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La terra selvatica e l'anarca

di Luisa Bonesio - 06/09/2013

Fonte: nemetonmagazine

donnalbero


1. Il simbolo del bosco

In un momento particolarmente difficile per la Germania, qualche anno dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, Jünger scrive un testo destinato a quei singoli “differenziati” che sono in grado di riconoscere la natura illusoria e ingannevole dei regimi democratici moderni e del loro mito del progresso tecnologico. Il titolo Der Waldgang, come anche il suo contenuto, sono fortemente allusivi, e per certi versi volutamente s-vianti: non a caso si tratta di indicare le vie alternative a quelle della massa, costretta nelle rappresentazioni di regime. Libro della macchia, in cui si ritira il proscritto, o della solitudine in cui il singolo riscopre le sue radici profonde, e soprattutto, ben al di là della specifica contingenza storica in cui fu scritto, manuale di sopravvivenza. Ma occorre capire di quale bosco e di quale Wildnis si tratti, per non rischiare di scambiarlo con la foresta di Robin Hood, o peggio, con l’idea di una natura in cui magicamente l’uomo tecnologico ritroverebbe la sua selvaticità[1].

Detto molto in breve, l’idea del bosco è quella di una dimensione spirituale altra rispetto al nichilismo moderno, il cui emblema, da Nietzsche in poi, è il deserto. Bosco e deserto, in quanto alludono al “paesaggio” della modernità non sono da identificarsi tout court con un referente empirico, ma vanno intesi nella loro profonda portata simbolica. Lo stesso Jünger afferma che il termine “bosco” non ha molta importanza, anche se “naturalmente, non è un caso che non appena il nostro sguardo si posa affascinato e commosso su fiori e alberi, subito cominciamo a liberarci da tutto quanto ci tiene avvinti alle cure del tempo”[2]. La precisazione seguente illumina il senso in cui si deve intendere il “bosco”: “Cerchiamo la stessa cosa anche in altri luoghi – nelle grotte, nei labirinti, nei deserti dove ha dimora il Tentatore. Per chi sa riconoscere i simboli, ogni luogo racchiude una vita immensa[3]. Per l’appunto, il bosco, al pari della montagna, vanno compresi innanzitutto nella loro essenza simbolica[4]. Che siano simboli non vuol dire che in essi vada trascurata l’incarnazione empirica, ma che solo la potenza simbolica consente di “vedere”, nella loro specificità, reali caratteri del paesaggio geografico[5] con cui interagisce l’attività umana. Il “bosco”, la “selva”, sono immagini di qualcosa di primordiale, di relativamente intatto dalla civiltà, di luoghi discosti dalle città; ma loro aura di lontananza è dovuta anche all’idea di una temporalità arcaica, come se la Wildnis fosse l’estrema riserva di un tempo antichissimo e forse non del tutto trascorso, annidato come un incubo – o un sogno edenico – nel tempo calcolabile e scandito del presente. Ma, scrive Jünger, “soltanto in apparenza tutto ciò è disperso in tempi lontani e in luoghi remoti. In realtà ogni uomo lo alberga in sé, a ciascuno è trasmesso in forma cifrata per permettergli di comprendere se stesso nella sua forma più profonda, sovraindividuale”[6]. Un’affermazione analoga e altrettanto perspicua la troviamo in Eliade, con il quale nel dopoguerra Jünger diresse la rivista “Antaios”: “I simboli mantengono ancora il contatto con le fonti più profonde della vita [...]. Il simbolo religioso traduce una situazione umana in termini cosmologici e reciprocamente; più precisamente, esso rivela la corripondenza tra le strutture dell’esistenza umana e le strutture cosmiche. L’uomo non si sente ‘isolato’ nel Cosmo; egli è ‘aperto’ a un mondo che, grazie al simbolo, gli diviene ‘familiare’. [...] Ne consegue che colui che comprende un simbolo, non solamente si ‘apre’ al mondo soggettivo, ma allo stesso tempo riesce ad uscire dalla propria situazione particolare e ad accedere a una comprensione dell’universale[7].

