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Quando l’energia vitale di una società si esaurisce, la fine è solo questione di tempo

di Francesco Lamendola - 04/05/2012

 


 

Ogni società, pensava Spengler e non crediamo avesse torto, è simile a un organismo: possiede una energia che la tiene in vita e, finché tale energia viene diretta verso scopi sani e naturali, la società vive in buona salute, cresce  progredisce; quando l’energia viene deviata verso l’ozio, la lussuria, il sadismo, ciò significa che quella società è arrivata al capolinea.

L’energia di una società, come quella degli individui, è forza vitale istintiva, che si esplica nel lavoro, nello sport, nella caccia, nella guerra, nella preghiera, nel viaggio, nell’arte, nella scienza, nello studio, nella musica e nella danza; e, naturalmente, nell’amore e nel sesso.

Spesso si tratta di una combinazione di tutti questi aspetti, che sono come i diversi lati di una stessa forza primordiale, ora consapevole di se stessa (nei livelli superiori), ora, e più spesso, confusa e inconsapevole; nell’amore e nel sesso, per esempio, possono essere presenti quasi tutti gli altri aspetti, ivi compresi quelli legati alla violenza, alla distruttività, al sadismo, di solito sublimati e appena percettibili.

L’energia è spontanea, tumultuosa, sovrabbondante: nasce da un di più di forza vitale e ha bisogno di scaricarsi, come si vede nei bambini sani, che sono sempre in movimento, saltano e corrono senza un perché, semplicemente perché hanno energie in eccesso da sfogare. Il compito di una società matura, così come lo è dell’individuo maturo, consiste nel trovare il modo di coordinare e indirizzare tale eccesso di forza vitale in direzioni utili e produttive, o, quanto meno, evitare che esso si ritorca contro se stesso; cosa che può facilmente accadere se gli istinti e le passioni non vengono passati gradualmente attraverso il filtro della volontà, in vista di obiettivi ragionevoli e proficui, sorretti da una precisa scala di valori.

Accade tuttavia, nella vita delle società come in quella degli individui, che l’energia vitale, per una serie di ragioni, anche se inizialmente bene indirizzata, finisca talvolta per esaurirsi; in tal caso, può succedere che ciò venga mascherato mediante strategie più o meno raffinate, aventi lo scopo di risvegliarla, però in maniera deviata, patologica, come è inevitabile che accada in un contesto che non è più naturale, ma puramente artificiale.

Quando ciò accade, l’arte si fa monotona, ripetitiva, manieristica; la scienza si ferma e langue; la religione si riduce a pura esteriorità cerimoniale; il lavoro non conosce innovazioni, i viaggi assumono l’aspetto di evasioni, lo sport degenera in spettacolarismo, la caccia diventa inutile carneficina, la guerra diventa massacro insensato, l’amore si spegne e il sesso si riduce a una serie di pratiche sempre più promiscue, sempre più estreme, con un alto gradiente di perversione, di crudeltà, di ricerca delle sensazioni estreme.

I segnali più evidenti che una società ha esaurito la propria energia vitale sono il calo demografico e, per contro, l’aumento massiccio delle pratiche abortive: significa che quella società non ama più la vita, non crede più nella vita, non scommette più nel futuro, ma è ormai ripiegata in se stessa, chiusa nel proprio egoismo, nella propria lussuria, nella propria stanchezza; significa che, anche se non sempre se ne rende conto, essa sta inseguendo non la vita, ma la morte.

Una società che sta esaurendo la propria energia vitale è perciò, per definizione, una società necrofila: non stupisce che, in essa, aumentino la noia, la disperazione, il crimine efferato e inutile, il suicidio, anche nella forma lenta ed implicita dell’alcolismo e della dipendenza da sostanze stupefacenti. In breve, essa è in preda al disordine delle forze distruttive, che prendono il posto di quelle positive: implode, letteralmente, e spesso agonizza con il riso sulle labbra.

Vi sono state epoche della storia in cui il fenomeno dell’implosione sociale è stato particolarmente evidente: i Romani più intelligenti della decadenza, come Seneca o Marco Aurelio, se ne resero conto perfettamente, ma, invischiati nell’orizzonte del morente paradigma culturale, non furono in grado di indicare una via d’uscita; altri, come Virgilio e Augusto, s’illusero, scambiando l’estate di San Martino del mondo antico per un ritorno dell’estate e della vita vera; molti, infine, non si resero conto affatto di quel che stava accadendo, come i vari Ovidio, Ausonio e simili.

