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C’è un modo infallibile per valutare una persona

di Francesco Lamendola - 13/05/2012

 

 

C’è un modo pressoché infallibile per capire chi si ha di fronte, per valutare una persona e farsi un’idea di quale stoffa sia fatta: concederle un pezzettino di potere, anche minimo; oppure osservarla quando le circostanze le offrono la possibilità di esercitare una qualche forma di potere, sia pur minimo, sugli altri.

La persona di valore non cambierà affatto il suo tratto nei confronti del prossimo; se era una persona semplice, rimarrà semplice; se era discreta, rimarrà discreta; se era modesta, rimarrà modesta; se, invece, non possedeva alcuna di queste qualità, ma semmai il difetto opposto, allora tenderà ad accentuare tali difetti: se era superba, lo sarà ancora più di prima; se era invadente, se era vanitosa, allora raddoppierà l’invadenza e la vanità.

Vi sono posizioni di potere, anche modeste, che hanno uno statuto istituzionale: il sindaco di una città, anche di modeste dimensioni; il comandante di una nave; il preside di una scuola; il primario di un reparto ospedaliero; il capostazione; il direttore di un ufficio;  il caporeparto di una fabbrica; esse conferiscono una autorità riconosciuta anche in sede giuridica.

Altre posizioni di potere non sono ufficialmente riconosciute come tali e nondimeno lo sono, a tutti gli effetti: il potere del denaro, il potere della bellezza, il potere della maggiore età ed esperienza (nei confronti dei bambini) ed anche il potere della cultura, il potere della forza fisica (specialmente in ambienti particolari, ad esempio una prigione o un riformatorio), il potere dell’abilità tecnica o di quella sportiva, rispetto a chi ne è sprovvisto.

Infine, cosa non meno importante, vi è il rapporto di potere che si instaura a livello affettivo: nella coppi; tra genitori e figli (e non solo da parte dei primi sui secondi); tra due amici o in un gruppo di amici; tra parenti di secondo o terzo grado; tra persone sane e persone malate, sia in un quadro istituzionale di tipo sanitario, sia all’interno delle famiglie (e anche qui, non sempre con vantaggio delle prime: si pensi a un figlio drogato che maltratta e terrorizza i genitori anziani, per farsi consegnare del denaro).

Le forme più sottili di potere non sono sempre le più evidenti, ma possono essere le più imperiose: il potere del ricatto affettivo, ad esempio, specie se inconsapevole o solo parzialmente consapevole, può essere enorme, devastante, specie se si esercita in una situazione atta ad amplificarlo, vuoi per delle circostanze esterne particolarmente difficili, vuoi per la particolare sensibilità o dipendenza del soggetto che lo subisce.

Come può difendersi dal ricatto affettivo un bambino sensibile, che apparentemente è quanto mai fortunato, perché riceve una immensa quantità di amore da sua madre, mentre invece egli subisce una costante, implacabile pressione, al fine di piegarlo e ridurlo a docile strumento della volontà di lei, rendendolo incapace di decisioni autonome e di una propria vita affettiva? Talvolta i danni di simili situazioni si manifestano a distanza di anni, ma possono condizionare l’intera vita di una persona, impedendole per sempre di conquistare la padronanza di se stessa.

La persona che tende ad abusare del potere che possiede si qualifica da sé: il suo piacere consiste nell’esercitare una qualche forma di dominio e ciò significa che essa, dietro la maschera del potere, non è che un’anima insicura, fragile, poco fiduciosa in se stessa e poco propensa a ritenere che gli altri la possano apprezzare per quello che è, indipendentemente dal suo ruolo. Forse si vuole anche poco bene, perché, se così non fosse, riuscirebbe a convivere serenamente con stessa, accettando i propri limiti e le proprie insufficienze. Invece ha un bisogno compulsivo di imporsi, di sovrastare, di dirigere e controllare gli altri; vuole essere in posizione tale da poterli giudicare, senza essere giudicata a sua volta; non riesce neanche a concepire di poter essere lei giudicata, perché ciò significherebbe anche poter essere rifiutata e, dunque, avere la prova provata della propria inadeguatezza e della propria insufficienza.

Attenzione: non sempre chi ama il potere, vuole anche esibirlo; non sempre è così stupido o così ingenuo da volerne fare sfoggio, da vantarsene in mezzo agli altri, sì da attirarsi le gelosie e le invidie di chi è rimasto indietro.

