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Chi non sa dire a se stesso tutta la verità è destinato a ripetere sempre gli stessi errori

di Francesco Lamendola - 13/04/2012


 

 

Gli esseri umani, anche troppo spesso, non si dicono la verità gli uni agli altri; non se la dicono perché vogliono ingannare l’altro, oppure perché vogliono ingannare se stessi, oppure per entrambe le ragioni insieme.

Che non la conoscano affatto, questo non è possibile, se parliamo della verità interiore che ciascuno porta impressa nelle profondità della propria anima: un uomo o una donna adulti, e spesso anche prima di diventare tali, indipendentemente dal titolo di studio di cui sono in possesso o da altri fattori esteriori, non sono mai così ciechi da non sapere, da non sentire, da non vedere quale sia la verità dei loro sentimenti, delle loro motivazioni, quale la radice dei loro desideri e dei loro timori, quale la forza che li muove e li spinge da una parte, anziché da un’altra.

Certo, per molte persone si tratta di un sentire, di un intuire, appena embrionali, piuttosto confusi e quasi nascosti sotto numerosi strati di pensieri e comportamenti che parrebbero andare in tutt’altra direzione, ma che hanno solo, o principalmente, la funzione di distogliere l’io da se stesso, di ingannare quell’anima che cerca, appunto, degli alibi ed una falsa coscienza, per potersi auto-ingannare, quando ciò le faccia comodo.

Nessuno però, crediamo, è talmente ignorante di se stesso, da non sapere, in qualche parte della propri anima, quel che sente e quel che prova; nessuno, a meno che lo voglia, è talmente sprofondato nella inconsapevolezza, da non rendersi conto di quale sia la verità che si muove al suo interno, che lo porta verso certe persone o certe situazioni e che lo allontana da altre; nessuno, a meno che si tratti di un ritardato mentale cronico, può invocare la giustificazione dell’ignoranza, quando si tratta di rivelare a se stesso la verità di ciò che ha nel cuore.

Questa è la premessa del ragionamento che adesso vogliamo svolgere.

Ora si tratta di vedere che cosa succede quando l’anima si trova davanti alla propria verità interiore; quando la vede, quando la riconosce: il che può accadere anche in circostanze improvvise, magari drammatiche, anche se, di regola, avviene il contrario, cioè si tratta di una presa di coscienza graduale e perfettamente consapevole, maturata nel tempo; e anche se qualcuno potrebbe invocare, come fa Pirandello, la mancanza di un “io”, per sostenere che noi non siamo affatto i protagonisti di quel che sentiamo e di quel che facciamo, perché, in fondo, siamo centomila, il che equivale a dire che siamo nessuno.

È chiaro che chi ignora la legge fondamentale del “conosci te stesso”; chi non ha mai provato a muovere nemmeno un passo sul cammino della consapevolezza interiore, ma è sempre vissuto in modo superficiale  e bassamente egoistico, si trova in una posizione tale da riconoscere solo con una certa difficoltà la verità di cui è portatore; ma da ciò non consegue che qualcuno possa non vederla per nulla, che qualcuno possa essere così cieco e incosciente da non sapere, alla lettera, chi egli sia veramente e che cosa si svolga nelle profondità della sua anima.

Lasciamo che il solito furbo avvocato, abituato a prendere le difese di quanti commettono le azioni più ignobili, faccia sfoggio della sua eloquenza per asserire che non vi è colpa in chi non sa quello che fa, e tanto meno in chi non sa quello che egli è; lasciamo che il solito coro di quanti vorrebbero ridurre l’uomo a un burattino senza volontà e senza coscienza di se stesso, al solo scopo di poterne giustificare anche le azioni peggiori, ripeta che egli è privo di libero arbitrio: la voce interiore ci dice che le cose stanno altrimenti e che noi, d’ordinario, per quanto condizionati da svariate circostanze, siamo assai più lucidi di quanto non vorremmo ammettere.

Prendiamo il caso di Mirandolina, la protagonista della commedia «La locandiera», da molti considerata il capolavoro di Carlo Goldoni.

Soffermiamo la nostra attenzione su un particolare momento della vicenda: quello in cui Mirandolina, dopo aver fatto innamorare di sé il Cavaliere di Ripafratta, deve fare i conti con quel poderoso sentimento che ella ha suscitato in lui, soltanto per gioco e per desiderio di mostrare il proprio potere di seduzione, la propria irresistibilità femminile.