Se la Wildnis è prima di tutto un simbolo, si potranno comprendere le affermazioni di Jünger a proposito dei pericoli che vi si incontrano e delle ricchezze che vi si possono scoprire. La Unheimlichkeit del bosco consiste nell’essere luogo in cui si incontra l’elementare, come peraltro accade anche nel mondo mobilitato dalla tecnica. Ma a differenza della tecnica, che non è altro che “un effimero bagliore dei tesori dell’essere”, passando al bosco è possibile scoprire che sotto l’apparenza dell’effimero “sgorgano le fonti dell’abbondanza, del potere cosmico”[8]. Per accedere a queste fonti, dunque, non serve il pensiero scientifico, e nemmeno la fantasia, bensì un sapere simbolico che possa, in quanto tale, dischiudere l’essenza intemporale del cosmo. Sapere dunque non “arcaico” o “primitivo”, ma primordiale o intemporale, cui allude l’apparente staticità o sospensione del tempo della selva, dove “non succede niente”, e dove, quindi, l’uomo “dorme”, trovandosi nel porto, nel paese natìo, nella pace e nella sicurezza “che ciascuno porta dentro di sé”[9]. Il “sonno” di colui che è nel bosco è il distacco consapevole dalla fallacia del movimento distruttivo da cui è animato il regno della tecnica, ed è il mantenersi in contatto “con quei poteri, che superiori alle forze temporali, non si esauriscono mai in puro movimento”[10].

2. I poteri del bosco

Sarebbe tuttavia anche errato ritenere che qui Jünger si limiti a un discorso edificante o consolatorio, che si risolverebbe in un’apologia dell’interiorità individuale[11]. L’individuo, con tutto il suo corredo di anima bella, interiorità borghese e simili, se non è morto per sempre con la Prima Guerra mondiale e l’avvento del regno del Lavoratore, sicuramente appartiene a quelle forme residuali del passato che bisogna lasciarsi definitivamente e consapevolmente alle spalle. Il singolo che passa al bosco, abbandona il mondo delle rappresentazioni e dei valori del nichilismo, il suo vuoto conformismo, la sua colpevole stupidità, la sua smania di chiacchiere e di immagini deboli, di rassicurazione cinica. Ma l’esposizione diretta a forze elementari e spirituali sarebbe distruttiva se non se ne riconoscesse l’intima natura; e soprattutto, passare al bosco significa essere confrontati con una difficile ricerca: “Se uno ha toccato l’essere anche una volta soltanto, ha varcato il margine lungo il quale hanno ancora peso le parole, le nozioni, le scuole, le confessioni. Ma in compenso ha imparato a venerare ciò da cui esse traggono vita”[12].

Chi scopre il bosco, lo fa scendendo in se stesso, più che avviandosi verso una zona alberata, o perché, in qualche modo, sente che comincia a mancargli qualcosa nel “deserto” e quindi si mette a cercare. Quello che scopre è “l’enorme potere dell’essere”, la scaturigine spirituale della vita e la natura del cosmo, cui accede essenzialmente grazie a una contemplazione del centro immobile dell’essere e a una conoscenza spirituale della morte. In altri termini, l’uomo che “incontra se stesso” scopre la sua identità con il tutto, il “questo sei tu” degli orientali, in cui è annullata ogni coscienza separata, l’io è trasceso in una dimensione ultraindividuale, restituito alla “propria essenza immodificabile, sovratemporale”[13].

Così chiarito, il “bosco” è il nome dell’essere in contrapposizione alla fallacia dell’apparenza e del movimento; è la stabilità, la permanenza di fronte all’impermanenza e all’effimero; è il luogo delle immagini e dei poteri da cui il mondo trae vita, in contrapposizione con la sterilità crescente del deserto e la fuga degli dei. In una parola, il bosco è per Jünger lo spazio del sacro, dell’essere che sprigiona i suoi poteri, in cui posa “la eccedenza del mondo”[14]. Perciò è un luogo periglioso, cui solo pochi possono veramente accedere, tramite un passo laterale, o la scoperta dell’altra faccia di ciò che c’è di più abituale. Insomma, al bosco si passa con una conversione, ossia mettendosi in consonanza con i ritmi profondi dell’essere. Il bosco è quel “santuario”[15], quella soglia, quello spartiacque invisibile fra la terra desertica e la terra celeste: l’unica dimensione a partire dalla quale potremo davvero capire perché‚ l’inaccessibile fierezza di una selva[16] o di una montagna siano “meglio”, e per noi più ricche di possibilità vitali, di un intrico di ciminiere o un reticolo di superstrade.