Vi sono delle persone che preferiscono stringere in pugno la sostanza del potere, lasciando ad altri le apparenze; si tengono defilate, quasi nascoste; non emergono se non quando è strettamente necessario e poi rientrano volentieri dietro le quinte; però non mollano mai la presa, non abbassano mai la guardia, non si concedono la benché minima distrazione, consapevoli che il potere logora chi non ce l’ha.

Non ha importanza se si tratta di un potere grande o piccolo: può essere la guida di un vasto impero, così come di una famiglia anonima; di un immenso complesso industriale o finanziario, così come di una piccola azienda o di un piccolo negozio: che differenza fa? Quel che conta è il potere, non la sua quantità oggettivamente misurabile: per una formica, salire su un monticello di terra è come, per un essere umano, scalare un’alta montagna.

Siccome il grande potere è sotto gli occhi di tutti, di solito si immagina che le lotte per conquistarlo, occulte o palesi, siano più accanite o, comunque, più interessanti di quelle che hanno luogo per conquistare una posizione di potere piccola o piccolissima; ma è un errore. Come osservava Marco Aurelio, l’imperatore stoico, un ragno si fa bello perché ha preso una mosca, un legionario romano perché ha catturato un sarmata: ma ciò che muove entrambi è lo stesso meccanismo.

E non basta.

Vi sono anche delle persone che si attaccano alle falde di un uomo importante non solo in vita, ma pure dopo la morte di quello: ne pronunciano l’orazione funebre, ne curano la pubblicazione delle opere, creano fondazioni per perpetuarne la memoria; in breve, costruiscono la loro carriera sulle spalle del morto, vivendo di vita riflessa, riuscendo comunque a guadagnare una certa visibilità, un certo spazio. Non è detto che lo facciano con spirito interessato, possono anche farlo con il massimo del disinteresse: sta di fatto che loro, senza il culto che essi stessi contribuiscono a creare, non sarebbero assolutamente nulla; mentre così, bene o male, diventano qualcuno: l’intermediario autorizzato fra il defunto e il resto del genere umano.

Non denigriamoli: costoro rappresentano una specie assai utile e, forse, perfino necessaria. Che ne sarebbe della memoria storica, senza di essi? Quante cose non andrebbero perdute, dimenticate, annientate? Loro, metodici e pazienti, fedeli e adoranti, tenaci e indefessi, conservano tutto, raccolgono tutto, valorizzano tutto: magari uno scarabocchio del famoso pittore, magari un appunto insignificante dell’illustre filosofo. Spesso sono le mogli o le sorelle; quasi mai le amanti, cui la società non riconoscerebbe un ruolo pubblico, tanto meno il ruolo di custodire la memoria del venerato maestro.

Difficile dire quanta sincerità e quanto calcolo vi siano in queste vestali della memoria, in queste sacerdotesse del ricordo, in queste devote e inconsolabili leonesse accovacciate sulla tomba del caro estinto, pronte a mordere chiunque vi si avvicini in atteggiamento meno che umile, a gridare alla profanazione e alla blasfemia. Rispetto a tale sacra missione, è cosa secondaria se, in vita, fecero del loro meglio per rendere amara e infelice la vita del grand’uomo: che cosa furono quei pochi anni di esistenza terrena, di fronte alla gloria di un ricordo immortale?

A maggior ragione tali sacerdotesse meritano la nostra inestinguibile riconoscenza, se esse furono le uniche, o quasi le uniche, a credere nella genialità del loro congiunto; se furono le sole, o quasi le sole, a scommettere su di lui, quando sembrava che nessun altro al mondo si fosse accorto della sua esistenza. In tal caso, esse possono vantare anche il merito di aver visto giusto, di aver visto lontano: più lontano degli intellettuali di professione, con il loro intuito affettuoso e con la loro inesauribile dedizione.

Non sempre, comunque, le sacre vestali sono donne; possono essere anche uomini. Se la fama di Nietzsche è stata tramandata e custodita da sua sorella, Elisabeth (e quante ne hanno dette su di lei, povera donna che amava suo fratello come sapeva e come poteva, e che se ne prese cura per dieci anni, allorché lui ebbe smarrito la ragione), quella di Schopenhauer riposa in gran parte sui meriti di un suo devotissimo e indefesso “apostolo”, Arthur Hübscher.

Quest’ultimo, dopo la sua morte, ha ottenuto perfino il privilegio eccezionale di essere inumato nella stessa tomba del suo adorato maestro. Altro che la fedeltà del cane Argo, che attese per vent’anni il ritorno del suo padrone Ulisse, e poi gli stramazzò morto ai piedi: morto di felicità e di vecchiaia; questa sì che è fedeltà canina.

