Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Bankitalia: un ‘golpe’ a 3 teste?

Bankitalia: un ‘golpe’ a 3 teste?

di Claudio Moffa - 05/02/2014

Fonte: lindro

 


Con Claudio Moffa una riflessione sulla “vera storia della irrituale procedura seguita per blindare il decreto legge Banca d'Italia


  
  

 

 

Claudio Moffa, docente all’Università di Teramo, è uno degli intellettuali più ‘spessi’ e ‘spinosi’ che popolano l’Università italiana di questi anni, le sue riflessioni -che vanno dall’Africa e il Medio Oriente, alla Shoah (per le quali è stato ripetutamente tacciato -infondatamente- di negazionismo) a Enrico Mattei- non passano mai senza lasciare un segno e una ‘ferita’ intellettuale che stimola  -a tratti animamente-  pensiero e dibattito. Recentemente ha mandato alle stampe un libro sul tema caldissimo della sovranità monetaria e della rinegoziazione del debito (‘Rompere la gabbia. Sovranità monetaria e rinegoziazione del debito contro la crisi’, presentato da economisti e rappresentanti del mondo sindacale e confindustriale) nel contesto del quale gli ultimi accadimenti relativi a Bankitalia sono tutt’altro che estranei.

Un golpe a tre teste, con i supremi organi dello Stato -Giorgio Napolitano e Laura Boldrini- al servizio dei banchieri privati che controllano da una ventina d’anni la Banca d’Italia? E’ questa la vera storia della comunque irrituale procedura seguita per blindare, in due o forse tre fasi, il decreto legge 133 del 30 novembre 2013, quello dell’abbinamento tra Imu e Banca d’Italia di cui agli scontri in Parlamento il 29 gennaio scorso?”. Esordisce Moffa impostando il tema della riflessione che conduciamo.

Professore, dunque, secondo alcune forze politiche e movimenti extraparlamentari, dunque, ci troviamo davanti a un ‘golpe’. Lei, mi pare di capire, condivide il concetto di ‘golpe’, ci può spiegare?
Un ‘golpe’? Sembrerebbe  proprio di sì. Ripercorriamo la vicenda. Prima fase, il 30 novembre 2013 il Consiglio dei Ministri vara il decreto legge 133, con le firme di Enrico Letta, del vicepremier Angelino Alfano, del Ministro dell'Economia e delle Finanze Fabrizio Saccomanni e del Presidente della Repubblica. Fin qui tutto regolare, il Dl viene trasmesso ai due rami del Parlamento, i quali, entro 5 giorni dalla ricezione, devono essere convocati e riunirsi, per poi approvare il testo governativo, emendato o no, entro 60 giorni, cioè, come è stato, entro il 29 gennaio 2014. Ma il percorso non è semplice. Ci sono di mezzo questioni molto pesanti, non ultima le riserve auree dello Stato italiano -circa 100 miliardi di euro- e il rischio è che le opposizioni prevalgano, anche se l’accorpamento Imu-BdI non è solo un insolito abbinamento ma anche un capzioso abbindolamento di Forza Italia, come noto sostenitrice dell’abolizione dell’odiata tassa sulla casa fin dai tempi della campagna elettorale del Pdl, all’inizio dello scorso anno. L’occasione è, insomma, buona, e così i banchieri preparano il terreno al primo irrituale intervento, quello di Napolitano di fine anno.