Fra quanti si resero conto della fine imminente, ci fu chi se la prese con il bersaglio sbagliato, come Rutilio Namaziano, che attribuì ogni colpa ai barbari e al cristianesimo: una tesi che, nella sua rozzezza e nel suo semplicismo, sarebbe piaciuta, tredici secoli dopo, a un Edward Gibbon e, in generale, alla storiografia illuminista, che la sposò incondizionatamente.

Non c’è niente da fare: per rendersi conto di quando una società sta esaurendo la propria energia vitale e sta degenerando, e soprattutto per vederne con lucidità le cause, è necessario porsi al di fuori del suo paradigma, cosa che ai contemporanei è sempre estremamente difficile; così come è difficile, per il singolo individuo, rendersi conto di quando egli stia smarrendo l’amore per la vita e stia imboccando la spirale nefasta della depressione, se non quando è già troppo tardi per reagire con la propria volontà; e, anche in quel caso, non è detto che egli sia capace di leggere con chiarezza le cause di quel che gli sta accadendo.

Al tramonto della civiltà antica, furono i seguaci delle religioni orientali, importate nell’Impero romano durante i suoi ultimi secoli di vita, a intuire il punto morto; molte di quelle, però, non furono che l’effetto della crisi e quindi non seppero elaborare una seria alternativa al mondo che si stava spegnendo. Sembra che solo i cristiani abbiano avuto una tale lucidità: l’«Epistola ai Romani» di san Paolo, scritta, dopotutto, a soli pochi decenni dalla morte di Cristo, rivela uno sguardo molto lucido sui vizi morali della società romana e sui suoi aspetti degenerativi.

In particolare, san Paolo coglie perfettamente il nesso esistente fra il disordine morale dei singoli individui e gli effetti sociali che ne derivano: vede, cioè, come  l’avidità, l’egoismo, la lussuria, la menzogna, l’idolatria (intesa nel significato letterale dell’espressione), non possano non produrre degli effetti che si ritorcono fin da subito contro quanti indulgono in simili vizi, degradandosi nella ricerca di piaceri sempre più estremi ed infecondi e spogliandosi inesorabilmente della propria profonda umanità.

Dicevamo che l’energia di cui dispone una società, e che si manifesta nelle diverse opere della pace e della guerra, deve essere saggiamente indirizzata e, talvolta, sublimata, affinché svolga una funzione utile, di crescita e di progresso morale; ma può anche accadere che essa sia male indirizzata fin dall’inizio e che si trasformi nell’elemento di maggiore distruttività per la società stessa.

Un buon esempio di ciò può essere offerto dall’antica società azteca: a quel che sappiamo, si direbbe che il popolo azteco abbia indirizzato il più e il meglio delle proprie energie per muovere una guerra permanente contro i popoli vicini, al fine di procurarsi innumerevoli prigionieri da sacrificare al dio del Sole, Huitzilopochtli, che avrebbe potuto spegnersi e lasciar morire la Terra, se non fosse stato alimentato con il sangue di incessanti sacrifici umani.

Gli Aztechi vivevano nell’angoscia e nel terrore cosmico: erano un popolo di disperati, che non potevano non agire come spietate macchine di distruzione e accumulare sempre più cuori insanguinati da offrire alla divinità, nel patetico tentativo di scongiurare una catastrofe universale; non stupisce il fatto che Cortés, quando sbarcò sulle coste del Messico, abbia trovato tanti preziosi e fedeli alleati fra le popolazioni oppresse dal loro fanatismo bellicista.

Una società che non ama più la vita, dà poca importanza alla vita stessa: presso i Maya, i giocatori di pallone venivano mandati a morte se lasciavano cadere a terra la palla; nella Roma imperiale, uomini, donne e ragazzi di ogni ceto e di ogni età affollavano l’arena, per saziarsi allo spettacolo dei gladiatori che si massacravano a migliaia, fino all’ultimo uomo, nonché dei condannati che venivano crocifissi, arsi vivi, dati in pasto alle bestie feroci.

I membri delle società che amano la vita sono pronti a morire, per difendere dei valori superiori: gli dei, la patria e la famiglia; in quelle che corteggiano la morte, si gioca con la propria vita e si è disposti a morire per nulla, come si vede nel film di Michael Cimino «Il cacciatore», dove un reduce americano dal Vietnam scommette sulla propria vita, puntandosi alla tempia la pistola nel gioco crudele della “roulette russa”.

