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La «villotta» friulana esempio di lirica popolare ingoiata e dispersa nel gran nulla della modernità

di Francesco Lamendola - 10/11/2008

Una concezione falsa e sdolcinata della cultura popolare vorrebbe che essa esprima contenuti semplici e ingenui, sostanzialmente superficiali o, comunque disimpegnati; e ciò dovrebbe valere, si pensa, specialmente per le canzoni popolari.
Nulla di più lontano dal vero.
Si prenda il caso delle "villotte" friulane: la più tipica manifestazione della letteratura orale del vecchio Friuli.
La villotta è una composizione polifonica che si origina fra il XV e il XVI secolo e che si diffonde, dal natio Friuli (villotta friulana) ad ampie zone dell'Italia settentrionale (villotta veneziana, villotta mantovana, ecc.). Presenta alcune analogie con i "lieder" germanici (l'influsso culturale tedesco è stato molto forte nel Medioevo friulano) e anche, a nostro avviso, con le "dojne" romene (anche il romeno, come il friulano, è una lingua neolatina che ha resistito, nell'ambito di una civiltà agro-pastorale, alle pressioni e alle migrazioni di innumerevoli stirpi slave e germaniche).
Le villotte consistevano di un breve testo poetico popolare, ricco di sentimento e di malinconia, formante una quartina o una sestina, cui più tardi venne aggiunto un "nio", serrata parte conclusiva; e venivano cantate a tre o quattro voci, con movimenti in imitazione e frequenti passi omoritmici (Enciclopedia Garzanti della Musica).
Impossibile, quindi, separare il testi dalla musica; impossibile separare il coro dalla danza, scandita al ritmo degli zoccoli di legno, che costituivano la tipica calzatura contadina. Chi legge il testo di una villotta, lo tenga sempre presente. È solo una vaga idea di essa che può formarsene il lettore, specialmente il lettore non friulano (che, pertanto, deve ricorrere a una traduzione in lingua italiana) attraverso la pagina scritta; le villotte andrebbero ascoltate e ammirate nel vivo della danza popolare.
Ebbene, se la villotta è l'espressione più profonda e sentita dell'anima popolare friulana, essa è anche una finestra spalancata sulla sua profonda tristezza, sul senso pessimistico della vita, che il popolo friulano si è formato attraverso una storia millenaria fatta di continue invasioni, di povertà, di dura lotta per la sopravvivenza.
Ne abbiamo già parlato in diversi precedenti lavori, ad esempio negli articoli «Un film al giorno: "Gli ultimi", di Vito Pandolfi e David Maria Turoldo, 1963»; « Una pagina al giorno: così muore un paese, di Alcide Paolini»; e «Un quadro al giorno: "Forni di Sotto", di Luigi Diamante, 1930» (tutti consultabili sul sito di Arianna Editrice).
La villotta è una confessione corale: la confessione dell'umile, eroico coraggio di un piccolo popolo che, sballottato nelle tempeste della storia, trova la forza di sopravvivere in una virile rassegnazione e nel pudore dei propri sentimenti. Proprio perché il friulano è assai restio a mettere in piazza i propri sentimenti, la villotta è uno strumento prezioso, insostituibile, per gettare uno sguardo oltre la facciata; per farsi un'idea di quanto tenero e vulnerabile sia il suo cuore, dietro la dura scorza di una certa qual selvatichezza di modi.

Scriveva Bindo Chiurlo (1886-1943), insigne figura di cultore e di studioso della cultura friulana - nonché esperto di letterature moderne, e particolarmente di quella ceca - nel suo saggio «La letteratura ladina del Friuli», 1922; rist. Udine, F.lli Ribis Editori, 1978, pp. 18-31):

«… La prima manifestazione artistica che possediamo nel nostro ladino sono forse alcune laudi trascritte in forma friulana, tra altre ancora chiaramente venete e toscane, nel laudario della confraternita udinese dei Battuti edito da Giovanni Fabris; cui seguono, a qualche distanza, due poesie profane d'imitazione provenzale (1380; 1416); laddove il primo documento d'arte del ladino retico risale appena ai primi del Cinquecento.
