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Siamo proprio sicuri che gli animali siano soltanto i nostri “fratelli minori”?

di Francesco Lamendola - 21/12/2011





È abbastanza frequente e, forse, noi stessi ci siamo caduti, l’abitudine di definire gli animali come “i nostri fratelli minori”, anche, e magari specialmente, da parte di coloro che li amano profondamente e che sono convinti della loro dignità intrinseca, diversa, ma non per questo inferiore, alla tanto decantata dignità umana.
“Minori”, però, rispetto a che cosa? In genere si risponde: minori rispetto alla facoltà razionale, che l’uomo possiede, e l’animale no. E si aggiunge: è la ragione che segna la differenza fondamentale tra l’uomo e l’animale, e che pone il primo al di sopra del secondo; anzi, a vero dire, al di sopra di tutto il resto della creazione.
Questo ragionamento ha il difetto di assumere un’ottica puramente antropocentrica: una volta scelta, per così dire, la facoltà che contraddistingue la superiorità umana rispetto all’animale, la si isola da tutte le altre e la si assolutizza, in modo da ottenere la facile conferma di quello che era, in realtà, un pregiudizio, ossia un giudizio anteriore a qualsiasi verifica: in questo caso, che l’uomo occupa una posizione di eccellenza ontologica nel contesto della natura.
Siamo proprio sicuri, tuttavia, che la ragione, intesa come pensiero razionale, sia una facoltà la cui eccellenza intrinseca è così auto-evidente, come a noi umani piace credere?
Non è una questione filosofica da poco e non vogliamo assolutamente prenderla alla leggera; e nondimeno, dopo attenta riflessione, crediamo sia innegabile che non esistano delle ragioni realmente obiettive, e tanto meno auto-evidenti, per conferirle tutta quella preminenza che siamo soliti attribuirle, né per isolarla dalle altre facoltà e per assolutizzarla; come invece facciamo, e in modo arbitrario, al fine di dare maggiore risaltato ad una pretesa superiorità umana rispetto agli altri esseri viventi.
Tanto per cominciare, anche negli animali (e nelle piante: ma questo è un altro discorso) si osservano dei comportamenti intelligenti e finalizzati al conseguimento razionale di scopi; solo che noi umani siamo abituati, per rimuovere ogni possibilità di confronto, a qualificare tali comportamenti come espressioni dell’istinto; e con ciò chiudiamo il discorso.
Ma che cos’è questo misterioso istinto, che guida una piccola rondine fino al tetto della casa ove l’attende il suo nido, dopo un viaggio di migliaia di chilometri sopra mari e deserti, che risulterebbe impegnativo anche per un moderno aereo pilotato dall’uomo e dotato di tutti i ritrovati della tecnologia, dalla bussola giroscopica alla radio, dalle carte di navigazione aerea al pilota automatico per il caso di nebbia o nuvolosità persistente?
Si dirà che l’istinto si distingue dalla ragione propriamente detta per il fatto che esso è irriflesso, meccanico, cieco, mentre la seconda è il frutto di un pensiero individuale, di una facoltà raziocinante capace di dare risposte sempre nuove nei confronti della realtà e, pertanto, sorgente di libertà morale, nel bene come nel male, cosa impossibile all’animale.
Benissimo; e che dire, allora, di un animale che modifica il proprio comportamento abituale a seconda di circostanze impreviste, e ciò precisamente in base a delle scelte che, se fossero operate dall’uomo, non esiteremmo a definire come “morali”?
Ebbene, esistono innumerevoli testimonianze di simili comportamenti da parte dell’animale e di alcuni di essi ci siamo già occupati; valga per tutti il caso, celeberrimo, del delfino della città africana di Ippona, che sarebbe stata la patria di San’Agostino, del quale riferiva un personaggio illustre come Plinio il Giovane (cfr. il nostro articolo, sempre sul sito di Arianna Editrice, «Il delfino d’Ippona, triste parabola dell’antropocentrismo», apparso in data 11/06/2007); e non è escluso che molti di noi abbiano fatto delle esperienze personali e dirette a questo proposito, specialmente se possiedono un cane, un gatto o un cavallo.
Non stiamo parlando, semplicemente, di azioni per le quali un determinato animale domestico è stato addestrato, ad esempio fare la guardia alla casa del proprio padrone; bensì di azioni libere e spontanee, che l’animale compie in base a una libera scelta, del tutto disinteressata, quale è, per esempio, quella di aiutare un bambino in difficoltà nelle acque del mare, e che rischia di annegare, da parte di un animale non domestico, come il delfino, che gli si avvicina, lo sorregge, talvolta lo lascia salire a cavalcioni su si sé, finché non lo ha accompagnato in salvo, a brevissima distanza dalla spiaggia.