La situazione è questa: l’orgoglioso Cavaliere, misogino dichiarato e sprezzante, è adesso ai piedi della “semplice” locandiera; le ha confessato il suo amore, e ne è stato deriso e sbeffeggiato; è stato umiliato e costretto a rivelare quello che è nato in lui, e che la donna, usando tutte le sue risorse di consumata civetta, ha fatto nascere, non esclusa la simulazione di un vero e proprio svenimento, quando lui le aveva annunciato di voler partire.

Quella vittoria morale avrebbe potuto bastarle, e non le è bastata; ella poteva, cioè, ritenersi paga di aver costretto il Cavaliere a fuggirsene via, per non dover cedere alla potenza del suo richiamo sessuale; non ha voluto: perché il suo trionfo fosse completo, bisognava che la sconfitta del Cavaliere fosse palese, diventasse uno spettacolo agli occhi di tutti, e che egli la ammettesse pienamente, senza finzioni, senza sotterfugi. E così è stato: il Cavaliere, uomo rude ma sincero, incapace di slealtà e di finzioni (per esempio, non le ha promesso di volerla sposare, come gli altri nobili avventori della locanda), si dichiara vinto e innamorato.

Lei ancora lo deride, finge di non credere alle sue dichiarazioni d’amore, mentre sa benissimo che lui è sincero, anzi, che è l’unico uomo sincero fra tutti quanti le hanno dichiarato, sino a quel momento, il loro amore, con la sola eccezione di Fabrizio, il servitore che suo padre, morendo, le ha consigliato di sposare; si schermisce, gioca, celia, scherza, mentre lui arde di passione e soffre, palesemente, di un sentimento che non riesce a controllare.

Ebbene: a quel punto la vittoria di Mirandolina è completa, manca solo il pubblico, ma, d’altra parte, coinvolgere il Conte d’Albafiorita e il Marchese di Forlipopoli, gli altri due principali “pretendenti” di lei, sarebbe, sì, una bella soddisfazione, ma anche un pericolo, perché comporta il rischio di un pubblico scandalo; e lei, Mirandolina, ci tiene moltissimo alla fama della sua “onestà”, che è tutt’uno col buon nome della locanda: affari e sentimenti, per lei, vanno di pari passo, o per meglio dire, i secondi sono al servizio dei primi, dal momento che ella è un’abile e scaltra imprenditrice, e da imprenditrice ragiona, anche quando si tratta di affari di cuore (prova ne è che, alla fine, sposerà, senza amore, proprio il modesto Fabrizio: modesto non solo in senso economico e sociale, ma soprattutto in senso umano).

Mirandolina, dunque, ha vinto; non le basta: vuole stravincere; dopo aver fato innamorare il cavaliere, lo deride; dopo averlo deriso, finge di non credergli; dopo aver finto di non credergli, lo vuole esasperare. Egli, giustamente, le chiede un chiarimento: vorrebbe un ultimo colloquio per capire quel che ella prova, così come egli è stato sincero con lei; la invita, senza malizia, nella sua camera, per poterle parlare in privato: lei si nega, lo fa aspettare, coinvolge Fabrizio nell’affaire, simula preoccupazione per la propria “onestà”, lasciandogli intendere che quello la vuole nella sua camera per ragioni poco oneste. Così facendo, riconquista il perplesso Fabrizio, si mette perfino sotto la sua protezione: intravede la necessità di dare una svolta alla sua vita, di mettere la testa a posto e di sposarsi, beninteso con un uomo di paglia, da poter manovrare come un burattino, dall’alto dei suoi soldi e del suo carattere molto più forte e volitivo.

La Locandiera, dunque, rifiuta al Cavaliere quell’ultimo colloquio; e quando lui, infuriato, lo pretende, lo costringe a svelarsi davanti a tutti, accorsi al rumore. Non è vero che gli offra, per bontà d’animo (ella non sa cosa sia la bontà), una onorevole via di fuga, invitandolo a dichiarare davanti agli altri clienti che non è innamorato di lei; gli parla così per sfidarlo e obbligarlo a tradirsi: sa bene che il Cavaliere, uomo incapace di mentire, non potrebbe mai fare una simile dichiarazione, che lo squalificherebbe per sempre davanti ai suoi occhi, mentre ancora il poveretto spera e si illude che ella possa accettare il suo amore e ricambiare i suoi sentimenti.

