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La civiltà dell´empatia

di Jeremy Rifkin - 05/03/2010

  
 

Parla l´economista americano. Esce oggi il suo nuovo libro: "La civiltà dell´empatia" Troppi segnali indicano che siamo davvero a un punto di svolta della specie umana Per le generazioni giovani è scontato che il mondo è fatto di condivisione e cooperazione

Nel nuovo saggio di Jeremy Rifkin che esce ora in Italia, La civiltà dell´empatìa (Mondadori, pagg. 648, euro 22), c´è un primo messaggio che in apparenza è rassicurante. Sulla scorta di una robusta evidenza scientifica, l´autore spiega che noi siamo una specie animale "empatica", allenata a provare compassione, partecipazione, solidarietà. Il secondo messaggio è decisamente allarmante. La nostra empatìa per millenni si è esercitata entro cerchie ristrette, dalla famiglia alla comunità agricola fino allo Stato-nazione, non è commisurata all´estensione globale della nuova comunità umana. Riprogrammare la nostra coscienza, applicare l´empatìa su scala planetaria, è urgente se vogliamo evitare la distruzione della nostra specie (e di molte altre). Una terza componente interessante del libro è un piano ambizioso per risolvere l´equazione energetica. Si tratta di applicare all´energia il modello Internet, nel senso di una rivoluzione dal basso, un sistema di produzione e di consumo diffuso, capillare, decentrato e flessibile. Presidente della Foundation on Economic Trends di Bethesda, docente alla Wharton School, autore già popolarissimo nel mondo intero con saggi come La fine del lavoro (1995) o Economia all´idrogeno (2002), Rifkin in questa intervista discute le tesi della sua ultima opera, la più ambiziosa e impegnativa di tutte.

L´avvertimento che lei lancia non può essere preso alla leggera: siamo vicini a una sorta di implosione globale, lo stadio finale e autodistruttivo delle varie rivoluzioni industriali.

«Non voglio suonare come l´ennesimo profeta dell´apocalisse, ma troppi segnali indicano che siamo davvero a un punto di svolta nella storia delle specie umana, il nostro destino può giocarsi in modo fatale entro pochi decenni. Due segnali recenti lo confermano. Uno è stato la grande crisi alimentare del 2008, che precedette (e in realtà provocò) il collasso della finanza globale: sotto la pressione della crescita cinese e indiana il petrolio toccò 147 dollari al barile, i rialzi delle derrate agroalimentari provocarono tumulti del riso e del pane in tante nazioni emergenti. Il secondo segnale è stato il fiasco del vertice di Copenaghen sull´ambiente: gli stessi leader che non avevano saputo prevedere il disastro del 2008, sono stati incapaci di affrontare il cambiamento climatico».

Lei mette sotto accusa la cultura attraverso cui noi, e le nostre classi dirigenti, interpretiamo il mondo.

«Siamo ancora prigionieri della tradizione illuminista, del pensiero di Locke e Adam Smith: quello che ci rappresenta l´uomo come un essere razionale, materialista, individualista, utilitarista. Se continuiamo a usare questi strumenti intellettuali del XVIII secolo, siamo davvero condannati. Entro quella cornice culturale è impossibile per 6 miliardi di persone affrontare la scarsità delle risorse naturali. Copenaghen è fallito perché dei leader come Obama e Hu Jintao hanno continuato a pensare in termini geopolitici tradizionali, secondo gli interessi degli Stati-nazione anziché quelli della biosfera».

L´empatìa può avere effetti perversi, aumentando l´entropìa: questo è un concetto che lei ha già usato in passato, nel senso di un degrado che distrugge l´energia disponibile. Un esempio storico?

«L´impero romano fu capace di espandere l´empatìa dei suoi cittadini creando una comunità molto vasta unita dallo stesso destino. Ma al tempo stesso spinse lo sfruttamento della sua base agricola fino all´estremo, fino a provocare un esaurimento che fu la vera causa del declino, prima delle invasioni barbariche. La storia si ripete. Oggi su scala ben più ampia. Più le civiltà diventano complesse, più si moltiplicano le connessioni fra gli esseri umani; ma al tempo stesso vengono richiesti maggiori flussi di energia e questi aumentano l´entropìa. La Terza Rivoluzione industriale che io disegno, nascerà dalla necessità di mitigare l´impatto entropico delle prime due. Come le altre rivoluzioni industriali, sarà trainata da una convergenza tra le nuove tecnologie della comunicazione e dell´energia. Le prime civiltà idraulico-industriali si fondarono sull´invenzione dell´alfabeto; la seconda rivoluzione industriale dall´Ottocento al Novecento fu l´incontro fra corrente elettrica, telegrafo, radio, tv».

Per questo oggi lei vede in Internet una benefica opportunità, e ha fiducia nei giovani che sono cresciuti dentro questo nuovo universo della comunicazione?

«La generazione che si è affacciata alla conoscenza nel terzo millennio dà per scontato che il mondo è fatto di condivisione e cooperazione. Le vecchie generazioni hanno ancora un´idea del cambiamento dettato dall´alto verso il basso, i giovani vivono in una dimensione decentrata, sono interconnessi orizzontalmente, senza gerarchie. La mia generazione ammirò le foto della terra prese dall´Apollo nella spedizione sulla luna, fu la nostra prima esperienza di empatìa verso l´intero pianeta visto da fuori. I nostri figli ogni giorno attraverso GoogleMap si percepiscono come cittadini del pianeta terra. Disastri come i terremoti ad Haiti e in Cile, con Twitter si trasformano nell´occasione di un´immediata solidarietà umana su scala globale. Questi ragazzi abituati a usare Skype per parlarsi col compagno di Tokyo intuiscono che siamo un´unica famiglia planetaria, per loro è più facile comprendere che ogni gesto quotidiano in ogni angolo del mondo ha un impatto in tempo reale sulla biosfera e colpisce la specie umana ovunque essa si trovi. Lì si è già avviata la transizione verso una nuova forma di coscienza».

In questa Terza Rivoluzione industriale che è alle porte, il modello Internet può salvarci anche dalla crisi energetica? In che modo?

«Le nuove tecnologie della comunicazione convergono con le energie rinnovabili. È quello che io chiamo l´energia distribuita, o diffusa. Perché le fonti rinnovabili – sole, vento, energia biotermica, biomasse da rifiuti – si trovano in mezzo a noi, equamente ripartite su ogni metro quadro della superficie terrestre. A differenza delle energie fossili come il petrolio e il carbone, la cui concentrazione territoriale è stata fonte di enormi problemi geopolitici».

In pratica che cosa significa abbracciare il modello dell´energia diffusa?

«Significa convertire ogni singola casa, ogni palazzo, in una piccola centrale energetica che usa il sole, il vento, i rifiuti, li immagazzina e li redistribuisce. Significa che l´energia non consumata per i propri bisogni va ripartita secondo una logica di cooperazione e di solidarietà. Non è socialismo bensì un´economia di mercato ibrida. Proprio come Internet, con fenomeni come i software "open source", ha prefigurato un superamento del capitalismo puro ibridandolo con elementi di socialismo. Tutto questo sta già cominciando ad accadere, ed è più vicino a voi di quanto crediate»