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La crisi è strutturale?

di P. Pagliani - 08/10/2008

 

 

Una vecchia canzone di Gianfranco Manfredi aveva un ritornello simpatico che diceva:

La crisi è strutturale,

E’ nata col capitale.

Sta in mezzo al meccanismo di accumulazione.

Il riformismo non sarà una soluzione”.

 

Si era ancora convinti, correvano allora i primi anni Settanta, che il conflitto principale nel capitalismo fosse quello tra capitale e lavoro. A dir la verità, credo che la stragrande maggioranza dei cosiddetti "comunisti" sia ancora convinta che la contraddizione principale sia quella tra capitale e lavoro, o varianti tardo-terzomondiste (o anche tardo-sottoproletarie alla Pasolini - vi ricordate il geniale “Uccellacci e uccellini” dove il corvo marxista viene mangiato dai sottoproletari Totò e Ninetto?).

La crisi attuale, se ancora ce ne fosse bisogno, dimostra che così non è. Certamente esiste “anche” la contraddizione tra capitale e lavoro, ma questa solitamente ha un’importanza minore delle contraddizioni “orizzontali” intercapitalistiche tra vari gruppi, gang, mafie, settori, centri di interesse (poteri forti) e Stati (sissignori: anche Stati, che non si sognano per niente di estinguersi, come è sotto gli occhi di tutti - ultimo esempio le recenti decisioni dell’Ecofin: ognuno per sé, ma “coordinati”, mi raccomando!).

La contraddizione tra capitale e lavoro, ma anche tra popoli oppressi e oppressori, può influenzare questi conflitti ed esserne influenzata. Ma la storia degli ultimi 150 anni sembra escludere che essa sia il motore di un’ineluttabile trasformazione rivoluzionaria destinata a inserirsi nei “meccanismi strutturali” di crisi, solitamente pensate come “catastrofiche”.

Quando rivoluzione c’è stata, c’è stata perché un’organizzazione politica - il Partito - si è inserita coscientemente e soggettivamente in mezzo a dirompenti conflitti intercapitalisti che indebolivano i dominanti e i loro Stati, alla guida di classi e ceti che in quella debolezza vedevano la possibilità di emanciparsi (innanzitutto i contadini poveri e marginali che - è un dato di fatto almeno dai tempi di Thomas Münzer - si sono dimostrati essere sempre più rivoluzionari dei ceti cittadini, moderna classe operaia compresa).

 

Il cammino incomincia, e il viaggio è già finito” (il Corvo di PPP, per l'appunto)

 

Credo però che non sia ancora condivisa la consapevolezza che la - sacrosanta - rivoluzione bolscevica sia stata più che una “rivoluzione contro il capitale” una “rivoluzione contro Il Capitale”, come aveva lucidamente capito quasi un secolo fa Antonio Gramsci.

In realtà non lo aveva forse capito nemmeno Lenin e men che meno lo avevano capito i suoi successori, convinti di stare costruendo il Socialismo - anche Stalin ne era convinto. Come è andata a finire lo sappiamo. E forse il perché adesso lo si può capire meglio, a meno che ci si voglia continuare a consolare straparlando di “dittature burocratiche”, di “tradimenti” o di aspetti “psicopatologici” di Stalin (atteggiamento pericolosissimo perché esprime la indisponibilità a capire e l’essere alla fin fine pronti a ricominciare da capo tutta la tragedia).

 

Capitalismo e conflitto

 

Il meccanismo di accumulazione non ha in sé il germe della crisi per via di limiti strutturali che non siano, in ultima istanza, conflitti tra gruppi di potere. Anche la questione ecologica (sicuramente messa in causa da un meccanismo di accumulazione senza fine - nel senso anche di “senza un fine”, se non il potere), anche la questione ecologica, dicevo, va posta metodologicamente e logicamente dopo e in dipendenza dai conflitti di potere (le guerre portavano pestilenze - un fattore “ecologico” oggettivo - ma i sovrani se le facevano lo stesso, magari cadendo vittime di quel fattore ecologico).