E potremmo parlare anche di casi ancor più sorprendenti, nei quali, per esempio, l’animale ha soccorso un essere umano, che magari non era affatto il suo padrone, in circostanze assolutamente inusuali; circostanze che nessuno poteva prevedere e rispetto alle quali non è in alcun modo possibile invocare la spiegazione dell’istinto.
Lasciamo da parte, perché appartengono a un altro ordine di fenomeni e perché intendiamo occuparcene in apposita sede, di quei casi, essi pure ampiamente documentati (con buona pace dei nostri seriosi razionalisti e degli ancor più seriosi scienziati materialisti) nei quali non l’animale, deceduto magari da mesi o da anni, ma una sua apparizione, ha messo in guardia degli esseri umani nei confronti di un pericolo, pericolo che questi ultimi ignoravano completamente: un incendio domestico non ancora scoppiato, un crollo o una frana non ancora verificatisi, un macigno caduto sulla strada oltre una curva, e, perciò, non visibile a chi stia percorrendo una strada in automobile, ma destinato  a causare un impatto sicuro e quasi certamente mortale.
Limitandoci, pertanto, alla casistica relativa ai fatti che si riferiscono ad animali viventi, si resta semplicemente sbalorditi, se solo ci si dà la pena di studiarla, dalla quantità e dalla qualità delle azioni compiute da animali in aiuto degli esseri umani, al di fuori di ogni normale quadro di riferimento legato all’istinto o all’addestramento.
Nel libro di Bill Schul si riportano alcuni episodi straordinari, ma veri, di fatti relativi agli animali e alle loro relazioni con gli esseri umani; ne riportiamo uno fra i tanti, scelto fra quelli meno spettacolari e, nondimeno, assai sorprendente (in: B. Schul, «I poteri psichici degli animali» (titolo originale: «The Psychic Power of Animals», Fawcett Publications, 1977; traduzione italiana di  Davide Dèttore, Siad Edizioni, Milano, 1978, pp. 95-96):

«La commovente storia di un cane che protesse una donna che non conosceva venne riferita da Louise Rucks il 24 aprile 1976 sulla sua rubrica settimanale “Hound Hill”, che appare sul giornale “Okahoman and Times”. Sembra evidente che l’animale fu in grado di prevedere il pericolo per la donna e prese quindi dei provvedimenti per proteggerla. La signora Rucks cita la lettera:
“Mi piace assai la vostra rubrica e l’aspetto con ansia ogni settimana. La ragione principale di questa lettera consiste nel riferirvi una strana esperienza che ebbi con un grosso cane nero, quando mi trovavo a Baltimora quindi anni fa, allorché mio marito era ricoverati al Marine Hospital colpito da leucemia. Questa è una storia vera e mi è veramente capitata.
A quell’epoca vi erano molte aggressioni alla luce del giorno come di notte. Mio marito e io eravamo preoccupati per il fatto che dovevo attraversare tre bui isolati per arrivare dalla mia camera d’affitto all’ospedale. La seconda notte questo grosso e solido cane nero uscì fuori da un angolo spaventandomi a morte.  Mi accompagnò all’ospedale e mi aspettò  finché non tornai alla mia camera.  Egli rimase sul marciapiede e non distolse mai gli occhi da me, finché non ebbi salito i gradini e aperta la porta di casa. Rimasi a Baltimora due settimane e ogni notte quel cane meraviglioso  mio scortò fino all’ospedale e quindi fino a casa e mi aspettava  finché non mi sapeva rientrata al sicuro.  Come mi sentivo sicura e sollevata!
L’ultima volta che lo vidi fu il giorno che dovevo partire per tornare a casa.  Egli mi accompagnò fino all’ospedale ma non si mostrò quella note per il ritorno dato che  mio marito era stato dimesso e quindi veniva con me.  Non so da dove quel cane provenisse, né dove andò e neppure come fosse a conoscenza del fato che non avrei avuto bisogno di lui la notte in cui mio marito venne dimesso. Ignoro come e perché sapesse che mi sarebbe stato utile.
Ho desiderato narrarvi ciò per molto tempo. Fin da quando scoprii la vostra rubrica sullo “Oklahoman”. Ma la storia mi sembrava così incomprensibile. Ho esitato  finché non ho potuto più resistere”.
Così la signora Rucks commenta: “Questa lettera non mi è parsa incomprensibile. Sono d’accordo con Henry Beston lo scrittore della natura, il quale scrisse che gli animali non sono fratelli o subordinati. Essi sono ‘nazioni diverse, presi insieme a noi nella stessa rete della vita e del tempo, compagni di prigionia  dello splendore e delle miserie della terra.’ Le nazioni amiche qualche volta vengono in aiuto di altre.”»

Se, dunque, gli animali sono capaci di azioni totalmente gratuite e disinteressate, non solo nei confronti dei loro simili, ma anche nei confronti degli esseri umani, né solo verso i loro padroni, ma anche verso persone a loro perfettamente sconosciute, che cosa ci impedisce ancora di riconoscere tali azioni come dettate da un pensiero coerente ed autonomo, ben diverso dal “cieco” e “meccanico” istinto e segno evidente di una precisa scelta morale?