Ben diverso era il sacrificio della vita da pare dei monaci buddisti, che si davano fuoco in pubblico, per denunciare l’ingiustizia del governo di Saigon: quel gesto, che superficialmente potrebbe sembrare altrettanto poco rispettoso della vita di quello del “marine” che gioca alla sorte con una pistola con un solo colpo nel tamburo, nasceva, al contrario, da un alto senso di responsabilità morale, così come esso si esprime nel contesto della cultura buddista e in tutte quelle società che amano talmente la vita (non la vita egoistica del gaudente, ma la vita cosmica, cui partecipano tutte le creature esistenti sulla Terra), che i loro membri sono pronti a sacrificarla, quando ciò appaia ragionevole e necessario.

Scriveva Lewis Mumford nel suo classico «La condizione dell’uomo» (titolo originale: «The Condition of Man», 1944; traduzione italiana di Alberto Mondini, Milano, Bompiani, 1967, 1977, vol. 1, pp. 51-56):

 

«In contrasto con i Greci […], i Romani elaborarono una religione del corpo su basi puramente muscolari e sensitive: invece di nutrire il super-ego, il culto romano sosteneva un rituale materialistico. Nelle istituzioni del circo, dell’arena, della pantomima i Romani crearono una specie di congegno per diminuire la tensione dovuta alle repressioni militari e civiche. Qui lo spettatore era il personaggio supremo:padrone  di un’esistenza senza sforzo. Qui egli incontrava la morte senza correre pericoli; contemplava il pericolo  senza dover dimostrare bravura; praticava la crudeltà senza esporsi a rappresaglie; ; o partecipava all’orgasmo collettivo per null’altro che il prezzo d’ingresso. […] Nell’arena vi erano le corse delle bighe; cioè la gara, l’eccitazione, occasioni per scommettere; ad onta dei pericoli corsi dagli aurighi, questo era forse il più innocente fra i divertimenti dei Romani.

Ma nacque nel circo un altro tipo di spettacolo. Vi si punivano i criminali; si facevano combattere uno contro l’altro i prigionieri di guerra fino alla morte di uno dei contendenti o d’ambedue; altri prigionieri erano gettati alle fiere per essere sbranati e divorati vivi. La punizione era in origine uno spettacolo pubblico, presumibilmente perché servisse di monito agli spettatori; ora serviva ad un altro scopo che dava piacere. Il popolo minuto di Roma, frustrato ed umiliato, spesso costretto a vivere in grosse case così mal costruite dagli avidi padroni che talvolta crollavano seppellendo gi inquilini fra le macerie, proiettava i propri terrori e le proprie umiliazioni sulle povere vittime. Gli oppressori erano intangibili; l’esercito sapeva donde provenisse il suo soldo. Così il popolo minuto si volse ai suoi simili e s’impinguò delle sue sofferenze. Da uno stomachevole sfruttamento nacque una vendetta ugualmente stomachevole.

Terrorismo, violenza e lussuria vennero sistematicamente organizzati in misura incredibile: la gente viveva alla giornata nelle gioie ingannevoli delle più ingegnose brutalità che mai abbiamo depravato il genere umano. I Romani divennero esteti della tortura. La richiesta di vittime allargò i limiti del delitto: come se i peccati non fossero abbastanza frequenti, si inventarono reati fantastici, bollando ad esempio quale mancanza di rispetto verso l’augusta immagine dell’imperatore il portare in una latrina o in una casa malfamata una moneta o un anello che portassero impresse le sue sacre sembianze. […]

Vorreste conoscere le caratteristiche precise di questi spettacoli? Ci vuole uno stomaco forte come quello che occorre per leggere la descrizione delle torture in un campo di concentramento nazista. […]

Ancora oggi vale la pena di leggere Seneca; poiché egli è un anello di congiunzione, in maniera molto più diretta di quanto non lo siano Epitteto, Marc’Aurelio, o Plotino, fra la filosofia cristiana e quella romana; un simbolo dell’impossibilità di sopportare all’infinito questi riti di crudeltà, tortura, avidità e lussuria, anche per un’indurita anima romana. […]

Se il sadismo divenne un assorbente rito collettivo, l’erotismo restava un prurito ossessivo. V’era stato a Roma un periodo nel quale la licenza era stata ammessa con sanzione religiosa, nei Saturnali: i misteri del sesso sono vicini al cuore di ogni religione.  […]

Non ostante i divieti e le drastiche disposizioni di legge, l’adulterio divenne di moda e l’aborto necessario. I rapporti sessuali diventavano sempre più facili, erano dappertutto. Schiavi, prostitute, pederasti erano a portata di mano, pronti alla chiamata. Saziato il corpo, l’immaginazione lo stuzzicava di nuovo: quando i genitali non rispondeva più, l’occhio sui pasceva di rivoltanti esibizioni di carnalità, quali quella descritta da Petronio in uno dei suoi festini del “Satyricon”.