Tuttavia le manifestazioni letterarie più antiche, per quanto in continuo rammodernamento nella sostanza e nella forma, restano come altrove - crediamo - quelle popolari.
Il Friuli, al contrario degli altri popoli settentrionali, manca quasi assolutamente di canti narrartivi, ma, in compenso, abbonda di canti lirici e di fiabe in prosa, accostandosi in ciò all'Italia centrale e meridionale.
Le fiabe, pubblicate sparsamente in gran numero, ma non ancora studiate seriamente da alcuno, si rivelano a un primo esame con caratteristiche piuttosto nordiche che italiche, e l'orribile, il fantastico a forti tinte prevalgono sull'andamento più gentilmente fantasioso delle favole latine, a quel modo che la strega esclude da noi quasi totalmente la fata benigna; che tutt'al più ci si presenta nordicamente in forma di vecchierella. Così, e più, le leggende. Certo queste fantasticherie immoderate, "romantiche", appaiono in contrasto colla mentalità paesana, se non cogli influssi nordici e con la storia profondamente agitata e turbolenta del nostro medioevo, atta ad eccitare le fantasie in modo non lieto.
Affatto nostra, invece, è la lorica popolare, che, pur avvicinandosi per qualche caratteristica, ai "lieder" tedeschi, non presenta dirette parentele con altre vicine né lontane. Onde la villotta, fiorita in un breve angolo di terra, e pur così abbondante da pareggiare gli strambotti e i rispetti toscani, è, per eccellenza, la voce del popolo nostro: vice assolutamente ingenua ed originale che ha, come documento psicologico, ben altra importanza che la lirica dell'Italia centrale e meridionale, comune, con lievi differenze, a popoli con temperamenti diversissimi, come il siciliano e il toscano, il calabrese e il marchigiano. Ma la villotta che nacque in Friuli e restò circoscritta al Friuli, escludendone quasi ogni altra forma di canto (preghiere popolari vivono ancora verso il mare e tra i monti, ma in italiano o italiane quasi interamente nella lingua), rispecchia le vicende e il carattere di questa nostra terra, vissuta di vita propria nel cozzo di genti diversissime: non ricca dello spirito romanzesco che si rileva in quei canti narrativi che risuonano fin nell'Istria e nella Dalmazia veneta; né pervasa, come il Veneto e l'Istria stessa, da quel comune fondo lirico che ha la sua espressione più nota negli strambotti siciliani e nei rispetti toscani,
mentre, dunque, gli altri popoli d'Italia cantano solitamente in endecasillabi, e il concetto enunciato nei primi quattro versi rinfiorano in altri quattro sei; mentre il veneto si restringe tutt'al più alla villotta di quattro endecasillabi, in uno dei quali trova modo di ripetere, con grazia armonica ma superficiale, l'intero primo verso - il friulano si esprime nel giro preciso di un'unica quartina ottonaria a versi piani e tronchi alternati, senza rifioriture, senza ritorni: come il giapponese nella "uta", tema di canto in sé chiuso e pieno di sottintesi poetici, piuttosto che canto. Ché l'anima friulana, aperta, franca e perfino loquace in altri campi, quando parla d'affetto ama piuttosto farsi intendere che spiegarsi; o, se si vuole, lo svolgimento del tema è affidato al giro melodico, pieno di echi, del canto, all'aria semplice ed espressiva specie delle note finali, che ricordano i "lieder" tedeschi e prolungano il pensiero in onde indefinite. Tocca così al suono di sviluppare il contenuto motivo verbale; e però, se un rispetto toscano poco o nulla perde artisticamente, ove sia avulso dall'unica aria che gli è tradizionale, la villotta non può essere interamente apprezzata se non con l'accompagnamento delle sue note musicali. E basta che io ricordi per tutte "Ce bielis maninis" (originariamente "Ce bielis tetinis"), che la musica rende divina per una sensualità così delicata, che è, ad un tempo, sentimento, malinconia, pace infinita.