Quale istinto, quale addestramento, quale altra circostanza casuale, estrinseca o intrinseca, spingeva quel misterioso cane nero, di cui parla il brano sopra citato, a farsi carico dello spavento di una donna che deve attraversare una città sconosciuta, sola e di notte, per recarsi al capezzale del proprio marito, ricoverato in ospedale per curarsi da una grave malattia?
Quanti esseri umani sarebbero stati capaci di comprendere, senza bisogno di parole, lo stato d’animo di quella sconosciuta; e quanti sarebbero stati disponibili a interrompere ogni loro impegno, a trascurare ogni loro esigenza, per accompagnarla infallibilmente da casa all’ospedale e dall’ospedale di nuovo a casa, restando tutto il tempo ad aspettarla, senza mancare una volta, dal primo all’ultimo giorno, e ciò senza nulla aspettarsi in cambio?
No: non di fratelli minori dobbiamo parlare, ma proprio di un’altra nazione; una nazione per certi aspetti meno evoluta - il pensiero logico, senza dubbio -, ma per altri ben più evoluta della nostra, a cominciare dal pensiero intuitivo e, non di rado, dalla sfera dell’affettività, della benevolenza spontanea, della sincera commozione davanti allo spettacolo del dolore altrui.
Si racconta, e anche questi sono casi perfettamente documentati, non solo di cani, gatti, cavalli, ma anche di uccelli, liberi e domestici, di mucche, perfino di api, che hanno dimostrato, con il loro comportamento, segni inequivocabili di turbamento e di commozione nei confronti della morte di un essere umano; morte di cui non sempre erano stati testimoni, ma di cui avevano “saputo” in qualche maniera a noi sconosciuta e, tuttavia, certa e infallibile.
Del resto, che cosa poteva sapere il cane della storia sopra citata, di ciò che si agitava nel cuore di quella donna costretta a percorrere, al buio, un quartiere malfamato di una città a lei sconosciuta? Il delfino, ad esempio, può rendersi conto di quando un essere umano si trova in pericolo di affogare, dal modo in cui quest’ultimo si muove nell’acqua; ma quel cane, che modo aveva di conoscere i pensieri e i sentimenti della donna?
Non sono fratelli minori dell’uomo, dunque, gli animali; sono fratelli e basta; fratelli dei quali poco sappiamo, anche perché, da sempre, abbiamo prestato scarsa attenzione alla loro vita interiore, e i filosofi sono stati i primi a brillare per la loro assenza dio riflessione o, peggio, per la stupida superficialità delle loro sporadiche osservazioni.
Non aveva forse detto, il “grande” Cartesio, che l’animale è semplice “res extensa”, sostanza estesa, priva di pensiero, di sentimento e finanche di sensibilità? Non aveva negato che l’animale possa pensare, sentire, soffrire o gioire? Si vede che, nella sua immensa presunzione ed ignoranza, non si era mai preso nemmeno la briga di leggere Omero con un  minimo di attenzione: altrimenti, l’episodio del cane Argo, che riconosce il suo amato padrone Ulisse dopo vent’anni di assenza e che cade morto ai suoi piedi, certo per la vecchiaia ma, forse, anche per la troppa felicità, avrebbe dovuto pure insegnargli qualcosa.
E che dire di quella cagnetta che, raccolto dai marinai di una nave da guerra americana nel Pacifico, quando quest’ultima venne posta fuori servizio e demolita, non resse allo spettacolo e morì di crepacuore?
C’è un grande mistero, nel mondo degli animali: essi sanno più cose di noi: prevedono l’avvicinarsi di pericoli, terremoti, eruzioni vulcaniche; sanno ritrovare la strada di casa a centinaia e, talvolta, a migliaia di chilometri di distanza; sanno leggere nel pensiero e nel cuore degli umani, molto meglio di quanto questi ultimi non siano in grado di fare con essi.
E allora rispettiamolo, quel mistero; facciamoci piccoli davanti ad esso, riconosciamo l’insufficienza del nostro pensiero razionale.
E andiamoci piano nel ritenerci gli unici soggetti dell’universo che possiedano dei diritti “naturali”; nel ritenerci gli unici esseri dotati di ragione e, perciò, superiori a tutti gli altri.
Certo un animale non è in grado di leggere e commentare la «Divina Commedia», né di comprendere i tredici libri degli «Elementi» di Euclide; e allora? Forse che la conoscenza dei segreti della natura, l’intuizione di ciò che passa nella mente e nel cuore di altri esseri viventi, per non dire dello spontaneo prodigarsi per lenire le altrui paure o per alleviare le altrui difficoltà, è cosa meno straordinaria e meno degna di ammirazione?