In altre parole non esiste un meccanismo oggettivo e intrinseco che inceppa il capitalismo (ad esempio la marxiana “caduta tendenziale del saggio di profitto”). Anche perché sarebbe meglio dire “i capitalismi”, le varie società capitalistiche.

Ciò può sembrare un’eresia - e sicuramente lo è per il marxismo a partire da Kautski in poi. Ma in realtà è non riconoscere questo che cozza contro l’insegnamento basilare di Marx. Perché se c’è una cosa che il geniale barbuto ha detto a chiare lettere è che ogni meccanismo economico, ogni grandezza economica nasconde in verità un rapporto sociale e che questo rapporto sociale è conflittuale.

D’altronde cos’è la “sovraproduzione” se non un punto di rottura della concorrenza tra agenti capitalistici? Cos’è la “sovraccumulazione” se non una lotta per la ricerca di profitto per capitali che non possono più essere reinvestiti nei settori precedenti a causa della lotta-concorrenza di cui sopra?

Certo, sto andando giù con l’accetta, tagliando molti passaggi. Ma è al concetto di “conflitto” che bisogna alla fine, ma alla svelta, arrivare.

Cos’è una “crisi” se non una svalutazione di “assets” che danneggerà molti (a partire dai ceti medi e popolari, ma non fermandosi lì) e avvantaggerà pochi, in un redde rationem simile alla notte di S. Valentino?

La svalutazione di capitali è sempre stata la politica predatoria dei paesi forti contro quelli più deboli. E’ successo in epoca coloniale, ma la recente crisi delle “Tigri asiatiche” aveva alla base lo stesso meccanismo.

Ora la differenza è che, per usare una metafora, questa guerra di razzia si è spostata all’interno delle stesse nazioni capitalistiche sviluppate. Una sorta di guerra civile.

I titoli bancari sono sulle montagne russe. Se si guarda l’andamento delle quotazioni di borsa e lo si compara con quello dei volumi scambiati, si nota che c’è sempre qualche speculatore influente che ogni giorno dà inizio alle danze vendendo volumi consistenti di azioni, seguito da una fibrillazione di piccoli risparmiatori in preda al panico, ma che in realtà mobilitano volta per volta piccole quote che i suddetti speculatori sono pronti a papparsi al momento opportuno.

Attacchi che vanno in una direzione e poi in un’altra. Un giorno sembrava che Banca Intesa e Santander fossero gli avvoltoi dietro la catastrofe azionaria di Unicredit, che si diceva essi volessero acquistare. Due giorni dopo invece Unicredit è sospesa per eccesso di rialzo mentre Intesa è sospesa per eccesso di ribasso (ma come? se due giorni prima aveva così tanta liquidità da far pensare ad un Opa ostile su Unicredit?). Poi i ruoli si sono invertiti, giù una e su l’altra e via così. Che cosa sono queste se non battaglie dove i mutui sub-prime sembrano contare quasi come un fico secco?

E’ chiaramente solo un’analisi ad “occhiata”, non approfondita, ma che fornisce indicazioni abbastanza chiare che vanno proprio in quella direzione: una guerra tra gang, dove i boss sono quelli che picchiano più duro (e sono anche disposti, a volte, a rischiare di più).

 

Arrivano i nostri! Arriva Lord Keynes!

 

Ma se il conflitto è il motore della crisi, che miglioramento possono dare le cosiddette “politiche keynesiane”?

Certo che è buffo vedere un Tremonti atteggiarsi a keynesiano di ferro e una Sinistra che fino a ieri scambiava il Socialismo con l’intervento statale, vuoi spiazzata come quella radicale, vuoi addirittura inviperita e a difesa della “mano invisibile del mercato”.