Arriviamo così alla seconda fase…
Il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco fa convocare, il 23 dicembre, l’Assemblea straordinaria dei Soci di Bankitalia, la quale decide di cambiare lo Statuto ispirandosi alle disposizioni degli artt. 4 e 6 del decreto 133, nonostante questo non abbia concluso il suo iter procedurale, e dunque c’è il rischio che non venga approvato così come è: ma Visco sa, evidentemente, il fatto suo, anche se è improbabile che egli pensi, come Ezra Pound, che i politici siano i ‘camerieri’ delle banche private di via Nazionale. L’Assemblea, dunque, approva la rivalorizzazione del capitale della Banca centrale, che passa dai 156 mila euro del 1936 a circa 7 miliardi e mezzo di euro. Approva anche la parcellizzazione delle quote in base alla quale nessun socio può avere più del 5 per cento del monte-azioni, visto che anche questo dispositivo potrebbe diventare un potenziale elemento di arricchimento delle banche private ai danni dello Stato -è lo Stato, infatti, che in base allo stesso decreto, avrebbe l’onere di accollarsi le quote eccedenti la parcellizzazione in caso di non ingresso di nuovi azionisti privati- e, poiché pecunia non olet, approva, infine, la possibile acquisizione del capitale azionario da parte di banchieri non italiani  -infatti, in base alla riforma dello Statuto, è sufficiente che una Banca abbia la (una?) sede legale in Italia, o che appartenga all’Unione europea, perché possa, a pieno titolo, compartecipare ai dividendi e alle operazioni della Banca centrale italiana. Senza contare, poi, il possibile ‘sacco’ dell’oro di Stato, le riserve auree che appartengono, o forse dovrebbero appartenere, ai cittadini italiani: nel decreto legge si fa riferimento, ai fini della rivalorizzazione del capitale, e per evitare effetti negativi della parcellizzazione, alle «riserve statutarie» di Bankitalia, e non c’è dubbio -basta leggerne lo Statuto- che al loro interno ci sono le riserve auree, circa 100 miliardi di euro.

Lei mi evidenziava che il DPR del 27 dicembre tratta gli stessi articoli del decreto 133, e manca della firma di Angelino Alfano. Come mai? Un fatto di ordinaria amministrazione o ‘politico’?
Visco dixit, ed ecco a seguire nell’arco di poco più di un mese, le forzature delle due più alte cariche dello Stato: il Presidente Giorgio Napolitano firma, infatti, un decreto presidenziale subito dopo la pausa natalizia, il 27 dicembre. Teoricamente il Capo dello Stato avrebbe dovuto aspettare la conclusione dell’iter di approvazione parlamentare (il decreto 133 ancora non era stato votato, da nessuno dei due rami del Parlamento), ma evidentemente dopo il pushing di Visco, forza anche lui la mano con un piccolo capolavoro giuridico: imbeccato di nuovo da Letta e Saccomani, cofirmatari del documento -ma questa volta, appunto, manca la firma di Alfano: come mai?-, il Capo di Stato, infatti, tramuta in legge il nuovo statuto della Banca d’Italia approvato dall’Assemblea dei Soci appena 4 giorni prima (uno in realtà, viste le festività del 24, 25 e 26) estrapolando -miracolo nel miracolo- due soli articoli del decreto 133 del 30 novembre, ovvero il 4 e il 6, quelli che, cioè, sintetizzano gli elementi principali della riforma di Bankitalia, appena citati. Articoli che ancora dovevano essere discussi e approvati dal Parlamento. Il pushing prosegue, e di nuovo la palla torna in mano al Governatore Visco. Il Governatore, incurante del doppio binario in cui è stato incanalato il nuovo Statuto della Banca d’Italia dalla fantasia creativa di Napolitano, Letta e Saccomani, permette che venga pubblicata sul sito di Palazzo Koch una breve notizia che così recita: «con l’emanazione del decreto del Presidente della Repubblica del 27 dicembre 2013 si è concluso l’iter di approvazione delle modifiche allo Statuto della Banca d’Italia, indotte dal decreto legge 133/2013».

