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Natura, uomo, donna

di Alan W. Watts - 13/05/2012

Fonte: fiorigialli





Quando osservo la mia biblioteca, mi inquieta spesso, e stranamente, il modo in cui tutti i libri si inseriscono con tanta facilità in qualche categoria. Per la maggior parte trattano di filosofia, psicologia e religione, e rappresentano punti di vista diversi, provenienti da ogni grande cultura del mondo.
Eppure, con monotonia assoluta e opprimente, ognuno di quei libri si esaurisce nel trito dualismo di tutte le discussioni filosofiche e teologiche, variato di tanto in tanto da compromessi tanto scontati quanto scostanti. Ogni volume è facilmente riconducibile all’idealismo o al naturalismo, al vitalismo o al meccanicismo, alla metafisica o al positivismo, allo spiritualismo o al materialismo e i testi "di compromesso" di solito sono tanto insipidi quanto possono esserlo raccolte compilatorie di luoghi comuni e sentimentalismo.

Sottesa a tutti questi dualismi sembra esserci una fondamentale divergenza di opinioni riguardo ai due grandi poli del pensiero umano: lo spirito e la natura. Alcuni autori si limitano a prendere posizione "a favore" o "contro" l’uno o l’altra. Altri cercano di riconciliare i due principi, ma poi il loro pensiero non riesce a sottrarsi ai soliti schemi e inavvertitamente finiscono per parteggiare per uno dei due.
Certo, è azzardato per un filosofo affermare di essersi allontanato decisamente da questi schemi e, allo stesso tempo, aver detto qualcosa di sensato. Per questo la discussione si esaurisce per lo più in equilibrismi tra le categorie, e tentare di dissolverle significa, in linea di massima, dissolvere la discussione.

Ma non si tratta soltanto di categorie, di logica e dispute filosofiche. L’opposizione tra spirito e natura è anche questione di vita e di sentimento. Sin da quando ho iniziato a occuparmi di questi argomenti, mi sono sempre chiesto come mai i sostenitori della vita dello spirito sembrino sentirsi a disagio all’interno della natura e del loro stesso corpo tanto che, anche quando non identificano la natura con il male, finiscono sempre per liquidarla con qualche elogio di maniera, puramente formale. Per cui, spesso, mi sono trovato a simpatizzare con i pagani e con la loro fiera, corposa ribellione contro questo spiritualismo estenuato, sebbene poi non mi sia mai schierato definitivamente dalla loro parte, dato che la loro filosofia del "cogli la rosa finché sei in tempo" si conclude sempre nella disperazione oppure in un vacuo utopismo che, inevitabilmente prima o poi, giunge allo stesso risultato.

Ma sono davvero inconciliabili le gioie del corpo e le delizie dello spirito disincarnato? Sono sempre più convinto che i partigiani delle due opposte filosofie condividano le stesse premesse, e che queste siano spesso inconsce.
Inoltre, queste premesse ci vengono tramandate dalle istituzioni sociali, come le strutture linguistiche e l’apprendimento dei ruoli che ci influenzano secondo modalità di cui non siamo affatto consapevoli. Così le immagini convenzionali del santo e del peccatore, dell’asceta e del lussurioso, del metafisico e del materialista possono avere davvero molto in comune e la loro opposizione è solo apparente. Come l’alternarsi di caldo e di freddo sono i sintomi della stessa febbre.

Questo genere di premesse inconsce si rende finalmente visibile quando cerchiamo di comprendere culture molto distanti dalla nostra. Anch’esse hanno postulati nascosti, ma dal confronto con queste culture le differenze fondamentali alla fine balzano all’occhio con tutta evidenza. E ciò accade particolarmente con le culture dell’Estremo Oriente, poiché si tratta di civiltà avanzatissime che si sono sviluppate in totale indipendenza dall’Occidente, elaborando schemi di pensiero e di linguaggio sorprendentemente diversi da quelli di matrice indoeuropea.