Queste "arie" della villotta sono anch'esse molto differenti  da quante s'usano nel resto d'Italia: differenti nell'intimo spirito, ché le nostre, più dolorose e profonde, non conoscono la sonorità indifferente o le "fiorettature" con cui si cantano altrove stornelli e rispetti anche assai tristi; non conoscono soprattutto le "finali movimentate", così graziose e così superficiali. La voce che va scendendo (ma bisogna sentirle cantare nel Friuli montano o "di là da l'aghe" [ossia: di là del Tagliamento, ad est del Tagliamento: nota nostra], non alterate dagli echi di Piedigrotta, o variate "artisticamente" da qualche mediocre  musicista) lascia nell'aria la nota contenuta, che dà quello speciale senso di calma e forte tristezza onde si resta colpiti "a sintí lis vilotis di lontàn.
Accanto a queste abbiamo tre o quattro arie, non dirò liete, ma rumorose, come porta il carattere nostro, ma anch'esse assumono la malinconica velatura finale, e rivelano di non essere "animo deducta sereno". La stessa turbinosa "furlane", onde anticamente si accompagnava il ballo omonimo, è canzone che ricorda l'incondito pestare degli alpigiani sul terreno in quell'allegria grossa e affaticante che non è festività. ( a scanso di equivoci, la "furlana" che ha fatto il giro dell'Europa non ha nulla di comune con l'antica "furlana" -come ben vide il Molmenti che si ballava sull'aria "Madone Jàcume", e che nessuno sa più ricostruire precisamente nelle sue "figure").
Pur troppo anche la villotta si va perdendo, specie nel territorio abbracciato dall'anfiteatro morenico e nella piana più prossima a Udine; e, pur dove permane, può dirsi l'ultimo testimonio del vecchio Friuli che va tramontando, rappresentando essa, nelle sue redazioni più comuni, il paese, i costumi, gli stati d'animo, non di oggi, ma di sessanta o settanta anni fa.  Poichè da una quarantina d'anni a questa parte, si può dire che ogni più vera e migliore attività creativa si sia arrestata e che non si cantino che le vecchie villotte, talora rimodernate e applicate alle nuove occasioni, ma per lo più nella redazione che potevano avere fra il 1830 e il 1850, come dimostrano gli accenni al modo di vestire e la deficienza di allusioni  ai tempi precedenti e seguenti.
Ma di qui appunti  la bellezza ingenua della villotta, e la sua importanza come testimonio psicologico.
Il canto è per il contadino friulano una "consolazione" necessaria, che il cuore si concede per vincere il dolore:
"Iò soi masse zovenine,
ancimò no ài viert il cûr:
se no stoi in alegrie
soi sigure che iò mûr."
Io son troppo giovinetta: ancora non mi s'è aperto il cuore. Se non sto in allegria, io son certa di morirne
O, con sensi che diresti letterari, mentre appartengono alla più sincera vena popolare:
"E iò cianti cianti cianti
e no sai bielsôl parcé;
e iò cianti cianti cianti
sol par consolami me.
E io canto, canto, canto, ma io stesso non ne so il perché; e io canto, canto, canto, solo per consolare me stesso.
L'idea del canto è nella villotta, come in quasi
tutta la lirica popolare, associata a quella dell'allegria; ma qui, come appare dalle citazioni fate, si tratta di un'allegria non spontanea, cercata per superare il dolore: mestizia, insomma, dissimulata e compressa:
"'Olin gióldi la ligrie
come zovins che nó sin;
sunarà l'avemarie
che noaltris no sarin."
Vogliamo godere l'allegria, come giovani che noi siamo: suonerà l'avemaria quando noi non ci saremo più.
E nulla di più pacatamente desolato di questo invito all'allegria  che ho ascoltato nei pomeriggi domenicali, dopo il vespero, quando le ragazze s'adunano nei grandi cortili aspettando l'ora dell'amore, e il canto si spande per la piana nelle tristi modulazioni finali. V'è qualche cosa di profondamente doloroso in molte di queste quartine, come una lacrima sola, lungamente rattenuta, che cada rovente sul cuore:
"S'o savessis, fantacinis,
ce che son pinsírs d'amôr!
