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Berlino, macerie sotto il muro

di Massimo Fini - 16/11/2010

 

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Ricorre in questi giorni l'anniversario della caduta del Muro di Berlino (9 novembre 1989) e il conseguente crollo dell'Unione Sovietica che allora tutti, in Occidente, salutammo con grande entusiasmo. Si può dire la stessa cosa oggi? Le libertà civili dei cittadini dei Paesi che stavano sotto il tallone dell'Urss e degli stessi russi erano ridotte ai minimi termini. Erano Stati di polizia. Inoltre, se si viveva da quelle parti, si era bombardati quotidianamente da un ideologismo asfissiante che non dava tregua. Sulle principali piazze di Dresda o di Lipsia ho sentito altoparlanti montati sui lampioni che parlavano ininterrottamente per tutto il giorno di "marxismum-leninismum". In compenso i beni essenziali, casa, cibo, studio, anche ad alto livello, lavoro, erano garantiti a tutti. È difficile oggi trovare un immigrato rumeno (che non coincide col rom) sui quarant'anni che non sia almeno diplomato. I più sono laureati anche se da noi sono costretti a fare i lavori più umili. L'intrusione violenta del turbocapitalismo ha disgregato economicamente e socialmente molti di quei Paesi (con l'eccezione della Cechia e della Germania Est che erano culturalmente preparate alla nostra kunkurrenzkampf) e la stessa Russia. Da una parte sono cresciute ricchezze berlusconiane, quasi sempre di origine dubbia se non criminale, dall'altra la maggioranza della popolazione è passata da una povertà dignitosa alla condizione di miserabile. Da una parte Abramovich col suo Chelsea e i russi “nouveau riches”, dall'altra cittadini russi che con lo stipendio di un mese ci possono comprare un mezzo pollo. Quindi criminalità, aumentata in modo sesquipedale in tutti questi Paesi e prostituzione femminile e maschile. L'errore è stato confondere le libertà civili riconquistate e sacrosante col libero mercato. Non sono la stessa cosa. Il libero mercato, se lasciato evolvere a suo comodo, si rivela la peggiore e la più spietata delle dittature.
SUL PIANO internazionale le due Superpotenze, contrapponendosi, si limitavano anche a vicenda. È vero che, cinicamente e vilmente, si facevano la guerra per interposta persona (l'Afghanistan 1979-1989, per esempio, è stato anche questo), ma non potevano spingersi troppo oltre nella loro bramosia imperiale trovando l'una l'opposizione dell'altra. Dopo il crollo dell'Urss l'unica Superpotenza rimasta sul campo, l'America, ha avuto mano libera e in vent'anni ha inanellato cinque guerre di aggressione. La prima fu la Guerra del Golfo del 1990 contro l'Iraq di Saddam Hussein. Aveva una sua legittimazione, perché Saddam aveva invaso il Kuwait, anche se è vero che il Kuwait era uno Stato-fantoccio creato a bella posta dagli americani nel 1960 per i loro interessi petroliferi. Ma anche l'Iraq era uno Stato artificiale disegnato in maniera barbina sulla carta geografica dagli inglesi nel 1930 mettendo insieme tre comunità incompatibili fra loro: i curdi, i sunniti, gli sciiti. In realtà l'unico popolo di quell'area ad avere un diritto a un proprio Stato sono i curdi che abitano da sempre una regione che si chiama, non per nulla, Kurdistan e che sono invece divisi, come minoranze, fra Turchia, Iraq, Iran, Siria e Azerbaijan e che, mazzolati da tutti, non sono mai stati difesi da nessuno perché non hanno santi in Paradiso: non sono arabi, non sono cristiani, non sono ebrei. Il Kuwait era uno Stato rappresentato all'Onu e la guerra fu avallata dalle Nazioni Unite. Ma c'è modo e modo di fare la guerra. Per non affrontare fin da subito l'imbelle esercito iracheno, che era stato battuto persino dai curdi (in soccorso di Saddam intervenne la Turchia) gli americani bombardarono per novanta giorni le principali città irachene e sotto le luminarie che ci faceva vedere il prode Fabrizio Del Noce, assiso sulla terrazza del più importante hotel del nemico (cosa, anche questa, assai curiosa), morirono 160 mila civili, di cui 86.164 uomini, 39.612 donne e 32.195 bambini che non sono meno bambini dei nostri. Ricordo