Il circo liberava le inibizioni e favoriva l’eccitazione sessuale: i rapporti, più spesso che non si pensi, avevano nel circo la loro origine. […]

Circo, pantomima, festini, spettacoli, bagni pubblici debbono aver tenuto gli organi sessuali in uno stato di turgida aspettazione. E v’è forse da dubitare che in un tale stato di superstimolazione e fatica sessuale non si verificasse una diminuzione di interesse nel sesso ed un indebolimento della tensione sessuale? L’oscenità prese il posto del desiderio, mentre l’esibizionismo e la e la curiosità si sostituirono alla potenza e al piacere. Ci che chiamiamo genericamente perversione è spesso l’arresto del corteggiamento sessuale a mezza strada del suo sviluppo: un momento fuggevole è estratto dal tutto, ed elevato a parte principale. E mentre la sublimazione, quando la si ricerca e la si trova, impiega l’energia sessuale e persino la eleva ad un livello superiore, la perversione la pone in disparte e l’esaurisce. In questo senso non è paradossale parlare di sessualità deficiente in un mondo dedito a fomentare la lussuria. […]

E qui ancora si può capire perché l’ozio fu considerato dal Cristianesimo come padre del peccato: il principale strumento di Satana. […] Qui una vita vuota veniva resa ancora più vuota da un’abitudine che quasi invertiva le parti normalmente assegnate al gioco e al lavoro. E qui il disprezzo di sé scendeva fino al disprezzo della vita. Il suicidio era quasi l’unico rifugio onorevole per un’anima virile.

Una tale deviazione in massa dell’energia può forse spiegare la mancanza di inventiva: e ciò rimane vero, secondo Seeck, anche per l‘arte della guerra. In letteratura e in filosofia i vecchi temi vennero rivoltati e ricuciti finché mostrarono la corda. Anche nelle arti del godimento sessuale, dove si potrebbe pensare che la ingegnosità dei Romani superasse se stesa, non vi furono miglioramenti importanti: i sistemi anticoncettivi, per esempio, rimasero un’arte empirica e malsicura; ed anche negli anticoncettivi elencati da Surano di Efeso quelli di dubbia efficacia vengono mescolati a invenzioni sperimentate e provate, come il pessario occlusivo: si crede che l’acqua del secchio di un fabbro, bevuta dopo ogni periodo mestruale, provocasse la sterilità. Le donne romane pagavano con la frequente pratica dell’aborto il fio di queste ricette improvvisate.»

 

Riassumendo.

Il dinamismo e il vitalismo esasperati, l’incessante manipolazione degli enti, la corsa al piacere, al denaro, al potere, non sono affatto indice di salute da parte di una società, anche se possono simularla; così come non lo sono nel caso del singolo individuo.

Il corteggiamento della morte può nascondersi dietro una facciata gioviale, spensierata, festaiola, gaudente; mentre l’amore per la vita può esprimersi nel silenzio austero dell’interiorità, come nel caso dei monaci o delle monache di un convento di clausura.

Esiste una stretta correlazione fra la perdita di valori, l’ozio, il disordine morale e il disamore per la vita; e, spesso, una tendenza marcata alla mancanza di compassione, al sadismo, alla crudeltà, è la spia inequivocabile che una società sta correndo verso la propria distruzione.

Le culle vuote e l’altissimo numero di aborti sono l’effetto, non la causa, del disamore per la vita: essi esprimono la perdita di speranza, lo scivolamento verso l’inferno degli istinti più egoistici e delle passioni più sfrenate, chiusi in se stessi ed incapaci di sublimarsi e indirizzarsi verso scopi utili e benefici per la vita.

La società odierna, che ha eretto un feticcio alla libertà assoluta dell’individuo e che non concepisce più se stessa se non come il contenitore degli appetiti disordinati dei singoli, è avviata verso la china dell’autodistruzione, testimoniata anche dal proliferare di aberrazioni morali d’ogni sorta, dalla glorificazione del male, dal dileggio sistematico del bene, culminanti nei culti satanici ormai così diffusi e nel cinico disprezzo per la vita umana, animale e vegetale.

Chi ha occhi per vedere, veda; e chi ha ancora amore per la vita e fede nel futuro, agisca di conseguenza.