Ma non preoccupiamoci: già il centrosinistra sta facendo retromarcia annunciando che è, eventualmente,  pronto a una Grosse Koalition di supporto agli, eventuali, salvataggi statali (il paradosso è che è la Destra che deve convincere la Sinistra a non mettersi di traverso all’interventismo statale).

Ma non preoccupiamoci per modo di dire, perché invece c’è molto da preoccuparsi. Non tanto perché ci potrebbe essere l’ennesima ammucchiata italiota, ma perché le politiche “keynesiane” (o per lo meno quelle che si insiste a definire “keynesiane”), storicamente hanno risolto molto poco.

E qui il concetto di “conflitto” entra in gioco col massimo della sua forza.

Eppure sono in pochissimi - forse il primo, tra i pochissimi, è stato Gianfranco La Grassa, che da tempo pone l’accento sul concetto di “conflitto”- sono pochissimi a ricordare che dopo dieci anni di New Deal il PIL statunitense non era ancora tornato ai livelli di pre-crisi - si sta parlando di quella del ’29 ovviamente - e ci volle una guerra mondiale per risollevare le sorti dell’economia statunitense e globale.

Fa paura ammetterlo? Sicuramente, ma la paura è pessima consigliera.

Basta solo la considerazione di cui sopra per mettere sul tavolo della discussione un groviglio di temi e problemi, tutti da dipanare e con fatica perché - occorre ammetterlo - non siamo molto attrezzati per affrontarli, così lenti a disfarci dei vecchi assiomi e della vecchia mentalità.

Proviamo a ragionare su questa crisi senza le fette di salame ideologiche sugli occhi.

Proviamo anche solo a riflettere sul fatto che nel ’29 si pensava a una “crisi terminale” del capitalismo e che dopo quindici anni gli Stati Uniti, che sembravano in ginocchio, erano diventati i padroni del mondo. Quindici anni, il tempo di un sospiro.

Certo, avevano vinto una guerra mondiale. Ma come si fa a vincere una guerra mondiale di quelle proporzioni se, almeno formalmente e secondo i parametri della razionalità economica, l’economia è uno straccio? Qual’è l’arcano?

 

Si passa il Rubicone

 

Cosa vuol dire allora “economia”? Cosa vuol dire “crisi”?

E la cosiddetta “questione sociale”?

Si farà sentire, eccome. E quelli che lo sanno meglio sono “lor padroni”.

Perché, sennò, “lor padroni” avrebbero dispiegata dal primo ottobre 2008 sul suolo USA una brigata di fanteria, il “First Brigade Combat Team”, una brigata da combattimento che era stata usata in Iraq? Con il compito esplicito, oltre a quelli che riguardano il solito “pericolo terrorista”, di “affrontare disordini civili e controllare le folle” e quindi infrangendo il Posse Comitatus Act - una legge tuttora in vigore formalmente - che proibisce un simile uso delle forze armate in ambito interno.

Come si inserisce la “questione sociale” nell’economia, nella crisi, nei conflitti, nella questione policentrismo-monocentrismo?

E, soprattutto, cosa avremo da dire noi, in quel momento? Possiamo ancora gingillarci col sogno della “classe che ha da perdere solo le proprie catene”?

Quale classe? Quali classi? E con che soggettività?

Mi ricordo che molti anni fa in Africa uno stregone aveva lanciato i guerrieri di una tribù contro gli invasori bianchi. Proposito ammirevole e condivisibile (anche perché erano - se non mi sbaglio - dei sadici mercenari). Ma quello che non andava è che li aveva convinti a lanciarsi contro i mitra con le sole lance perché aveva dato loro una pozione magica che li rendeva invulnerabili.

Fu una strage.

 

Vade retro chi, in buona o cattiva fede, continua a cercare pozioni magiche o, peggio, a propinarle agli altri.

Io non ho più intenzione di raccontar storie. Anche se le storie sono belle.