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Latouche più radicale di Marx

di Alessio Mannino - 27/09/2011

Fonte: alessiomannino

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Ieri è uscita un’intervista al marxista Giacomo Marramao sul quotidiano comunista Liberazione in cui il filosofo italiano si contrappone al francese Serge Latouche, padre della “decrescita” serena o felice che dir si voglia. In sintesi, l’obiezione di Marramao è sempre la solita: non è lo sviluppo economico in sé ad essere un male da combattere, ma solo la sua diseguale distribuzione, cioè lo sfruttamento di classe: «penso che dobbiamo parlare invece di uno sviluppo diverso, di tipo tecnologico che favorirebbe la diminuizione delle ore lavorative, come diceva il caro vecchio Marx. Più scienza, più ricerca, più tecnica». Ma l’epigono del barbuto di Treviri si spinge più in là e tenta un’operazione un po’ subdola: intende neutralizzare la portata dell’intero discorso dell’ex sinistrorso Latouche, ascrivendo al marxismo la tesi latouchiana secondo cui l’economia, intesa come accumulo di ricchezza, è un’invenzione ideologica per niente naturale bensì artificiosa e, a conti fatti, nemica dell’uomo. Sostiene Marramao: «La formula che utilizza Latouche, “l'invenzione dell'economia”, mi sembra insomma tutt'altro che antimarxiana. Il mercato capitalistico è il risultato dell'artificio culturale della naturalità. Questo è Marx puro. Il capitalismo passa per un evento naturale ma in realtà è un prodotto storico-culturale determinato».
Premessa: non sono un marxologo né vanto le competenze filosofiche di Marramao. Mi limito a dire la mia da dilettante, che è questa: l’interpretazione di Marramao non coglie l’essenza della riflessione di Latouche, che per me è etica. Essere contro l’ideologia della crescita infinita è una scelta di campo che ha il suo perché nel senso di giustizia. E la giustizia, a sua volta, si individua e si fonda sul senso, prettamente antico, del limite, poi stravolto dall’escatologia cristiana e dalla sua secolarizzazione illuministico-borghese. Secondo i marxisti, invece, la giustizia sociale discende dall’uguaglianza, ed essi la intendono, col loro materialismo storico (struttura e sovrastruttura), come un fatto anzitutto economico. E con ciò riducono al dato economico l’intera esistenza umana. Latouche, al contrario, e nel seguito dell’intervista lo ricorda lo stesso Marramao, recupera l’idea di saggezza, ovvero di una sapienza maturata col tempo, fatta di pesi e contrappesi, di rispetto delle leggi naturali, incentrata sull’equilibrio fra le parti. Un concetto ignoto al marxismo, che essendo un prodotto della modernità nella sua variante proletaria ambisce ad un egualitarismo livellatore e tragicamente opprimente, nonché storicamente impossibile (l’Urss è crollata per le divisioni, di reddito e di potere, che la corrodevano al suo interno). Il trucchetto di Marramao è respingere l’anti-sviluppismo radicale del pensatore francese ma nel contempo mostrare la sua filiazione spuria da Marx limitandosi a dire che il capitalismo non è naturale. Certo che non lo è, e anche Latouche ne è convinto. Solo che Latouche ne è convinto perché pensa che l’intera sfera economica come ricerca dell’utile sia innaturale e abbia esondato dai confini che proprio le sovrastrutture disprezzate dai marxisti le avevano assegnato. Insomma Latouche è un anti-economicista e anti-utilitarista, mentre Marx e i suoi ultimi allievi sono “solo” anti-capitalisti, se la prendono col capitale e il profitto là dove è l’intero immaginario dell’eccedenza come eccesso il bersaglio della critica latouchiana. Lo ammette, dandosi la zappa sui piedi, lo stesso Marramao: «Latouche usa il termine “utile” laddove, a mio parere, andrebbe usato il termine “profitto”. Ad ogni modo, la crescita illimitata non è una variabile dipendente dell'utile. Le società del mondo antico, una volta realizzato l'utile per la comunità, erano soddisfatte di sé e puntavano alla conservazione». Latouche, e nel mio piccolo io con lui, non ha nostalgie per un passato che non può tornare. Ma ricava da esso un insegnamento che è attualissimo: la liberazione dalla dittatura del mercato non passa attraverso fallimentari e riduttive ricette redistributive e neo-collettiviste, ma dal rifiuto tout court di un modello culturale e valoriale fatto di carta straccia, cioè di denaro, e della demoniaca sete di dominio che spande su ogni espressione di vita. Il buon vecchio pregiudizio, anche un po’ moralistico, per il vile denaro e per chi lo maneggia: questo è davvero rivoluzionario, oggi. (a.m.)