3. Anarca e apolitìa

Il cammino del bosco è, per certi versi, simile alla posizione dell’anarca nell’ambito della società. Entrambi sono “sentinelle confinarie” che in terra di nessuno aguzzano gli occhi e le orecchie in mezzo alle maree[17], pronti a cogliere da una prospettiva di non identificazione la logica e i movimenti della politica della società e degli stati. L’anarca, in particolare, senza venir meno al rispetto dell’autorità, è lontano dall’accordare un consenso interiore alle sue varie manifestazioni, così come si riserva una posizione di indagine critica e di non adesione nei confronti delle ideologie, pur non prendendo apertamente partito contro di esse: il suo sguardo ricorda quello genealogico e aristocratico di Nietzsche. Non è un caso che l’anarca, collocato da Jünger in un’epoca post-istorica, attinga proprio a un profondo sapere storico, soprattutto delle cosiddette epoche di decadenza: ma la sua non è riducibile alla prospettiva spengleriana, che pure presuppone[18]. L’alessandrinismo delle epoche finali, l’esasperata cultura storica e conservativa che va di pari passo con la distruzione della memoria e delle altre specie non devono occultare l’inquietante risveglio del Serpente della Terra: “Ciò spiega lo Stato mondiale, la sparizione di civiltà, l’estinguersi di animali, le monoculture, i deserti, l’aumento di terremoti e di esplosioni plutoniche, il ritorno dei Titani”[19].

Nello “splendore plutonico” dei paesaggi della tecnica, l’anarca sa che le sorgenti inestinguibili della vita sono altrove che nelle catacombe infere della provocazione tecnica: esse sono piuttosto, tuttora irraggiungibili ed enigmatiche, nella remota radura della foresta. Non è senza significato che sia il protagonista di Heliopolis che quello di Eumeswil, alla fine, decidano di mettersi in viaggio per l’altrove, lasciandosi alle spalle la domesticità rassicurante dell’esistenza o il ruolo professionale. Appartenenti a mondi epigonali che nella rappresentazione narrativa si collocano alcuni secoli dopo la scomparsa della nostra civiltà, cancellata da una guerra catastrofica, sia Lucius De Geer che Martin Venator decideranno di compiere il passo oltre: oltre il mondo di larve venuto dopo gli “ultimi uomini”. Che essi non possano far ritorno, allude al salto trasformativo, all’apertura di un’altra dimensione che li sottrae alla visibilità cui il mondo delle masse è abituato. L’anarca, contrariamente alla logica della spettacolarizzazione e dell’enfasi sull’individualità, non si fa notare; in quanto tale si sottrae alla comunanza, appartenendo a se stesso, è essenzialmente solitario: “In fondo, è sempre ed ovunque un uomo della foresta, sia alla macchia come nella metropoli, sia nella società che fuori di essa[20].

La foresta, i cui spazi si collocano sempre più lontano dalle metropoli, è in diretta antitesi con i paesaggi “astorici” propri dello stato mondiale dominato dalla logica plutonica. È la tecnica che ha messo fine alla storia, scavando al di sotto del limite umano, e accumulando quantità tali di detriti da cancellare con essi le culture stesse. L’insaziabilità faustiana dell’impossessamento conduce alla cancellazione dei paesaggi sotto i rifiuti, cui è complementare la compulsione allo scavo, allo sventramento della terra, non solo per l’estrazione di energie fossili, ma anche nella forma dello scavo archeologico, “una sorta di culto sotterraneo degli accumuli”. Così pure il deserto vetrificato che in Eumeswil occorre attraversare per raggiungere il margine pressoché impenetrabile della foresta, è l’emblema della catastrofe che minaccia il mondo unificato a forza dalla una tecnica lasciata se stessa. La foresta rappresenta lo spazio “metastorico”, luogo numinoso della trasformazione e rinascita, ma anche del pericolo supremo per l’individualità. In ogni caso, al dono di vita della foresta si può corrispondere soltanto con la preghiera[21].

