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Quanta responsabilità abbiamo nei confronti dell’altro?

di Francesco Lamendola - 13/05/2012

 


 

«Sono forse il custode di mio fratello?», ribatte Caino a Dio che gli ha chiesto dove si trovi suo fratello Abele; e parla in assoluta malafede, perché lui stesso ha appena ucciso Abele, e le sue mani sono ancora sporche di sangue.

Tuttavia, anche se non avesse consumato il fratricidio, Caino sarebbe ugualmente responsabile della sorte di suo fratello: ciò è implicito nelle sue parole sprezzanti, che solo in apparenza sono una negazione, mentre suonano come una ammissione, sia pure involontaria.

Ciascuno di noi è responsabile della sorte del proprio fratello, se intendiamo per “fratello” ogni altro essere vivente (e, fra parentesi, non solo i “fratelli” umani, ma anche i non umani) per un moto istintivo della coscienza, il tribunale supremo dell’anima: San Tommaso insegnava che nessun tribunale umano, nessun comandamento, neppure quello che sembra essere un ordine divino, è superiore all’istanza morale della coscienza.

La coscienza, dunque, ci suggerisce che noi non siamo estranei al destino degli altri viventi; che noi ne siamo, anzi, custodi e, perciò, responsabili; che tutto quanto di bene o di male riguarda l’altro, interpella anche noi, sfida anche noi, rallegra o rattrista anche noi.

Pertanto, la domanda che ci dobbiamo naturalmente porci, non è se siamo responsabili, o no, della sorte dei nostri fratelli, ma in quale misura lo siamo e che cosa dobbiamo fare, come dobbiamo regolarci, quali strategie dobbiamo assumere per far sì che il nostro impatto su di loro sia positivo e non negativo, faccia loro qualche bene o, almeno, eviti loro qualche male.

Infatti, questo è certo, il nostro esserci non è mai neutro, non è mai indifferente, non è mai insignificante: per il solo fatto di esistere, per il semplice fatto di vivere la nostra vita, ciascuno di noi esercita una influenza, più o meno rilevante e significativa, nella vita degli altri.

Ciò appare evidente se pensiamo ai nostri congiunti: che cosa sarebbero loro, senza di noi? E, nel caso dei nostri figli: esisterebbero loro, se noi non ci fossimo stati? Ma è altrettanto vero anche per le altre persone e per gli altri viventi, fino a colui o colei che incrociamo per una sola ed unica volta nel corso della nostra intera esistenza; fino alla formichina che attraversa la nostra strada, mentre noi stiamo camminando e non badiamo a dove posiamo il piede.

Dunque: quanto siamo responsabili, noi, nei confronti dell’altro?

E qual è il modo migliore per gestire l’influsso che di certo, volontariamente o involontariamente, esercitiamo su di lui?

Ecco due domande di una certa importanza, sulle quali sarebbe opportuno soffermarsi un momento a riflettere.

Alla prima è difficile dare una risposta precisa, per il fatto che la risonanza di quel che facciamo o anche solo di quel che diciamo, e perfino di quello che non facciamo e non diciamo, non risponde a una proporzione diretta con la nostra intenzione, ma segue alte vie, a noi sconosciute.

Nessuno si meraviglierà troppo di sapere, ad esempio, che, se un filosofo scrive un libro per esaltare il significato del suicidio come gesto di libertà, qualche lettore possa essere tentato di mettere in pratica una simile affermazione: in questo caso, la relazione fra la causa e l’effetto è così evidente, da non destare sorprese di sorta.

Ma che dire di un adolescente che si toglie la vita in seguito ad un brutto voto riportato a scuola, o ad un normale (e magari meritatissimo) rimprovero da parte dei genitori? In casi del genere si rimane sconcertati, perché ci sfugge la relazione tra la causa e l’effetto.

La cosa si fa ancora più oscura, se possibile, nel caso di una omissione: quando, cioè, effetti importanti, e magari drammatici, sono provocati da una causa “negativa”, ossia da un gesto mancato, da una frase non pronunciata.

D’altra parte, non è detto che da azioni, o da omissioni, di cui non avremmo immaginato la portata, discendano solo effetti negativi, o comunque sproporzionati: nella stessa maniera enigmatica, può accadere che si producano effetti postivi; può accadere, cioè, che si possa fare del bene al prossimo con una frase detta casualmente, con un gesto originato da motivazioni tutt’altro che altruistiche: e anche questo è un fitto mistero.

