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La storia come maestra di vita? Non per noi, non ora

di Michele Orsini - 12/09/2008

                                                                                    

                                                                                   

“La storia come maestra di vita” è una formula trita e ritrita, troppo raramente messa

in discussione. Se è vero che è possibile trarne degli ottimi insegnamenti, la storia può costituire anche un pericolo e questo soprattutto per coloro che sono costretti a studiarla, ovvero i giovani: è questa la tesi di Sull’utilità e il danno della storia per la vita, scritto di Friedrich Nietzsche pubblicato nel 1874.

L’opera, che nell’intenzione del filosofo costituiva la seconda delle sue considerazioni inattuali,  critica la concezione dello svolgersi della storia come progresso, che porta ad affermare il presente in cui si vive come superiore e progredito rispetto alle epoche passate: si tratta di una posizione oggi forse ancor più inattuale, nel senso di inaccettabile, che nel momento della stesura.

Per Nietzsche la storia assume la massima pericolosità quando viene considerata alla stregua di una scienza e, quindi, si avanza la pretesa della sua oggettività, mentre la storia non risponde a quel tipo di leggi che lo scienziato cerca e, in altri ambiti, generalmente trova.

La storia deve essere al servizio della vita: con lo sguardo al passato dobbiamo sì imparare in vista del presente e del futuro ma, se il fenomeno storico è usato come semplice oggetto della conoscenza, esso è morto, e porta l’uomo a quell’eccesso di storia in cui anche la vita stessa  degenera: “mi è odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività”.

La felicità di un uomo dipenderebbe dalla sua capacità di vivere, di sentire in modo

non storico.

Tuttavia Nietzsche non propone di rifiutare la storia, anzi i due modi di sentire, storico e non, sono entrambi necessari alla salute dell’uomo, che deve saperli però separare, dosare ed usare correttamente. Sono tre i tipi di storia che possono risultare utili alla vita: la storia monumentale, propria di chi è attivo e potente, la storia antiquaria, di chi preserva e venera, la storia critica, di chi soffre e ha bisogno di liberazione. Ognuno ha bisogno di conoscere il passato solamente come una di queste tre storie, le quali non devono però mai confondersi l’una con l’altra, perché diventerebbero dannose. Anche nelle loro forme pure però i tre tipi di storia rischiano di portare a rigidità, impotenza: quella monumentale può creare dei miti incapacitanti, deleteri  per chi non può essere a sua volta grande, quella antiquaria può portare a un’eccessiva idealizzazione del passato, quella critica a un suo rifiuto a prescindere.

Ad oggi la nostra cultura è vittima, contemporaneamente, di tutti questi errori: è storia monumentale, ad esempio, quella che glorifica la Resistenza, proposta come mito fondativo, ma a che cosa serve un mito che invece di unire un popolo lo divide? Ovviamente gli eroi mitici devono essere per forza perfetti, senza macchia e senza paura: guai a chi osi metterlo in dubbio! Così si possono spiegare le reazioni scomposte agli ultimi libri di Giampaolo Pansa: non poteva essere altrimenti, poiché le opere in questione si inscrivono nell’alveo della storia critica, del tutto incompatibile con quella monumentale; mentre la prima è affine alla storia come scienza, quindi particolarmente interessata ai fatti, la seconda vede i fatti, se contrastano con il mito, come dei veri e propri ostacoli da eliminare.

La storia potrebbe, in condizioni culturali favorevoli, essere maestra di vita, ma oggi no, è soltanto dannosa: come se non bastassero le polemiche relative all’esistente, all’attualità, ciclicamente si innescano quelle legate al passato. Allora fioccano le accuse di revisionismo, ognuno presenta le proprie opinioni come “fatti”, anzi “fatti veri” e così via. E se questo è un terreno scivoloso per quanto riguarda la cronaca, figuriamoci quanto può esserlo in relazione al passato. Così Alemanno distingue il fenomeno fascismo dal fenomeno leggi razziali e puntualmente si scatena la bufera…poi La Russa chiede rispetto per i combattenti della RSI e si stupisce (o finge di farlo) perché qualcuno si è scandalizzato. Niente di nuovo. Una fortissima sensazione di noia. Che chiunque abbia dato la vita per un ideale in cui egli credeva meriti rispetto, anzi di più, sincera ammirazione, pare un’ovvietà. Ma certe cose non si possono dire (e La Russa dovrebbe saperlo): ogni fascista è un mostro, punto e basta. Non doveva obbedire agli ordini: l’obbedienza, difatti, non è più un valore. La fedeltà ai valori giusti è l’unica che conta. Ma attenzione, con certi interlocutori anche riconoscere l’eroismo partigiano può scatenare reazioni rabbiose, inconsulte. Faziosità uguale e contraria. E’ molto difficile poter pensare che in una guerra l’onore stia tutto da una parte e la bestialità tutta dall’altra, eppure sembra che lo facciano quasi tutti.

Finché l’atmosfera culturale non sarà cambiata, per favore, non parlateci di utilità della storia, non ammorbateci col valore della memoria. Memoria di che, poi? Si può ricordare soltanto ciò che si è vissuto personalmente.

Se la  storia è una maestra di vita noi, con la nostra attuale cultura, non siamo all’altezza del suo insegnamento. Abbiamo bisogno prima della vita, per poter poi costruire una cultura degna di tal nome. Oggi, come nel 1874, la cultura è malata di una malattia storica e per contrastarla non intravediamo nessuna ricetta più valida di quella di Nietzsche: bisogna vivere in modo antistorico, in un oblio del passato, o in modo sovrastorico, volgendo lo sguardo a ciò che è eterno.