Che questa zona interstiziale da cui aprire una prospettiva diversa non sia assimilabile alla natura del sentimento borghese, lo si può desumere anche dalle notazioni di un altro breviario di sopravvivenza tra le rovine, quel Cavalcare la tigre di Julius Evola troppo spesso frainteso: il paesaggio propizio allo spirito è quello “vasto” e “oggettivo” in cui sia possibile, proprio come per Jünger, una superiore libertà. La natura, dunque, rilkianamente tornata nell’estraneità all’uomo, nella sua enigmatica potenza: “Si tratta di restituire alla natura – allo spazio, alle cose, al paesaggio – quei caratteri di lontananza e di estraneità all’umano che sono stati coperti nell’epoca dell’individualismo [...]. Si tratta di riscoprire la lingua dell’inanimato la quale non si manifesta prima che l’‘anima’ abbia cessato di versarsi sulle cose”[22]. Solo dopo questa preliminare purificazione dall’invasività dell’io si potrà portare lo sguardo su aspetti particolari della natura, più propizi alla schiusura della dimensione dell’essere: “Anche Nietzsche ebbe a parlare della ‘superiorità’ del mondo anorganico, chiamando l’anorganico ‘la spiritualità senza individualità”. Per una ‘chiarificazione suprema dell’esistenza’ egli si riferì, in sede di analogia, alla ‘pura atmosfera delle Alpi e dei ghiacciai, dove non vi sono più nebbie, né velami, dove le qualità elementari delle cose si rivelano nude e rigide, ma in una assoluta intelligibilità’ e si coglie ‘l’immensa lingua cifrata dell’esistenza’, ‘la dottrina del divenire fattosi pietra’”. Ma, in quanto ciò che conta di un paesaggio sono qualità formali atte a propiziare la solitudine e la scoperta di una libertà superiore – ossia, in ultima analisi qualità simboliche – è chiaro che, come dice anche Jünger, il bosco o il deserto, la metropoli o il romitaggio, in quanto luoghi fisici, possono essere, da questo punto di vista, equivalenti: “Per il nostro uomo differenziato [la natura] è una scuola dell’oggettivo e del lontano [...]. Si può parlare di una natura che nella sua elementarità è il grande mondo dove i panorami di pietra e di acciaio delle metropoli, le vie rettilinee senza fine, i complessi funzionali di aree industriali stanno sullo stesso piano, ad esempio, delle foreste immense e solitarie, nel segno di una fondamentale austerità, oggettività e non-personalità”[23].

Dal punto di vista del comportamento sociale, l’apolitìa propugnata da Evola, si avvicina molto alla figura dell’anarca jüngeriano, entrambe distaccandosi decisivamente da quelle sia del partigiano che dell’anarchico. L’apolitìa è essenzialmente di ordine interiore, senza comportare particolari conseguenze sul piano pratico: “Apolitìa è la distanza interiore irrevocabile da questa società e dai suoi ‘valori’; è il non accettare di essere legati ad essa per un qualche vincolo spirituale e morale. Ciò restando fermo, con un diverso spirito potranno essere esercitate le attività che in altri presuppongono invece tali vincoli”[24]. E per valutare la vicinanza con il pensiero di Jünger, ci si può riferire anche alla comune ascendenza nietzscheana: “La situazione generale resta, in ogni caso, quella che Nietzsche aveva già caratterizzato con le parole: ‘La lotta per la supremazia in mezzo a condizioni che non valgono nulla: questa civiltà delle grandi città, dei giornali, della febbre, dell’inutilità’. Tale è il quadro che giustifica l’imperativo interiore dell’apolitìa, a difesa del modo d’essere e della dignità di chi sente di appartenere ad una diversa umanità e constata intorno a sé il deserto”[25].