No: Mirandolina, così abile nel far confessare agli altri quello che provano, con se stessa usa un’altra misura; non vuole mai scoprirsi, lei, neppure quando trionfa.

Ma che cosa c’è dietro il rifiuto di una spiegazione con il Cavaliere, dietro il rifiuto di addolcire con una parola gentile, con un sorriso, con una frase scherzosa, tutte cose nelle quali è maestra insuperabile, il dolore e l’amarezza che gli ha procurato, giocando con lui come il gatto col topo e facendosi beffa dei suoi sentimenti?

Non è un po’ troppo crudele la sua vendetta, e non è un po’ troppo astratta la sua reiterata affermazione di aver voluto vendicare l’onore di tutte le donne, offeso dal disprezzo del Cavaliere? Un tipo così pratico, come lei mostra di essere (le sue riflessioni a voce alta, nel corso della commedia, rivelano una grettezza d’animo quasi caricaturale), può davvero mettersi in una impresa sentimentale solo per ragioni “ideologiche” proto-femministe? Certo, siamo nel secolo dei Lumi, nel secolo del Progresso, nel secolo della Felicità; e siamo anche nel secolo degli avventurieri come Casanova e delle avventuriere, come la Marchesa di Merteuil de «Les liasons dangereuses»; ma Mirandolina è una solida borghese che non ha tempo per la teoria e che si è costruita una filosofia di vita assolutamente pratica e concreta, a misura del proprio interesse.

Ancora: quando il Cavaliere parte, insalutato ospite, e va a far preparare la carrozza alla Posta, Mirandolina, davanti al servo di lui venuto a salutarla, si profonde in scuse: ma di che cosa, e perché scusarsi con un servo? Tutto lascia pensare che ella, inconsciamente, si stia scusando con il suo padrone, cioè con il Cavaliere: si sente, almeno un poco, la coscienza sporca; sa di non aver agito in maniera trasparente, e sa di essersi approfittata di un uomo sincero, con l’aggravante di aver carpito subdolamente la sua fiducia, proprio fingendo di essere diversa da quelle donne “lusinghiere”, cioè ingannatrici, che lui tanto detesta, e delle quali, non era difficile capirlo, in fondo ha paura.

E allora?

Mirandolina nega al Cavaliere il colloquio chiarificatore per una ragione più profonda di quelle che solitamente vengono addotte dagli studiosi di Goldoni; e, se è vero che, a un certo punto, la situazione sta per sfuggirle di mano (ma solo per un momento), non è nemmeno questa la ragione del suo comportamento: perché quel colloquio, con ogni verosimiglianza, avrebbe prevenuto lo scandalo ed evitato l’intromissione del Conte del Marchese, nonché la frettolosa e poco convinta promessa di matrimonio al solito Fabrizio.

Fra i critici che hanno esaminato i diversi risvolti di quel comportamento, ci sembra che Ettore Caccia si sia avvicinato più di altri alla vera ragione del mancato congedo “civile” e rasserenante dal Cavaliere; anche se non concordiamo con lui nel giudizio di fondo sulla Locandiera, che egli ritiene, in sostanza, dotata di serietà sentimentale, mentre noi propendiamo per la tesi del D’Amico, che vede in lei solo una perfida civetta, che si diverte a spese degli altri senza provare alcun pentimento e che, alla fine si sposa solo e unicamente per calcolo.

Così riflette Ettore Caccia nel suo saggio introduttivo a «La locandiera» (Brescia, La Scuola, 1964, pp. 17-18 e 19-20):

 