A si mûr, si va sot tiare,
e ancimò si sint dolôr."
Se sapeste, fanciulle, che cosa sono pensieri d'amore! Si muore, si va sotterra, ed ancora si sente dolore.
Spesso il cuore cede a quelle indistinte malinconie, che noi raffinati crediamo aliene dall'anima popolare, quando invece sono più vicine ad essa che alla nostra, pronta a soffocare  le più divine voci con l'analisi insidiosa:
"Il gno cûr dsi malevoe
Come ué no l'è mai stât.
L'è leât culis ciadenis
L'è daduc' abandonât.
Il mio cuore di malavoglia come oggi non è mai stato: è legato con le catene, è da tutti abbandonato.
"Iò stoi masse alegramentri,
mi sucêt qualchi malan:
o ch'i mûr, o che mi mali,
o il mio ben al va lontàn."
Io sono troppo allegra: mi succede qualche malanno. O io muoio, o io m'ammalo, o il mio bene va lontano.»

Per ragioni di spazio, abbiamo riportato solo una parte del capitolo dedicato a questa particolare forma di letteratura popolare; riservandoci, eventualmente, di riprendere il discorso in altro momento.
Il saggio di Bindo Chiurlo «La letteratura ladina del Friuli» era stato pubblicato inizialmente sulla prestigiosa rivista fiorentina «Nuova Antologia», nel 1915.
Poi era venuta la guerra, nella quale l'autore - convinto interventista - aveva prestato servizio presso la Croce Rossa, impedito da un vizio cardiaco di recarsi al fronte. Finita la guerra, il saggio era stato rivisto, ampliato, arricchito ed era stato stampato in volume, con notevole successo, tanto da raggiungere, già nel 1922, la quarta edizione.
La guerra, in effetti, con il trauma dell'invasione nemica - ma anche con quello, meno noto e meno vistoso, ma non per questo meno autentico - di quell'altra invasione, quella dei requisitori, degli imboscati, dei carabinieri che fucilavano alle spalle le truppe restie ad andare al macello o quelle che, dopo Caporetto, fuggivano in disordine, gettando le armi - aveva approfondito il senso della riflessione di Chiurlo circa il significato della cultura popolare.
Non per nulla egli era stato l'anima della nascente Società Filologica Friulana, fondata, nel 1919, nel salone di un istituto scolastico di Gorizia - quella Gorizia che era stata appena riunita, col Friuli orientale, al resto della "piciule patrie", della piccola patria friulana - allo scopo di preservare e valorizzare quel vasto patrimonio di cultura che, altrimenti, rischiava di essere completamente disperso dall'aggressione della modernità.
Si dirà che anche la prima guerra mondiale, col suo intreccio di nazionalismo, imperialismo,  interessi industriali e finanziari, fu una tipica espressione della modernità; e che l'interventismo di Chiurlo è in contrasto con la sua volontà di difesa della cultura friulana, perché fu proprio quella guerra a trasformare il Friuli in un immenso campo di battaglia e a infliggere un colpo decisivo alla sopravvivenza di essa. Ma bisogna tener presente che, fra tutti gli Italiani del Regno, i Friulani erano i soli ad avere delle ragioni specifiche per desiderare la guerra contro l'Austria-Ungheria: loro che, da ben cinque secoli, una assurda frontiera politica, da Pontebba a Grado, divideva in due parti separate e potenzialmente ostili.
Bindo Chiurlo è morto nel dicembre del 1943, mentre una seconda e più tremenda guerra infuriava nel mondo e mentre un corollario ancor più terribile di essa stava per insanguinare l'Italia: la guerra civile.
Mentre il nobile studioso chiudeva gli occhi per sempre, stroncato da quella malattia al cuore che già gli aveva impedito di andare in prima linea nel 195, tempi ancor più terribili si annunciavano per il suo Friuli.