4. Il selvatico e l’interiore

In base alle considerazioni svolte, è facile desumere che in questa macchia metafisica non abiti un uomo primitivo, decivilizzato, animalesco, ma che, alla selva possa accedere in realtà soltanto una persona spiritualmente differenziata, quella per la quale il ‘bosco’ diventa il luogo di una scelta, di un’elezione: luogo in cui schiudere un diverso pensiero, rispetto alla razionalità correntemente intesa e anche alla buona volontà dell’intendersi, e dunque solo in questo senso luogo natìo, proprio come le Alpi per Nietzsche, dimensione di schiusura di nuovi livelli di esistenza e di conoscenza. Appunto, luogo di possibilità di una vita-più-che-vita, di una coscienza della simbolicità che si distacca qualitativamente e irrimediabilmente dall’idea biologistica e ‘naturale’ di vita, e che quindi non può che riconoscere come una pericolosa ideologia tutto ciò che vorrebbe esaurire l’umano nel ‘naturalistico’, e dunque il primordiale con il primitivo[26], o instaurare un’opposizione fra razionalità e animalità, comunque la si orienti poi in termini di valore.

Primaria, e unica in grado di schiudere la natura come paesaggio del nostro abitare terrestre, paesaggio indistinguibilmente geografico, storico e simbolico, è la simbolicità. L’Oriente, del pari, “la terra del mattino”[27], indica un’orientazione del pensiero che sarebbe davvero troppo riduttivo identificare solo con una terra geografica, così come il Nord, o l’Occidente. Quando l’homo salvadego compare nell’immaginario popolare, è in agguato una fallace e fuorviante nostalgia per un passato che solo dall’alto della nostra sicumera di ‘civilizzati’ possiamo considerare balbettante e delirante, e che vede nelle foreste, nei residuali luoghi di Wildnis, l’immagine di un selvatico assolutamente solidale coi miti del progresso tecnologico: Eden barbaro e proditorio, cuore di tenebra della civiltà, o smemorato e infantilmente felice come le isole di mari perduti. In questo modo il selvatico continua a essere l’inferiore, l’infantile, l’animale e il passionale, e in quanto tale può rientrare a buon diritto nel biologismo. Solidale, più o meno consapevolmente con quest’ideologia, sarà l’idea di una determinazione diretta, biologistica appunto, delle Weltanschauungen da parte dell’ambiente cosiddetto naturale. Qui si intravvede in che modo e con quanta coerenza qualcosa che ha le sembianze dell’arcaico e del terragno possa coniugarsi con il mito fondante della modernità, il progresso della razionalità di contro all’irrazionale.

Invece ciò che pertiene alla dimensione del bosco, il “selvatico”, va pensato non come l’inferiore cui ci si riporterebbe con um moto di ritorno o di discesa, ma come l’interiore, a patto di intenderlo in una topologia del pensiero in cui non significhi il ricettacolo e l’espressione della soggettività, bensì come quel “cuore interiore del mondo” che si raggiunge con un movimento di dislocazione essenziale, di ascesa o di salto qualitativo. Movimento e dislocazione del pensiero che hanno poco a che vedere con il delirio o il “sonno della ragione”, con una condizione stuporosa di casuale preservazione, o di rapimento sentimentale ed entusiastico. Il passaggio al bosco è omologo al salto di cui parla Heidegger per raggiungere la terra sulla quale già siamo, o al restare fedeli alla terra invocato da Nietzsche, o a quell’attività del pensiero immaginale di cui ha parlato Henry Corbin a proposito del mazdeismo. Per accedere a questa terra e a questo bosco occorre una rinascita simbolica: solo dopo la nascita nel simbolo è possibile riconoscere come propria una terra. Al di qua di questo, il luogo in cui si è sarà un luogo puramente casuale, un dato di fatto che in quanto tale non segna nessuna reale appartenenza, e tanto meno il destino del pensiero.

Lo spazio del selvatico, come quello del sacro, non può essere calcolato in un’ottica quantitativa: esso èŠ sicuramente residuale e periferico in una considerazione sociologica, nondimeno è il suo punto di vista che ci consente di rimettere in una prospettiva più ampia e meno illusoria il mondo. Il Bosco, appunto, è spazio che non ha uno spazio, ma dischiude tutti i luoghi in quanto hanno di irripetibile e significativo, in quanto compongono il molteplice e spesso invisibile volto della terra. Il bosco, si potrebbe dire con il simbolismo dello spazio sacro, è il centro: quell’immobile centro dalla cui prospettiva ogni movimento appare relativo o illusorio, centro della non-azione, della stabilità e compiutezza in cui tutti i moti, tutte le azioni, tutti i possibili sono conosciuti nella loro radice intemporale e unitaria.

