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Israeliani soffriamo di amnesia - Intervista a Ilan Pappe

di Vittorio Bonanni - 21/05/2009

  
 
«Un libro esplosivo» dice The Guardian . «Importante e provocatorio» sottolinea The Indipendent . «Persino sentimentale, quando parla delle vite perdute, cancellate degli arabi palestinesi» aggiunge il supplemento letterario del Times . La stampa anglosassone non ha risparmiato elogi nei confronti de La pulizia etnica della Palestina (Fazi, pp. 364, euro 19,00) quando nel 2006 è uscito in Gran Bretagna. In Italia invece la sua pubblicazione, avvenuta lo scorso anno, non ha avuto vita facile anche se poi è andata a buon fine. Ilan Pappe, l'autore di questo libro, «forse il più anticonformista degli israeliani, che conduce una battaglia radicale contro l'establishment politico e accademico di Israele», come dice lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa, è stato invitato più volte nel nostro Paese. Domenica era alla Fiera del Libro di Torino, quest'anno dedicata all'Egitto e l'anno scorso proprio ad Israele, in occasione del sessantesimo anniversario della sua nascita, scelta che suscitò non poche polemiche.

Pappe è stato protagonista di un appassionato dibattito sul "Fare storia della Palestina" qui a Torino in compagnia della storica e giornalista Paola Caridi, tra le fondatrici di Lettera 22 , e di Khaled Fouad Allam, storico e sociologo algerino da tempo in Italia dove insegna all'università di Trieste. Obiettivo, per dirla con le parole di Caridi, autrice per Feltrinelli di un libro su Hamas, «porsi tutte le domande sul tema», e non soltanto quelle consentite da una sorta di pensiero unico dominante sulla questione mediorientale. «Non credo - ed è questo il punto - ci sia la necessità di usare un vocabolario particolare per il Medio Oriente, che non sia lo stesso che utilizziamo per i Balcani o per l'Africa o per qualsiasi altro posto del mondo». Perché non trasformare la questione mediorientale «in una questione "normale", da interpretare secondo i parametri che noi usiamo per altre società o per altri luoghi del mondo»? E' quello che appunto Ilan Pappe ha cercato di fare utilizzando termini come pulizia etnica già in uso per descrivere altri scenari di guerra. «Una tesi certamente molto forte - ha detto dal canto suo Allam -, basta pensare a ciò che è successo nella ex Jugoslavia. L'utilizzo stesso del termine "etnico", che faceva parte del lessico delle scienze sociali ed è entrato da circa vent'anni nel lessico pubblico, indica una distanza tra noi e gli altri. E' una visione culturalista dei conflitti, come se la violenza politica fosse anche legittimata e alimentata da distanze culturali incompatibili. Sulla questione israelo-palestinese dobbiamo dire che c'è un carattere eccezionale. Con la fine dell'impero Ottomano si pongono le premesse per la creazione, qualche anno più tardi, dei futuri stati arabi. E la Palestina, in questo senso, subì uno scacco totale. Non è un caso se intorno agli anni '40 l'idea di realizzare uno Stato e due popoli subì una sconfitta perché in quel momento di transizione storica sia dalla parte ebraica che dalla parte araba nessuno voleva diventare la minoranza dell'altra. Con la nascita di un nazionalismo che porta entrambi a volere la stessa cosa». Ma proprio il nazionalismo, presente anche in tante altre parti del mondo, ed è questo un aspetto non eccezionale del conflitto, dovrebbe consentire, come dicevamo prima, di trattare questa guerra come le altre.

Professor Pappe, è possibile insomma trattare la questione mediorientale come tutti gli altri conflitti? O dobbiamo rassegnarci a questa sua eccezionalità, che almeno finora non ha aiutato ad arrivare ad una soluzione?

Si tratta di una domanda che molti dei miei compatrioti troverebbero non solo strana ma inaccettabile. Il problema di israeliani e palestinesi è che essi ritengono di far parte di una situazione assolutamente unica che non ha nessun tipo di paragone con esperienze passate o presenti. E uno dei miei obiettivi, sia come storico che come attivista per la pace, è convincere queste due popolazioni che in realtà la loro situazione non è assolutamente unica e che proprio per questa ragione può essere anche risolvibile. Naturalmente è più difficile comunicare questo messaggio agli ebrei israeliani piuttosto che ai palestinesi. A questo proposito bisogna dire che gli israeliani non sono stati gli unici europei che sono andati in un paese non europeo e se ne sono impossessati, espropriando le persone che invece vi abitavano. Non sono stati gli unici a dire che quella zona era assolutamente vuota e che dunque nessuno è stato espropriato di nulla. E non è stato neanche l'unico popolo che è dovuto andare in un paese straniero perché perseguitato nel loro paese d'origine. Vittime che però hanno reso altre persone altrettanto vittime. E non sono stati neanche gli unici che hanno deciso di cambiare un bilancio demografico che non gli andava bene attraverso l'uso della forza. Nel 1948 gli ebrei erano solo un terzo della popolazione in Palestina. E ritennero erroneamente che soltanto uno Stato interamente ebraico avrebbe potuto rappresentare un buon posto per vivere. L'uso della forza in questo caso si definisce appunto "pulizia etnica" che continua ancora oggi. Io accuso dunque i miei compatrioti di aver perpetrato questo crimine ma dico anche che non sono assolutamente gli unici.