«… abbiamo osservato più volte, muovendo dalle sue stesse parole, come Mirandolina finga anche con se stessa, e non dica neppure a se stessa la verità: invero, quel gioco d’amore che ella per virtù di puntiglio ha voluto iniziare con il Cavaliere soltanto all’apparenza non l’ha toccata: in realtà, le ha mosso nel cuore l’oscuro presentimento di un mondo di serietà e di affetti al quale prima ella non aveva pensato, e al quale non pensava, abituata com’era ai corteggiatori di un giorno e di una stagione, disposti a donarle come il Conte una dote cospicua anche quando avesse deciso di sposarsi. Il Cavaliere, invece, con la serietà comica e patetica insieme della sua improvvisa e pur combattuta passione, l’ha posta di fronte ad un mondo nuovo: di qui la necessità di credere in una diversa vita di affetti e di sposare alla fine l’uomo che il suo buon senso le indica come più adatto, anzi unicamente adatto, alla sua situazione e alla sua esistenza futura. Insomma il matrimonio di Mirandolina non nasce da una decisione estemporanea e improvvisa voluta dall’autore per terminar lietamente la commedia, ma corrisponde (e per questo sono necessari e significativi certi sui monologhi infelicemente condannati dalla critica), ad una più profonda e non meno vera crisi sentimentale, che si accompagna così alla crisi sentimentale del povero Cavaliere di Ripafratta. La finezza e la bellezza di questa commedia è anche proprio in questo lontano sfondo di impegnata serietà sentimentale che nessuno degli stessi personaggi vuol porre in rilievo, perché nessuno le si vuol riconoscere debitore, ma che in realtà esiste, e domina la vicenda tutta. […]

Il Cavaliere di Ripafratta non si allontanerebbe infuriato dalla locanda se Mirandolina con qualche aperta parola di comprensione e anche di affetto gli esponesse chiaramente la situazione e lo invitasse alla rinuncia: il cavaliere di Ripafratta stesso allude a questo in un suo monologo, la cui prima stesura, nella edizione Paperini, era, per questo aspetto, ancora più utile e significativa. Perché Mirandolina si comporta in modo tanto aspro?  Solo in parte per paura fisica. Ella ha superato ben altri frangenti in quella locanda, e dice di temere per la propria onestà solo quando vuol accendere Fabrizio e provare la propria innocenza. Neppure ella lo fa per timore di scandali, o per il timore di disgustare l’innamorato più serio, dato che domina completamente i propri corteggiatori, e a Fabrizio si rivolge cion un dilemma che ha il tono di un “diktat”: o sposarla o andarsene. Si potrebbe pensare forse, e potrebbe essere questa l’unica interpretazione giustificata, che ella lo faccia per vendicare su quel disavveduto Cavaliere tute le ingiurie che gli uomini, con i loro falsi sentimentalismi, infliggono alle povere donne innamorate. E per questo aspetto avremmo anche il conforto di parecchie battute del teatro goldoniano, anzi di una intera opera buffa, “Il mondo alla roversa”, costruito proprio su questo motivo polemico. Ma non è chi non veda come questo tema della difesa del sesso sia quanto mai astratto, sia soltanto una delle spiritose invenzioni di Mirandolina: del sesso le importa tanto poco, nonostante le sue dichiarazioni, che se il Cavaliere avesse strapazzato lei e corteggiato Ortensia, ci sarebbe piaciuto sentore l’acredine dei suoi commenti su questo trionfo: che sarebbe pur sempre stato un trionfo del sesso, anzi un trionfo ancor più completo, perché arrendersi a Mirandolina può anche essere un’eccezione per una donna eccezionale, ma arrendersi alla grossolana Ortensia o a quella stupidella di Dejanira avrebbe voluto significare una resa totale in gi e qualsiasi occasione. Vocazione alla tirannia allora? Espressione del suo egocentrismo? Certo, è anche questo nella ricchezza della sua natura. Ma non solo questo; e non sembra possibile d’altra parte che il Goldoni abbia voluto compiere, per quanto ne dica, una vendetta radicale. Ritratto dell’atteggiamento che certe donne lusinghiere assumono, quando ormai sono certe della vittoria, come propone il Goldoni stesso nella sua prefazione? In origine era anche questo nell’intento dell’autore. Ma l’opera d’arte non si ferma alle intenzioni, e nessun critico ha preso sul serio quella confessione goldoniana.

Invece, Mirandolina non dice al Cavaliere le poche e decisive parole che tutto sistemerebbero proprio perché la sua gioiosa e brillante sicurezza di donna del Settecento si è improvvisamente incrinatura: nelle sue ultime battute con il Cavaliere non è soltanto la caricata affettazione di disprezzo per spegnere quell’incendio che non serve più al suo disegno, ma è anche una violenza polemica più forte, di istinto, in cui è quasi il peso di una certa insoddisfazione e di una certa amarezza. Per questo ella non è il pur brillante personaggio immorale che si diverte e che beffa soltanto, è qualcosa di più, è un’anima, come ha osservato l’Apollonio, che si ritira impaurita davanti a quella passione romantica che ella ancora non comprende e che ancora quindi non può accettare….»