In questo punto di un avvicinamento asintotico alla quiete, non è un troglodita, né un nomade intellettuale moderno che può sperare di giungere, ma un singolo, un uomo differenziato al quale sono idealmente dedicati i pochi breviari spirituali di quel mondo di rovine che è l’epoca della tecnica. Perché questo centro è il cuore di un labirinto, che va percorso nel rischio dell’erramento e nella consapevolezza del nostro stato finito: “La strada che attraversa il labirinto non conduce a nuove verità, al massimo a nuovi simboli. Nella valle scura non splende il sole, ma a tratti riluce l’aurora. Anche gli dèi sono simboli”[28]. E sono simboli ammutoliti, in un’epoca dominata dai titani: la distanza dal divino è massima, e “tanto più deve crescere anche la tensione dello spirito che cerca di superarla”[29]. Allora, forse inaspettatamente da parte di un pensatore poco letto per troppi pregiudizi e troppa ignoranza, il viatico consigliato a chi si voglia sottrarre all’enorme pressione nichilistica esercitata dalla società, avviandosi verso il bosco, è la preghiera: “Così anche la più insignificante creatura può entrare in rapporto con il tutto e non appartenere soltanto a una parte del meccanismo. Di qui fluisce enorme vantaggio e anche sovranità. [...] Di conseguenza si può soltanto consigliare a ognuno di procurarsi questo sostegno, in qualsiasi condizione si trovi”[30].



[1] Il Trattato del Ribelle andrebbe letto assieme ad altre due opere con le quali costituisce un’ideale trilogia: Al muro del tempo e Lo Stato mondiale. La rete dei rimandi interni fra queste tre opere (e anche con Oltre la linea, che riprende i temi principali di Der Waldgang) illumina efficacemente il significato del “bosco” in rapporto al paesaggio della tecnica, soprattutto per quanto riguarda le loro diverse forme di temporalità e di senso metafisico-cosmico.

[2] E. Jünger, Trattato del Ribelle, tr. it. di F. Bovoli, Adelphi, Milano 1990, p 71.

[3] Ibidem.

[4] Su come le diverse simbolizzazioni rendano possibile il “vedere” e lo “scoprire” i paesaggi, si rimanda, oltre che alla sterminata letteratura sulla scoperta delle Alpi in età moderna, a F. Fedele, Inventare le Alpi: antichi abitanti, moderne archeologie, “Tellus”, 15, 1995 (sulla scoperta, tutt’altro che ‘naturale’ delle altitudini da parti di popolazioni preistoriche) e di L. Bonesio, a La montagna nella Tradizione occidentale, “L’immaginale”, 18, 1995 e a Volti della terra, in Geofilosofia, a cura di M. Baldino, L. Bonesio e C. Resta, Lyasis, Sondrio 1996.

[5] Cfr. M. Schwind, Senso ed espressione del paesaggio, in H. Lehmann, M. Schwind, C. Troll, H. Lützeler, L’anima del paesaggio tra estetica e geografia, a cura di L. Bonesio e M. Schmidt di Friedberg, Mimesis, Milano 1999, che argomenta da un punto di vista geografico questo concetto; in particolare la parte conclusiva.

[6] E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., p. 71.

[7] M. Eliade, Mefistofele e l’androgine, tr. it. di E. Pinto, Edizioni Mediterranee, Roma 19892, pp. 194-5 (cap. V, “Osservazioni sul simbolismo religioso”).

[8] E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., p. 70.

[9] Ivi, p. 54.

[10] Ivi, p. 55.

[11] Per un’interpretazione dell’ “imboscamento” del Waldgänger come “passo al di là”, cfr. C. Resta, “L’imboscato”, in L. Bonesio e C. Resta, Passaggi al bosco, Ernst Jünger nell’era dei Titani, Mimesis, Milano 2000, cap. I.

[12] E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., p. 70.

 

[13] Ivi, p. 96.

[14] Ivi, p. 76.

[15] Ivi, p. 129.