Dobbiamo dedurne che, essendo impossibile prevedere gli effetti del nostro agire, tanto vale regolarsi come se non ve ne fossero, e andare dritti per la propria strada, perseguendo i propri obiettivi, senza preoccuparsi minimamente di come gli altri reagiranno o delle conseguenze che ne deriveranno per essi?

Questo ci riporta alla seconda domanda, che, evidentemente, è legata strettamente alla prima.

La risposta è articolata. Anche se noi non possiamo prevedere, al cento per cento, l’impatto che il nostro agire avrà sul prossimo, dobbiamo, nondimeno, essere cauti: abbiamo il dovere della correttezza, della delicatezza e soprattutto della buona intenzione: di questo siamo, sì, responsabili, e non possiamo sottrarci a tale responsabilità.

Infatti, se in certi casi è impossibile immaginare fino a che punto il nostri agire possa essere significativo (e magari dirompente) per gli altri,  in molti altri casi lo possiamo immaginare benissimo, e sostenere il contrario sarebbe una vera e propria ipocrisia. Se si lancia il sasso contro qualcuno, costui si farà male: questo è praticamente certo. Se si parla male del prossimo, se lo si provoca, se lo si esaspera, se lo si mortifica, se lo si fa soffrire inutilmente, è praticamente certo che gli si provocherà un danno, non importa se fisico o morale.

Essere cauti significa che dovremmo regolarci sempre secondo il criterio della retta intenzione; non è detto che, anche così, non potranno esserci delle conseguenze negative, ma è certo che di esse noi non saremo moralmente responsabili. Colui che ha fabbricato un coltello non è responsabile se un omicidio viene compiuti per mezzo esso, perché l’intenzione di chi l’ha fabbricato non era quella di indurre altri all’omicidio. Analogamente, chi ha fabbricato un’automobile non intendeva favorire una guida spericolata e il verificarsi di incidenti stradali.

Si potrebbe obiettare che, talvolta, declinare le proprie responsabilità dietro lo schermo delle buone intenzioni è troppo facile e troppo comodo e che può nascere da una smaccata forma di ipocrisia; ed è una obiezione ragionevole. Tuttavia, si può rispondere che l’esistenza di motivazioni ipocrite non cancella l’esistenza di motivazioni rette: in altre parole, se alcuni sono propensi a nascondersi dietro il velo dell’ipocrisia per nascondere la mano che la scagliato la pietra, ve ne sono numerosi altri che agiscono con limpide intenzioni; e questo può deciderlo solo il silenzio della coscienza.

Ma che cosa vuol significa che si deve agire sempre con retta intenzione? Significa, semplicemente, che si deve agire senza intenzioni malevole nei confronti del prossimo; e, al tempo stesso, con un ragionevole grado di prudenza, di delicatezza, di correttezza. Se sappiamo di aver a che fare con un interlocutore ansioso, ad esempio, dovremo astenerci dal dire o dal fare cose che possano accrescere inutilmente la sua ansia; e ciò senza esimerci dal metterlo in guardia, qualora ciò sia necessario, da comportamenti o da situazioni che potrebbero realmente metterlo in pericolo. Non si rinuncia a insegnare a un bambino a non mettere il dito nella presa della corrente elettrica, per evitare di mortificarlo o di traumatizzarlo; ma lo si fa nella maniera più opportuna, cioè la più delicata possibile.

Il fatto è che le nostre parole e le nostre azioni producono effetti anche su persone sconosciute, anche su persone cui non pensavamo affatto di rivolgerci, ma che sono testimoni casuali del nostro parlare e del nostro agire - magari a distanza di anni, come può essere nel caso di uno scrittore che abbia affermato una certa cosa in un suo libro; o nel caso di un pittore o di un fotografo che abbiano realizzato una certa immagine; oppure in quello di un regista che abbia girato una determinata scena all’interno di un film.

E allora?

E allora, siamo sempre lì: quello che conta è la retta intenzione; di essa e soltanto di essa noi possiamo ragionevolmente essere considerati responsabili, non solo dagli altri, ma anche davanti alla nostra coscienza; e non di altro.

