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L’allucinazione della Modernità

di Alessandro Pertosa - 01/05/2013


 

 

La crisi che ha colpito l’economia globalizzata sembra aver raggiunto davvero l’Armageddon, in cui il declino del capitalismo annuncia al contempo la sua fine e la gloria onnipervasiva della tecnica, ormai sulla soglia della soluzione finale. La modernità che abitiamo scarta verso destini incontrollati, rincorrendo l’illusione di infinitizzarsi in quello che, però, è l’incubo di una società della crescita senza fine, né fini. E il rischio attuale è proprio quello di ignorare – perché non si è neppure in grado di cogliere – il pericolo di una società s-finita, che persegue fini distruttivi e sforma l’essere-terra in un essere inabitabile e depauperato. Lo spettacolo è desolante, tutto fila via verso la distruzione, e la dittatura della tecnica non sembra ancora avere rivali attrezzati. L’ubriacatura del progresso continuo e illimitato rende i singoli individui dei compratori illusi, voraci e infelici, dei clienti fidati, come oggetti manipolabili, e acquirenti affetti da manie ossessivo-compulsive. Eppure dovremmo capire – non è così complicato – che la finitezza di questo mondo pone a ciascuno di noi dei limiti precisi alla prometeica volontà di trasformare la realtà secondo i propri interessi economici. Tuttavia è un fatto che avvenga il contrario: sarebbe opportuno indagare in profondità il perché.

Il fenomeno tecnico è ormai totalizzante, globale; da alcuni decenni, l’uomo, come la macchina, viene ridotto a mero oggetto tecnico, a ingranaggio-robot: condizione questa che non lo rende solo subordinato alla tecnica, ma in un certo senso lo sfinisce, lo marginalizza progressivamente verso l’ambito crudo dello strumento.

Certo, non possiamo negarlo, nel corso degli ultimi decenni la tecnica ha risolto all’uomo un gran numero di problemi materiali, ma ha tuttavia al contempo nascosto gli effetti collaterali che il processo evolutivo portava con sé. Il lavoro, da sempre considerato un mezzo, nell’orizzonte folle della crescita esponenziale si eleva al rango di fine: per l’uomo moderno, esso – il lavoro – non è più l’esercizio con cui si realizza qualcosa, un bene, ma rappresenta il mezzo di scambio fra la merce-uomo e gli oggetti acquistabili (mezzi, anch’essi, dello sviluppo capitalista, perché il loro acquisto continuo determina la domanda costante e quindi stimola la produzione del bene stesso). Si lavora per vivere da acquirenti, o meglio si vive con l’obiettivo principale – se non unico – di comprare: e si lavora anche per comprare quei prodotti che ormai non siamo più in grado di autoprodurci da soli, perché abbiamo disimparato ad occuparci dei nostri interessi immediati. All’interno di questo circolo vizioso, l’idea del lavoro buono, inteso come il risultato di un’azione produttiva, viene sostituita dal concetto indiscutibile e tendenzioso della remunerazione del proprio tempo: da qui l’emersione del totem «il tempo è denaro».

Nonostante i tentativi continui dell’intellighenzia finanziaria e capitalista, la fede nella crescita esponenziale del profitto si mostra sempre più nuda nella sua insana follia di tendere all’infinito in un mondo dalle risorse limitate. E forse, si dirà, è troppo tardi per rimediare, o se non lo è – se siamo ancora in grado di scorgere un barlume di umanità fra noi – il compito di ripensare l’umano a partire dal limite si presenta complicato, per non dire disperato. Certo, può darsi che la cicatrice permanga, ma non si può lasciare nulla di intentato: dallo studio dei sintomi si giungerà a curare la malattia ch’è ormai quasi cronica.

Il sintomo è chiaro: l’homo capitalisticus-tecnicus, vittima di un diabolico meccanismo allucinatorio, non sembra in grado di ammainare la bandiera ideologica del progresso inesauribile. Dal suo cantuccio moderno, egli pensa di ovviare alla crisi economica intervenendo sul rapporto fra i costi e i ricavi, non cogliendo invece l’inesorabilità del declino cui la società capitalista è ormai destinata. L’aumento esponenziale dell’entropia, il mito della scienza e il totalitarismo della tecnica emergono con violenza dalle nebbie esistenziali contemporanee, e si incrostano nel fondo della coscienza obnubilata dagli egoismi e dai vizi. E proprio alla denuncia dei vizi oscuri della modernità contribuisce non poco il poderoso e penetrante studio, L’allucinazione della Modernità, scritto da Pier Paolo Dal Monte, medico e filosofo di sorprendente erudizione.

Il volume, costituito nel suo complesso da quattro sezioni, disvela l’allucinazione con cui la modernità, plasmata dal mito del progresso illimitato, sta distruggendo il mondo. La prima parte del saggio consiste in una disamina critica dell’ideologia che sottostà al modello di sviluppo capitalista. L’autore, con sensibilità e perspicacia, mette in evidenza l’insostenibilità energetica e ambientale di una crescita senza limiti con particolare riferimento alla produzione di cibo e al consumo esasperato di idrocarburi, che determinano a caduta l’incremento nel consumo di petrolio, nonché l’aumento diretto del riscaldamento globale del pianeta.