Il fatto è riferito da Anacleto Verrecchia nella sua prefazione ai «Colloqui» di Arthur Schopenhauer (Milano, Rizzoli, 1995, pp. 55-56):

 

«Schopenhauer soleva chiamare “evangelisti” i suoi primi seguaci. Bene, un evangelista in tal senso è stato anche Arthur Hübscher, morto quasi novantenne il 10 aprile del 1985. Anzi potremmo addirittura definirlo una specie di san Paolo della filosofia di Schopenhauer, alla quale ha dedicato la sua lunghissima vita. I fatti lo dimostrano: ha diretto fino all’ultimo lo “Schopenhauer Jahrbuch” fonte inesauribile di notizie sul grande filosofo, ha curato l’edizione critica di tutti gli scritti, compreso l’epistolario, e ha dato prestigio internazionale alla “Schopenhauer Gesellschaft”, di cui è stato per moltissimi anni presidente. e non parliamo dei tanti congressi da lui organizzati. Insomma Hübscher, con la penna, con la parola e con l’azione, ha contribuito più di qualsiasi altro a diffondere il verbo del “Buddha occidentale”.

Non deve meravigliare, dunque, che alla fine gli dessero una medaglia con la sua immagine da un lato e quella di Schopenhauer dall’altro. Se mai si potrebbe discutere su quale fosse il recto e quale il verso di quella medaglia, ma sono questioni di lana caprina che lasciamo volentieri ai pedanti. Più complicato è il seguito.

Può capitare a tutti che, a furia di studiare un autore,  si finisca per identificarsi in un modo o nell’altro con lui. Nel caso di Hübscher, però, l’identificazione con Schopenhauer si è spinta fin nell’aldilà. Da dieci anni, infatti, il cimitero di Francoforte sul Meno riserva una grande sorpresa al visitatore: Arthur Hübscher è sepolto nella stessa tomba di Arthur Schopenhauer! E non basta, perché su un lato della pietra tombale viene ricordato anche il figlio di Hübscher: si chiamava Christian e morì prematuramente, povero giovane, lontano da casa.

L vedova di Arthur Hübscher, alla quale voglio molto bene, mi ha detto che il comune di Francoforte, concedendo il permesso per quella insolita sepoltura binario, ha voluto dare un segno di riconoscimento per suo marito. E questo è indubbiamente vero. Nessuno potrebbe negare i grandi meriti di Arthur Hübscher come studioso e apostolo di Arthur Schopenhauer. Era anche molto umano e signorile, sempre disposto ad aiutare quelli che si rivolgevano a lui per una ricerca o per un consigli. Io che gli fui amico, ne so qualche cosa.

Tuttavia mi chiedo: se l’esempio di Francoforte diventasse una regola, se in altre parole l’occuparsi di un autore comportasse automaticamente  anche il diritto di riposargli accanto per l’eternità, che ne sarebbe delle tombe e dei cimiteri dove son sepolti personaggi famosi? Non c’è dubbio: verrebbero letteralmente sconvolti.»

 

In conclusione, si può dire che le persone di valore, di norma, non cercano il potere; se lo cercano, è solo per metterlo al servizio degli altri; ma, finché possono, se ne tengono alla larga.

Questo crea una situazione paradossale: perché gli uomini e le donne peggiori, al contrario, non solo non cercano in alcun modo di evitare il potere, grande o piccolo che sia, ma fanno tutto quanto sta in loro per accaparrarselo, con le buone o con le cattive: evidentemente, si ritengono degni di esercitarlo e pensano che nessuno lo potrebbe fare meglio di loro.

Ne consegue che, quanto al potere, è continuamente in atto una selezione alla rovescia: chi non ne sarebbe degno, perché meschino e interessato, fa di tutto per impadronirsene; mentre chi lo sarebbe, se ne tiene lontano. Una ulteriore difficoltà è dovuta al fatto che l’esercizio del potere richiede una certa attitudine al comando, cosa in sé non cattiva: ma che si trova più spesso negli individui peggiori che nei migliori.

Come se ne esce? Non esiste una vera e propria soluzione, si tratta di una delle tante aporie della vita sociale. L’ideale sarebbe che i migliori uscissero, almeno un poco, dalla loro riservatezza e che esercitassero almeno un po’ di potere: se non altro, per impedire che lo facciano sempre i peggiori.