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Iraq, l’ora dei sadristi

di Anthony Shadid - 10/01/2011




NAJAF, Iraq — Neanche sette righe scritte a mano in arabo su un piccolo pezzo di carta, con il suo sigillo. Ma sono bastate a chiarire, ieri, che Muqtada al-Sadr, figlio di un venerato ayatollah nonché flagello dell’occupazione americana, aveva nuovamente il controllo di un gruppo che ha iniziato a dar forma all’Iraq mentre gli Stati Uniti si stanno ritirando. 

“La mancanza di disciplina di alcuni di voi mentre io svolgevo i miei rituali religiosi mi ha dato fastidio e mi ha ferito me”, ha detto, rimproverando i suoi seguaci per l’accoglienza estatica ricevuta il giorno precedente. “Per favore, siate disciplinati ed evitate di urlare e spingere troppo – cose che danneggiano me, altri, voi, la vostra reputazione, e quella della famiglia Sadr”. 

Ovvero, con una traduzione più approssimativa: questo non è più il movimento di un tempo. 

Scena dopo scena, ieri, a un giorno di distanza dal ritorno di Sadr dopo oltre tre anni di esilio in Iran, abbondavano i segnali del nuovo volto che il suo movimento sta proiettando, con lui al comando. Non ultimo un gruppo di guardie del corpo in completi grigi o kaki che sembravano presi in prestito dall’abbigliamento dei mercenari. 

Su un tratto non asfaltato pieno zeppo dei piedi dei pellegrini, sotto bandiere imperiose di devozione, i suoi sostenitori parlavano con una sicurezza nuova, arroganza persino, di un futuro che rivendicano. E dove finisce la città, vicino al santuario dall’illuminazione soffusa dell’Imam Ali, i detrattori - e sono molti  - dicevano di non avere ancora perdonato, qualunque cosa egli possa promettere. 

“Quest’uomo è una nullità”, diceva Mohammed Ali Ja’afar, un commerciante del posto.

In questo, si trattava di una scena familiare in un Paese che raramente è stato tranquillo da quando gli Stati Uniti lo hanno invaso nel 2003. Al centro degli eventi, ancora una volta, era Sadr, la figura rara in Iraq a unire mistica religiosa e autorità politica, con il seguito di un movimento di base che ha un fiuto della piazza e una notevole abilità di indossare i panni dell’opposizione, anche quando gioca il ruolo di ago della bilancia, come adesso. 

Ryan C. Crocker, l’ex ambasciatore americano in Iraq, una volta aveva buttato là che i seguaci di Sadr “potevano rivoluzionare la politica irachena”: un’osservazione che risale ad alcuni mesi fa, ma una previsione che adesso sembra più vicina alla realtà. Ieri a Najaf, in  conversazioni da un capo all’altro della città, il ritratto che emergeva era quello di un movimento meno a un bivio e più sul punto di una sintesi di tutti i suoi elementi eterogenei – sintesi resa forse possibile dal ritorno di Sadr. 

“Ora che è tornato, può iniziare a risolvere i nostri problemi”, diceva Sadeq Ibrahim, 38 anni, un veterano della milizia di Sadr che apparentemente è stata smobilitata. “E’ l’uomo in grado di farlo - un leader religioso e politico al tempo stesso - e per risolvere i problemi dell’Iraq ci vogliono entrambi”. 

Ieri Ibrahim era insieme a decine di esponenti religiosi, membri di tribù, e giovani dai volti duri di coloro che sono stati privati dei diritti nei pressi dell’abitazione di Sadr, in attesa di intravedere il religioso. Alcuni avevano intrapreso il viaggio fino da Bassora, all’estremo sud, accalcandosi in gruppi e con le voci nei bisbigli frettolosi di chi sta trepidando. Tutti sembravano echeggiare lo slogan dello striscione nero alle loro spalle: “Sì, sì, al leader”. 

“Nostro padre, nostro fratello, e il nostro leader”, dichiarava uno di loro, Maher Ghanem. 

