubblica. [...]