Sarebbe assurdo colpevolizzare qualcuno per qualcosa che ha fatto con perfetta buona intenzione, ad esempio per seguire un proprio impulso creativo o per affermare una verità di cui è sinceramente convinto; mentre diverso  il discorso quando, per esempio, uno scrittore dice cose cui non crede, soltanto per strizzare l’occhio al pubblico, o un artista realizza opere che non rispondono a una ispirazione autentica, al solo e deliberato scopo di ottenere il massimo risultato in termini di vendite, solleticando le basse sfere emozionali del pubblico.

Certo, anche una cosa detta o fatta in peretta buona fede può avere effetti negativi: ma, in tal caso, la responsabilità sarà di colui che ne ha fato un cattivo uso. Non è responsabilità del contadino che ha fatto il vino, se qualcuno si ubriaca sistematicamente, fino a ridursi alcolizzato: a ciascuno quel che gli spetta, compresa la responsabilità delle proprie azioni e delle proprie scelte.

È pur vero, lo abbiamo già notato, che le nostre parole e le nostre azioni possono produrre effetti benefici anche in maniera non intenzionale; pertanto, il quadro non sarebbe completo se ci limitassimo a porre l’accento, pessimisticamente, sul fatto che le conseguenze dei nostri atti ci sfuggono continuamente di mano, come se fossimo soltanto delle misere marionette, che una forza incomprensibile muove continuamente di qua e di là, senza un volontà propria.

Bisogna guardare l’intero e non solo le parti, e riconoscere che vi sono anche molte cose buone cui noi abbiamo dato un contributo, perfino quando non ne eravamo del tutto coscienti. E questo può essere letto come il frutto di un caso alquanto ironico, ma anche come il risultato di un piano complessivo benevolo, che riesce a  trasformare molte situazioni in occasioni di bene: forse, più di quante non diventino occasioni di male. I pessimisti sono coloro che non valutano con imparzialità entrambi i piatti della bilancia, ma concentrano l’attenzione su uno solo di essi.

La società attuale è una società deresponsabilizzante: i meccanismi impersonali della società di massa non favoriscono la presa di coscienza di sé e del proprio agire, ma, al contrario, tendono ad addormentarla, anestetizzando il senso morale. Così, vediamo continuamente che le persone agiscono in un modo inconsapevole: a cominciare da come si vestono, da come parlano, da come si muovono, da come guardano, da come ridono, esse mandano continuamente dei messaggi sproporzionati rispetto alle loro intenzioni, e questo perché viviamo in un modo dove quello che conta non è l’essere, ma l’apparire.

Pertanto, si assiste ad atteggiamenti e comportamenti inadeguati, incoscienti, irresponsabili; così come è da irresponsabili andare a pesca con la dinamite, perché non esiste alcuna proporzione ragionevole fra il poco pesce che se ne può ricavare, e l’enorme numero di pesci che vengono inutilmente massacrati, altrettanto si può dire, ad esempio, di una persona che, per sentirsi approvata ed ammirata dagli altri, oltrepassi ogni limite del buon gusto e del decoro, assumendo pose oltremodo provocanti, che possono turbare e confondere una quantità di soggetti, magari particolarmente sensibili o vulnerabili (come i bambini).

È certo che esiste, nei nostri atti e nelle nostre parole, un potenziale misterioso, di cui bisogna tener conto, alla luce di ciò che i buoni, vecchi teologi morali chiamavano “la forza dell’esempio”: forza che si esercita, come abbiamo detto, nei due sensi, positivo e negativo; ogni parola e ogni gesto positivo tendono a riprodursi, a moltiplicarsi, a creare un circuito virtuoso, così come ogni parola e ogni gesto negativo esercitano, nel proprio ambito, una dinamica uguale e contraria.

Perciò: prudenza, correttezza, delicatezza: queste dovrebbero essere le linee portanti del nostro modo di porci; ma, per farlo, è necessario che impariamo qualche cosa di noi stessi, ossia che incominciamo a guardarci dentro, con occhio limpido e trasparente.

Se non si sa chi si è, è logico che si facciano dei danni anche agli altri: si è come delle mine vaganti. Ecco perché diventare coscienti di sé non è un di più, non è una opzione riservata ai saggi e ai contemplativi, ma un preciso dovere che si pone a ciascuno.

Se non vogliamo essere delle mine vaganti, dobbiamo imparare a conoscerci. Solo questo farà di noi dei soggetti, cioè delle persone, nel vero significato della parola.