Udine e le altre città erano sottoposte quasi quotidianamente ai devastanti bombardamenti aerei angloamericani; nelle zone più orientali e nella vicina Venezia Giulia, bande di partigiani sloveni e croati incrudelivano contro la popolazione italiana, gettando migliaia di esseri umani nelle foibe; e, dalle lontane steppe del Kuban e dalle pendici del Caucaso, a cavallo, sui carri e perfino a dorso di cammello - spettacolo fantastico da "Mille e una notte", che è stato descritto da Carlo Sgorlon nel romanzo «L'armata dei fiumi perduti» - traversavano il Friuli, per stabilirsi in Carnia i Cosacchi anti-sovietici, cui l'occupante tedesco aveva promesso niente meno che la sicurezza di una nuova e definitiva patria.
Poi, finita anche quella nuova guerra, con tutta la sua scia di sangue e di orrori, erano arrivati i «liberatori» anglo-americani, portando con sé il pane bianco e le sigarette; e, nel giro di una ventina d'anni, l'Italia sarebbe stata radicalmente trasformata dall'avvento definitivo della modernità, rinunciando alla propria anima in cambio dello stile di vita americano.  
Le villotte vennero per sempre abbandonate; i paesi di montagna, spopolati dall'emigrazione; la stessa lingua friulana, gradualmente soppiantata dall'italiano o, peggio, da quell'ibrido dialetto veneto che fu introdotto a Udine dai conquistatori veneziani nel 1420, e che per secoli era stato la parlata dei «signori», ma non del popolo.
Notevolissima, ad ogni modo, era stata l'intuizione del Chiurlo, e di poche altre menti illuminate, benché - purtroppo - tardiva: che la cultura popolare è una manifestazione importante della vita di una nazione, e specialmente di una piccola nazione che è vissuta per secoli all'ombra della civiltà contadina; anzi, ne è l'espressione più autentica e viva, la più diretta e immediata, quella che meglio esprime l'anima del vecchio Friuli.
Era giusto e doveroso, pertanto, adoperarsi perché la "mari lenghe",  la madre lingua, continuasse a vivere; e perché tutte le manifestazioni della civiltà contadina friulana, a cominciare dalla letteratura popolare, trovassero riconoscimento e fossero oggetto di studio amorevole nonché, se possibile, di uno sforzo consapevole per mantenerle ancora in vita.

Che dire di questi generosi propositi, di queste nobili illusioni, ora che il rullo compressore del consumismo ha spazzato via ogni traccia dell'anima del vecchio Friuli (così come di ogni altra cultura popolare italiana ed europea), sostituendo le discoteche alle danze popolari, la musica elettronica alla fisarmonica, i vestiti firmati ai costumi popolari, le casette a schiera alla casa rustica,  l'amore per il divertimento ad ogni costo all'amore per la propria terra?
Dobbiamo forse concludere che ogni sforzo è stato vano, che tutto ciò che è stato fatto per riportare in vita le culture locali non è stato altro che un sogno anacronistico?
Noi non lo crediamo.
L'importante, nella vita, non è vincere; l'importante è lottare per affermare valori.
La Coca-Cola e il chewin-gum non sono valori; le villotte e le fiabe popolari, sì; o, se non lo sono, sono tuttavia strumento per l'affermazione di valori: l'amore, la famiglia, il lavoro, la terra, l'amicizia, la bellezza, la memoria.
Questi sono valori, e valori imperituri. Le mode passano, ma i valori restano.
Passano anche le ondate barbariche; passerà pure l'ondata della barbarie consumistica e tecnologica. È già accaduto e tornerà ad accadere.
Alla fine, saranno i valori ad affermarsi, perché le loro radici affondano nelle esigenze autentiche degli esseri umani; mentre i capricci del consumismo spariranno, in quanto non sono che l'espressione di bisogni artificiali indotti dalla pubblicità.
Noi, quasi certamente, non assisteremo a questa rivincita dei valori; ma vi assisteranno i nostri figli o, tutt'al più, i nostri nipoti.
La storia non ha fretta.
Bisogna avere fede: le mode passano, i valori restano - o risorgono dalle proprie ceneri.