 

In altre parole: Mirandolina, abituata a giocare con tutti, è stata sul punto di scottarsi anche lei; per la prima volta, l’intensità del sentimento che ha acceso, verso di sé, nel Cavaliere, le ha fatto intravvedere la terribile serietà dell’amore, di cui lei non sapeva nulla, pur conoscendo alla perfezione, per istinto e per arte, tutti i trucchi e tutte le astuzie della schermaglia amorosa convenzionale.

Ma il Cavaliere è di un’altra pasta del Conte e del Marchese: lui non gioca, lui si è innamorato davvero, e tanto più profondamente, quanto meno avrebbe creduto che ciò potesse accadergli. A quel punto, la fredda e calcolatrice ragazza, che si diverte a giocare con i nobili clienti, ma che sa di non poter ambire alle nozze con alcuno di essi, e che, probabilmente, è amareggiata all’idea di dovere, alla fine, accontentarsi di sposare Fabrizio, ha come un lampo, una intuizione: vede, per la prima e unica volta, quel che l’amore è, come possa trasfigurare una persona, con quanta forza possa afferrare il cuore di un essere umano e tenerlo nel pugno di ferro della sua signoria.

E ne ha paura.

Ha intravisto l’amore, e, insieme alla sua forza, anche le gioie inebrianti che può far provare; e se ne ritrae spaventata.

Con tutte le sue arie da donna vissuta e navigata, esperta dei segreti di cuore, è, al contrario, totalmente priva dell’esperienza fondamentale, non essendo mai stata innamorata di alcuno. Forse è frigida, forse in lei vi è una omosessualità latente: di certo non si è mi scottata, pur scherzando col fuoco ogni giorno, perché non ha mai visto, né intuito, cosa l’amore sia, cosa possa diventare nella vita d’un essere umano.

Forse c’è stato anche qualcosa di più: forse ha riconosciuto, nel Cavaliere, un uomo degno di lei, perché profondo, a paragone dei damerini azzimati e femminei che popolano la locanda e che le fanno la corte, ma solo a chiacchiere, come in un gioco di società; forse ha intuito che quell’uomo, che diceva di disprezzare le donne, potrebbe darle quel calore e quella forte passionalità di cui lei non sa nulla, perché non l’ha mai provata e nemmeno l’ha mai vista sul volto, nei gesti o nelle parole dei suoi spasimanti dichiarati, in fondo assai poco virili.

Forse anche lei, per un momento, è stata toccata dall’intensità della passione del cavaliere; forse è stata a un passo dal sentirsene contagiata, dal desiderio di lasciarsi andare, per una volta: di deporre la maschera e di lasciarsi amare, amandolo anch’ella, da un vero uomo.

Ma ha avuto paura, e si è ritratta.

Egoista fino all’ultimo, ha pensato solo a se stessa; non si è minimamente immedesimata nella sofferenza gratuita che ha inflitto al Cavaliere; e non è stata capace, appunto, di dirgli quella parola dolce, che avrebbe potuto attenuarne la frustrazione e addolcirgli l’amarezza del rifiuto.

Sarebbe bastato così poco: una parola, un sorriso; e da vincitrice, non da sconfitta.

Ma non l’ha fatto, e con ciò si è perduta.

Vivrà nel rimorso, se ha un minino di coscienza; e, se non ce l’ha, come noi crediamo, sarà destinata a ripetere ancora lo stesso errore, ancora e ancora: chissà quante dovrà sopportarne il povero Fabrizio. Magari a quaranta, magari a cinquant’anni, una donna come lei finisce per lasciare emergere la propria natura: nemmeno una Mirandolina può imporsi di amare un marito da nulla, che tiene alla frusta come un somaro, che manipola  a suo piacere come un pupazzo e per il quale non ha mai provato la minima accelerazione del battito cardiaco.

Ma non troverà la pace.

Chi non sa dire a se stesso tutta la verità, non è degno di trovarla; e, di fatto, non la trova.

Chissà quante donne e quanti uomini così, simili alla Locandiera, ripetono incessantemente gli stessi errori, senza mai imparare nulla dalla vita: per mancanza di coraggio e di lealtà verso se stessi; perché le menzogne, specialmente quelle dette a se stessi, comportano sempre un alto prezzo da pagare.