[16] Tra gli innumerevoli passi in cui Jünger testimonia del suo profondo e competente amore per la natura, disseminati in tutte le sue numerose opere, uno, dal diario di guerra del 1943, dal fronte caucasico: “Volevo godermi ancora una volta la visione degli antichi alberi; che essi scompaiano dalla terra è un segno di malaugurio, fra i tanti il peggiore. Essi non sono soltanto i simboli più potenti della forza della terra, ma dello spirito degli avi, palese nel legno delle culle, dei letti e delle bare. Sono come reliquari, che racchiudono una vita più sublime destinata a morire con loro. Ma qui stavano ancora in piedi; alberi potenti, sul cui tronco i rami formavano come uno spesso mantello. Faggi lucenti di riflesso d’argento, querce rugose da foresta vergine, il grigio pero selvatico. Presi congedo da queste selve di giganti come Gulliver prima di partire per il mondo dei nani, ove tutto ciò che è grande è frutto di costruzione e non di libera crescita” (E. Jünger, Irradiazioni. Diario 1941-1945, tr. it. di H. Furst, Guanda, Parma 1993, p. 204).

[17] E. Jünger, Eumeswil, tr. it. di M.T. Mandalari, Rusconi, Milano 1981, p. 82. Cfr. anche La forbice: “Non è la rivoluzione del mondo a provocare le maree sizigiali, ma la rivoluzione della terra, che sta dietro di esso. [...] La distruzione diviene tellurica, come se un bolide vi si abbattesse. Tutto questo accade, come testimonia il disfacimento dei crateri, nel corso di intervalli metastorici. A questo punto si domanda: ammesso che si voglia valutarla nella prospettiva dei cicli, quale corso seguirà la storia, per culminare nella sua marea sizigiale? Potrebbe ripetersi il cretaceo, o forse un’età ancora anteriore? Una catena di monti non s’innanlza senza buone ragioni” (tr. it. di A. Iadicicco, Guanda, Parma 1996, p. 123).

[18] Cfr. non solo la discussione della prospettiva ciclica della temporalità storica di Spengler in Al muro del tempo (tr. it. di A. La Rocca e A. Grieco, Adelphi, Milano 2000), ma anche l’ambientazione del racconto nelle città di Heliopolis ed Eumeswil, che danno il titolo ai due romanzi filosofici di Jünger.

[19] E. Jünger, Eumeswil, cit., p. 81.

[20] Ivi, p. 140.

[21] Ivi, p. 362.

[22] J. Evola, Cavalcare la tigre, Scheiwiller, Milano 19712, p. 123.

[23] Ivi, pp. 123 e 124. Si veda l’osservazione portata, nella rigorosa prospettiva della Tradizione a questa valutazione evoliana della realtà promanata dalla tecnica, da Titus Burckhardt in Considerazioni sulla conoscenza sacra (tr. it. di M.A. Prina, SE, Milano 1989, pp. 111-118): la macchina e la sua logica -secondo Evola di “pura realtà e oggettività” – non possono essere mezzo di asservimento della forza negativa in quanto “la forma della macchina esprime esattamente ciò che essa è, vale a dire una sorta di sfida lanciata all’ordine cosmico e divino”, in cui si manifestano agitazione e artificio, così come l’apparente oggettività della cosidetta architettura funzionale “non è che una mistica rovesciata, una sentimentalità congelata e rivestita di oggettività matematica”.

[24] Ivi, p. 75.

[25] Ivi, p. 176.

[26] “Per l’uomo non è mai esistito uno stato puramente ‘naturale’; egli fin da principio è stato posto in uno stato ‘super-naturale’ da cui poi decadde” (ivi, p. 121). Va ricordato che per Jünger le età più remote sono anche le più perfette da un punto di vista spirituale: l’età della pietra equivale all’età dell’oro delle mitologie classiche, e in qualche modo l’idea del bosco come luogo natìo ne è un’eco.

[27] Cfr. C. Resta, La terra del mattino. Heidegger e la natura, in AA.VV., Terra Natura Storia, a cura di G. Marchianò, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996.

[28] E. Jünger, La forbice, cit., p. 128. Si veda un’immagine analoga: “Siamo in pellegrinaggio; nella cappella lasciamo dietro di noi ciò in cui abbiamo creduto, come immagine votiva, ciò che abbiamo saputo, come stampella” (ivi, p. 183).

[29] Ivi, p. 126.

 

[30] E. Jünger, Irradiazioni, cit., p. 451.