Lei accusa Israele di aver rimosso quanto successo nel '48, con la nascita dello Stato ebraico ma anche con la conseguente "Nakba", la catastrofe per i palestinesi. La rimozione, che può ovviamente riguardare anche i palestinesi per quanto riguarda il terrorismo, vedi il processo incompiuto che Hamas ha fatto appunto dal terrorismo alla rappresentanza politica, è un grosso limite per ogni tentativo di arrivare alla pace. Che cosa ne pensa?

L'amnesia, cioè la voglia di dimenticare, fa parte della natura stessa della creazione dell'identità nazionale. Che è successo per esempio con molti paesi arabi che hanno rimosso il loro passato legato all'esperienza dell'Impero Ottomano per creare una nuova identità. Il punto principale è capire in che misura questa amnesia, questa cancellazione del passato abbia un'influenza sul presente. Nel caso dei sionisti questa cancellazione non è soltanto un problema intellettuale ma esistenziale. E soltanto se voi siete israeliani o conoscete molto bene Israele potete veramente capire fino a che punto arrivi questa spinta a cancellare il passato. Voglio tirare in ballo a questo punto mia suocera. Era fuori con i miei figli e ad un certo punto avevano visto degli splendidi alberi molto antichi. Lei chiese a mio figlio, che ha dodici anni ma già avanti negli studi storici, quanto tempo fa il posto dove vivevano era stato fondato. E lui rispose settanta anni fa. Ovvero viviamo in una colonia ebraica che è stata fondata settanta anni fa. E la nonna a questo punto sconvolta disse "incredibile, come fanno questi alberi che sembrano molto antichi ad avere solo settant'anni". Era convinta insomma che prima del loro arrivo lì non ci potessero essere alberi! Gli alberi insomma dovevano essere arrivati per forza con i sionisti. E stiamo parlando di una donna colta ed intelligente.

Una versione dei fatti entrata a far parte della Storia ufficiale…

Questo atteggiamento difensivo ve lo trovate davanti in Israele ogni qual volta cercate di sfidare la storia ufficiale. Io nella mia vita ho attraversato tutto il sistema dell'istruzione israeliana. Mi sono concentrato sulla Storia e mi è sempre stato detto che questa zona era vuota, abbandonata, prima che arrivasse il movimento sionista alla fine del XIX secolo. E mi hanno anche detto che nel 1948 i palestinesi erano andati via volontariamente. Ovviamente chiesi al mio professore di spiegarmi come quelle persone fossero andate via volontariamente se quell'area era completamente vuota! E lui mi rispose che ero in cerca di guai. E da allora continuo a cercare di far loro capire che se c'era qualcuno costretto ad andare via o che è stato espulso vuol dire ovviamente che prima c'era. Ma c'è un problema più profondo. I crimini che sono stati commessi dai sionisti nei confronti del popolo palestinese e che io descrivo nel mio libro sono troppo atroci e terribili perché gli israeliani nel 2009 possano prenderne atto. Non perché non siano avvenute cose altrettanto terribili in altre parti del mondo. In fondo stiamo parlando di un milione di persone, della distruzione di cinquecento villaggi e di dodici città. E sappiamo bene, ed è presente nella nostra memoria collettiva, come in Europa sia successo ben di peggio. Ma tutto ciò è terribile per due motivi diversi: prima di tutto le persone che hanno commesso questo crimine hanno sempre detto di essere le vittime del crimine maggiore del ventesimo secolo. E non vogliono, per questo, che nessuno venga a giudicarli per quello che hanno fatto. Il secondo problema è che questo crimine sta continuando. E non avendo preso atto di quello che è successo nel 1948 non riescono a prendere atto di quello che sta succedendo adesso. Io sono nato ad Haifa. Una città dove un tempo vivevano settantacinquemila palestinesi. In ventiquattro ore, dunque in un giorno, sono stati portati via dalle loro case. E oggi ad Haifa ne sono rimasti pochissimi. E se parlate con gli studenti e con i cittadini israeliani di quello che è successo nel '48 loro non solo non vogliono capire, ma neanche sentire e non riescono soprattutto a spiegarsi, invece, perché i palestinesi, per esempio ad Haifa, vogliono ricordarselo. E vogliono ricordarselo molto bene quello che è successo nel '48 perché hanno paura che possa succedere nuovamente. Se siamo in grado di individuare quello che è successo nella storia passata, di conseguenza siamo più capaci di intervenire sulle cose presenti.

Domanda d'obbligo. Come si può uscire concretamente da questa situazione?

Bisogna cominciare a liberarsi del ruolo del mito nella storia, ma questo per noi è un compito assolutamente improbo. Mi sono sempre impegnato in un dialogo con la società e ho dovuto sempre fare i conti con rappresentazioni del passato assolutamente diverse da quelle che avevo in mente. C'è sempre stato un fortissimo elemento mitologico imposto alle persone. Per cambiare questo atteggiamento bisogna partire da un approccio diverso con la realtà. Ad esempio la prima Intifada nel 1987 ha avuto sugli israeliani un effetto di grande confusione perché, per come si è svolta, esulava da quella che era la loro idea del passato e di quello che era successo. E se la gente comincia a chiedersi che quello che è stato comunicato loro su un fatto, è diverso da quello che è realmente successo potrebbe cominciare a pensare che le autorità hanno mentito anche su fatti precedenti e magari anche su quello che è successo nel 1948, sulla Nakba appunto.