Nella seconda sezione del lavoro, l’Autore racconta con puntualità e con raffinata lucidità, l’evoluzione storico-filosofica della genesi del pensiero moderno, fino a dare conto della struttura teoretica su cui poggiano i dogmi della crescita infinita e del dominio del mondo. Fra le righe emerge anche un’interessante analisi storica della civiltà industriale, accompagnata dalla segnalazione di alcune follie proprie dell’homo capitalisticus-tecnicus. Ha pienamente ragione Dal Monte quanto denuncia la bruttezza estetica dell’industrializzazione. «L’industriale – scrive, riportando un passo Elemire Zolla – è stato il primo uomo nella storia a preferire il brutto al bello. Dove ha steso la sua mano ha distrutto l’arte» (II, V, p. 168). Così come condividiamo la descrizione delle schizofrenie prospettiche del capitalismo contemporaneo, allorché «si arriva al paradosso che un appartamento situato in un orrendo palazzo, circondato da edifici parimenti sgraziati, in una zona di grande traffico, afflitta da un frastuono incessante, possa avere un valore di scambio (ovvero un prezzo) assai più elevato, rispetto a quello di una bella dimora situata in un’amena e silenziosa campagna, con un vasto terreno attorno e uno splendido panorama (in poche parole una vera casa). Questo è dovuto all’ipnosi di massa che guida la mano invisibile del mercato» (II, V, p. 162).

La radicale messa in discussione della mitologia moderna è presente un po’ ovunque fra le pieghe della riflessione di Pier Paolo Dal Monte, ma prende corpo in particolare nella terza sezione del volume. L’autore mette molto bene in evidenza il principio indiscutibile dell’ideologia tecnologica, che pone le sue radici sulla crescita assunta come un bene in sé. Eppure in natura la crescita esponenziale, simile a quella auspicata dai paladini della contemporaneità, si manifesta soltanto nelle patologie più gravi, e in genere causa la morte del soggetto che ne è affetto. In economia, invece, la crescita infinita del profitto – così come l’aumento infinito della tecnica – pare non destare sospetti ad alcuno. Né tanto meno preoccupazioni relative al carico di inquinamento e di rifiuti che un meccanismo del genere produce. Dal Monte denuncia qui l’inversione tra capitalismo e tecnica, ma lo fa discostandosi – pur senza esplicitarlo – dalla riflessione di Emanuele Severino, che vede nella onnipervasione della tecnica l’approdo necessario di un capitalismo in declino. Con buone ragioni, al contrario, L’Allucinazione della modernità propone una possibile uscita dalla follia mercantile moderna attraverso il completo ripensamento delle relazioni umane, non più viziate da illusioni prospettiche o da egoismi, ma pienamente consapevoli del ruolo comunitario che esprimono.

Nella quarta e ultima parte si discute dell’alienazione umana nella società dei consumi, nonché l’evoluzione del capitalismo fino alle ultime fasi di grave crisi del modello economico classico. L’ultimo capitolo di questa sezione è dedicato al tema della decrescita, intesa come l’unica via di uscita dalla barbarie. L’Autore suggerisce delle nuove linee guida comunitarie da cui partire per provare a immaginare un mondo diverso da quello attuale.

Il saggio testé presentato ha molti pregi, non ultimo un cospicuo apparato bibliografico usato da Pier Paolo Dal Monte con profonda erudizione e competenza. La ricognizione storico-filosofica e sociologica è davvero molto ben documentata: difficilmente si poteva fare di meglio. Quello che manca, ma non era questo l’obiettivo del progetto e quindi è un’assenza scusabile e non imputabile all’autore, è una adeguata riflessione sul fondamento filosofico della decrescita. Tuttavia, la riflessione di Dal Monte è un ottimo punto di partenza per discussioni future, che – c’è da augurarselo – sorgeranno proprio a partire dalla lettura di questo preziosissimo saggio.

Dove si arriverà, è troppo presto per dirlo. Di sicuro dovremo impegnarci con ancora maggior vigore nel fondare filosoficamente un discorso alternativo al pensiero dominante entro cui vivacchia il capitalismo classico. È forse utopico pensare di strutturare le relazioni umane secondo principi fraterni, comunitari e non mercantili? Non credo. Il percorso è di certo lungo e irto di ostacoli. Forse sarà difficile cogliere appieno il senso della condivisione comunitaria verso cui ognuno di noi dovrà tendere, sarà complicato ragionare secondo logiche relazionali basate sul dono e non sul possesso, ma è una strada che dovremo necessariamente percorrere se non vogliamo morire in un mondo governato dall’homo tecnicus sine anima.

Ci attende una vera maturazione, o forse un semplice ritorno al principio. Sicché solo quando avremo davvero capito che la vita d’ognuno di noi altro non è che uno sguardo difettoso sul mondo, che non consente a nessuno di avanzare pretese di diritti acquisiti o di proprietà, potremmo sperare di riprendere il cammino abbandonato secoli fa, quando mettemmo in marcia la rivoluzione illuminista del progresso. Fu un abbaglio, un errore imperdonabile. Vinti dalle sirene della civilizzazione ci illudemmo che la Ragione avesse ragione, e non capimmo invece che La Ragione aveva Torto.