Un tale fervore non è nulla di nuovo per un movimento populista emerso dopo l’invasione americana come una delle forze più imprevedibili dell’Iraq, partendo dal seguito del padre di Sadr, assassinato nel 1999. Nel 2004, la sua milizia aveva combattuto due volte contro le forze armate americane, e il suo linguaggio, religioso quanto nazionalista, è tuttora decisamente anti-americano. 

Di questi tempi, tuttavia, si tratta di un movimento assai più sofisticato, che si è ripreso dalle sconfitte militari del 2008, ottenendo 40 seggi in Parlamento e offrendo un appoggio decisivo al ritorno al potere del Primo Ministro Nuri Kamal al-Maliki il mese scorso. 

Molti qui considerano il successo del gruppo un segnale della sua maturazione. I suoi stessi quadri, quasi del tutto liberi dalla minaccia e dal sospetto dei loro rivali sciiti, ritengono che sia semplicemente l’esito naturale del sostegno di base di lunga data di cui godono. Nei lunghi mesi di negoziati per il governo, alcuni dei rivali di Sadr si erano lamentati dell’arroganza chiassosa dei suoi delegati riguardo al loro potere, un’altezzosità che ieri echeggiava per le strade. 

“Per otto mesi non c’è stato governo, finché i sadristi hanno dato la loro benedizione e si è messo insieme”, diceva Anmar Khafaji, 22 anni, un sostenitore arrivato da Nassiriya per vedere Sadr. “Se non ci fossero i sadristi, non ci sarebbe nessun governo”. 

Altri erano anche più diretti. “Se Dio vuole, governeremo il Paese, ma lo faremo attraverso la giustizia, assieme ai nostri fratelli, tramite le nostre idee e il nostro intelletto che uniranno gli iracheni”, diceva Ibrahim. “La nostra arma ora è la penna, nonché il nostro sapere”. 

Che questo corrisponda a verità qui è ancora materia di discussione. L’attuale ambasciatore americano, James F. Jeffrey, ha detto di non avere visto prove del fatto che i sadristi abbiamo rinunciato, “in pratica o in teoria”, all’idea di usare la forza contro gli oppositori. Per tutti i mesi dei negoziati seguiti alle elezioni parlamentari dello scorso anno, i diplomatici americani erano preoccupati dell’eventualità che i sadristi avessero un ruolo decisivo nel nuovo governo. 

A Washington, tuttavia, la reazione al ritorno di Sadr è stata pacata. Nel 2004, un portavoce americano a Baghdad aveva definito Sadr “un teppista da due soldi”. Ieri l’altro, Philip J. Crowley, il portavoce del Dipartimento di Stato, lo ha definito “il leader di un partito politico iracheno che ha ottenuto un certo numero di seggi alle elezioni del marzo 2010”. 

In effetti, non è nessuna delle due cose: una realtà che ieri era evidente. Sadr è partito dal suo ufficio nello stile di uno dei pezzi grossi di Baghdad, in un convoglio di BMW color argento scortate da fuoristrada. A pochi chilometri di distanza, in una moschea sacra per il movimento, i suoi sostenitori parlavano di lui in termini millennaristici come un salvatore, un mistico, e un araldo della venuta dell’Imam Nascosto, che si rivelerà alla fine dei tempi, portando ordine e giustizia e vendicandosi dei nemici di Dio. 
Alcuni manifesti proclamavano Sadr “Colui che prepara”, che apre la strada al ritorno dell’imam. Anche il braccio culturale del suo gruppo è noto come “i preparatori”, in una sintesi fra il religioso e il politico talmente perfetta che nessuno fa realmente commenti in merito. Abdel-Hussein Saadi, un pellegrino venuto da Baghdad, diceva di essere in effetti sicuro che l’imam sarebbe apparso nel corso della sua vita. Era non meno sicuro della determinazione di Sadr a combattere per i suoi diritti prima di allora, qualunque sia la sua distanza da un governo pieno di suoi ministri e vice. 

“Rappresenta suo padre, e salverà gli iracheni dalle grandi sofferenze che sono costretti a sopportare da parte di un governo che non riuscirà mai ad eliminarci”, diceva. 

(Traduzione di Ornella Sangiovanni)

The New York Times