che quando alla trasmissione radiofonica Zapping riferivo questi dati del Pentagono, e quindi al di sopra di ogni sospetto, mi aspettavo da parte del conduttore, Aldo Forbice, dagli altri intervistati e dagli ascoltatori grida di sdegno e invece si tirava dritto come se nulla fosse riprendendo a parlare delle nostre nullità italiche. Poi ci fu una guerra per fermarne un'altra, quella di Bosnia fra serbi, croati e musulmani. La guerra fra le tre etnie bosniache aveva delle buone ragioni. Quando nel 1990, dopo la dissoluzione dell'Urss, Slovenia e Croazia reclamarono la loro indipendenza dalla Jugoslavia la Comunità internazionale fu solerte nel riconoscergliela. Allora i serbi di Bosnia chiesero a loro volta di potersi riunire alla madrepatria di Belgrado, perché una Bosnia multietnica, a conduzione musulmana, aveva senso solo all'interno di una Jugoslavia multietnica che non esisteva più. Ma ai serbi di Bosnia fu negato quello che era stato concesso a sloveni e croati. Allora i serbi scesero in guerra e poiché, sul terreno, sono considerati i migliori combattenti del mondo l'avevano vinta. Ma intervennero gli americani, per la verità su insistenza degli europei, e trasformarono i vincitori in vinti trascinando i loro capi politici e militari davanti al Tribunale internazionale dell'Aja. Mentre il presidente croato Tudjman, autore della più colossale "pulizia etnica" dei Balcani (800 mila serbi cacciati, in un solo giorno, dalle "krajne") è morto tranquillamente nel suo letto. Nel 1999, quando l'11 settembre era di là da venire, ci fu l'aggressione alla Serbia per l'indipendenza del Kosovo, con l'appoggio degli alleati europei, fra cui la canina Italia. C'erano delle buone ragioni da una parte e dall'altra, quella dell'indipendentismo albanese e quella di uno Stato a conservare l'integrità dei propri confini, ma gli americani decisero che le ragioni stavano da una parte sola e per 72 giorni bombardarono una grande capitale europea come Belgrado, facendo 5.500 morti civili. Ma almeno gli americani avevano un obiettivo: creare un corridoio di musulmanesimo moderato (Albania+Bosnia+Kosovo) ad uso del loro grande alleato nella regione, la Turchia. Gli europei no. Si schierarono contro la Serbia perché aveva la colpa di essere rimasta l'ultimo Stato paracomunista d'Europa. E se, un tempo, per l'intellighenzia europea bastava essere comunisti per avere ragione, adesso era invece sufficiente per avere torto.
NEL 2001 c'è stata l'occupazione dell'Afghanistan col pretesto di prendere Osama bin Laden. Osama non c'è più e i quaedisti, ammesso che esistano, non stanno più in Afghanistan. Ma a 9 anni di distanza, dopo aver causato, direttamente o indirettamente, la morte di più di centomila civili afghani (le stime dell'Onu non sono credibili, Wikileaks ha denunciato 143 casi in cui la Nato non ha dato notizia dei civili uccisi nei bombardamenti o in altro modo), dopo aver disgregato materialmente, economicamente, socialmente e moralmente un Paese e una popolazione, siamo ancora lì "per difendere la Patria dal pericolo terrorista". Nel 2003 c'è stata l'occupazione dell'Iraq. La motivazione originaria era che Saddam possedeva "armi di distruzione di massa" e Saddam non avrebbe mai accettato ispezioni. il rais di Baghdad accettò gli ispettori Onu e le "armi chimiche" non saltarono fuori. Perché, fornitegli un tempo dagli Stati Uniti, dalla Francia e, via Germania Est, dall'Unione Sovietica in funzione antiraniana e anticurda, non le aveva più avendole già usate sui curdi e, in misura minore, sui soldati di Khomeini nel silenzio della stampa occidentale: all'epoca, Hussein era un nostro alleato. Il dittatore di Baghdad era certamente un criminale, ma almeno era un laico (si inventò musulmano durante la seconda guerra del Golfo). Il risultato è che oggi in Iraq, consegnato graziosamente dagli americani agli odiati sciiti iraniani, si dà la caccia ai cristiani facendone ecatombe.
Lo slogan della generazione del Sessantotto, la mia generazione, “pagherete caro, pagherete tutto”, va cambiato in “rimpiangerete caro, rimpiangerete tutto”. Anche la cara, vecchia Unione Sovietica.