Per questo l’importanza dello studio del pensiero e della lingua cinesi non si esaurisce nella possibilità che ci dà di comunicare con i cinesi – sebbene anche ciò sia piuttosto rilevante. In realtà, studiare la Cina ci offre la possibilità di comprendere meglio noi stessi, proprio perché, fra tutte le grandi culture del mondo, quella cinese è la più diversa dalla nostra e dal nostro modo di pensare.

La constatazione che la filosofia cinese non può venire instradata sui binari del pensiero occidentale né di quello indiano per me è sempre stata fonte inesauribile di gioia. E questa irriducibilità è percepibile in particolar modo trattando del rapporto tra spirito e natura, poiché nel pensiero cinese non ci sono categorie corrispondenti a questi due concetti così come noi li interpretiamo. Nella cultura cinese il conflitto tra spirito e natura non è neppure concepibile, poiché in questa cultura la pittura e la poesia più "naturalistiche" sono allo stesso tempo le forme d’arte più "spirituali".

Questo libro non è, tuttavia, un’esposizione formale della filosofia cinese della natura. Di ciò ho già ampiamente discusso in un mio libro precedente, "The Way of Zen", e l’argomento è stato stupendamente trattato anche da Joseph Needham nel suo "Science and Civilization in China".
In questa sede il mio obiettivo non è quello di esporre e paragonare sistemi filosofici diversi, bensì di riflettere su un grande problema umano alla luce della visione cinese della natura, e in particolare alla luce dell’esposizione che ne hanno fatto Lao-tzu e Chuang-tzu. La rilevanza del problema del rapporto tra uomo e natura e l’intento generale di questo libro ritengo siano esposti e discussi con sufficiente ampiezza nell’Introduzione che segue, dove spiego inoltre perché il problema del rapporto uomo-natura implica anche quello del rapporto uomo-donna – una questione, quest’ultima, davanti alla quale gli spiritualisti della nostra cultura hanno sempre storto il naso.

Questo è un libro in cui programmaticamente "penso ad alta voce", e a questo proposito vorrei ripetere alcune riflessioni che già formulavo nella prefazione alla mia "Supreme Identity" : "Non sono di quelli che ritengono virtù irrinunciabile per il filosofo il fatto che passi la vita a difendere una posizione coerente.
È sicuramente frutto di una sorta di presunzione intellettuale l’impedirsi di ‘pensare ad alta voce’, e il non volere assolutamente permettere che una certa tesi appaia in stampa prima di sentirsi disposti a difenderla fino alla morte.
La filosofia, come la scienza, è una funzione sociale, per cui un uomo non può pensare bene da solo, e il filosofo deve rendere pubblico il suo pensiero sia per imparare dalla critica cui verrà sottoposto, sia per arricchire l’insieme generale delle conoscenze. Se dunque, di tanto in tanto, mi capiterà di fare qualche affermazione in tono apodittico e dogmatico, è solo per desiderio di chiarezza, e non per la tentazione di ergermi a oracolo".

È diffusa in Occidente la credenza che gli studi intellettuali e filosofici siano meri ornamenti, del tutto inessenziali, della civiltà, e che comunque abbiano un valore di gran lunga inferiore ai risultati pratici o tecnologici.
Questo atteggiamento rischia fortemente di venir confuso con l’affermazione, tipica del pensiero orientale, secondo cui la vera conoscenza non è esprimibile a parole e si trova ben oltre la portata dei concetti.
In realtà le nostre azioni sono inesorabilmente guidate da una filosofia dei fini e dei valori, e se questa filosofia rimane a livello inconscio si espone al rischio di diventare una cattiva filosofia, con effetti pratici disastrosi.
Il cosiddetto "antintellettualismo" orientale è ben al di sopra sia del pensiero sia del mero attivismo. Una conoscenza del genere non può venir raggiunta facendo scomparire dalla propria coscienza i concetti, nell’illusione di sacrificare così il proprio intelletto. Ogni premessa distorta potrà venir abbandonata soltanto da chi giungerà alle radici del proprio pensiero e ne vedrà la reale struttura.