E arriviamo al 2 gennaio.
Concluso l’iter del decreto 133? Si noti l’ «indotte», termine nel caso specifico non propriamente giuridico, e anche per questo tipico di una prassi che ha dell’assurdo o quanto meno dell’inusitato: non è possibile, infatti, che a Bankitalia non sappiano che i Decreti legge perdono efficacia se non passano al vaglio di Senato e Camera entro 60 giorni dalla loro pubblicazione, e che, dunque, il loro iter si conclude solo dopo l’approvazione dei due rami del Parlamento. Ma Visco ha forzato la mano seguendo a ruota la forzatura -definita, come dice lei, da alcune forze parlamentari e movimenti extraparlamentari ‘golpe’- del 27 dicembre. Nell’anno di grazia 2014, lo può fare. Egli è, infatti, il Governatore della Banca Centrale, non dei tempi di Mussolini, che nel 1936 nazionalizzò le quote degli azionisti privati elevando lo Stato sul ponte di comando della politica e dell’emissione monetaria. Non è nemmeno il Governatore della Repubblica nata dalla Resistenza, quella che secondo i giuristi non solo non abrogò, ma, anzi, rafforzò il controllo dello Stato sulla Banca Centrale; non può essere un suo modello neppure il Governatore Azeglio Ciampi dell’anno 1981  -quello della lettera di Beniamino Andreatta a favore del ‘divorzio’ tra il Tesoro e Banca centrale, che diede il via alla spirale del Debito pubblico -perché comunque, anche allora Bankitalia era controllata in maggioranza da capitale pubblico. Visco non è nulla di tutto questo: egli è uno dei governatori figli delle privatizzazioni del Governo Amato, anno 1992, quando tra il ‘seminario sulle privatizzazioni’ sul panfilo Britannia  -uno schiaffo in faccia alla Repubblica, nell’anniversario della sua nascita, il 2 giugno- e la svalutazione della lira a settembre, ad opera di George Soros, il decreto 333 dell’11 luglio 1992 privatizzò tutta l’industria di Stato, e dunque -dentro il colosso IRI- le Banche di interesse nazionali a capitale pubblico a loro volte azioniste della Banca d’Italia. Così, in modo surrettizio e indiretto, venne privatizzata la Banca centrale italiana, una svolta di cui in termini di debito pubblico, stiamo ancora pagando le pesanti conseguenze.

La questione del decreto 133 è tutta dentro questa problematica, dunque?
Si. Non è solo un nuovo assalto al patrimonio teoricamente del Popolo italiano -le riserve auree- e un regalo forse non potenziale ma reale, alle banche private  -la rivalorizzazione del capitale di base- ma è anche una pagina nera della storia Repubblicana, che vuole relegare il Parlamento a un ruolo solo notarile, di mera certificazione ex post di quanto già deciso dagli azionisti privati di Bankitalia, da Visco, da Letta-Saccomanni, da Napolitano e dalla Boldrini, quest’ultima come sempre in forte sintonia con il Presidente della Repubblica. Dopo l’approvazione al Senato del 9 gennaio, la ghigliottina della Presidente della Camera -il blocco arbitrario degli emendamenti presentati dalle forze di opposizione: una prassi comunque vergognosa, soprattutto a fronte della gravità e importanza dei temi trattati- nasce da questo pasticcio: se fosse stato discusso il decreto Imu-Bankitalia dalla Camera, non solo c’era il rischio concreto che il decreto 133 decadesse a causa del superamento dei sessanta giorni utili alla sua approvazione, ma c’era, inoltre, il pericolo che lo Statuto della Banca d’Italia, già approvato dal Governatore Visco e tramutato in legge da Napolitano, dovessero essere rimessi in discussione e cambiati, ledendo la ferrea volontà decisionista del Quirinale, della Banca d’Italia e della Presidenza della Camera. Il risultato è un nuovo passo indietro per il Paese sul tema cruciale della sovranità monetaria: teoricamente, proprio grazie alla parcellizzazione delle quote azionarie della Banca centrale, è possibile che le quote in eccesso finiscano nelle mani dello Stato, che -ipotesi nell’ipotesi- potrebbe trovarsi nella situazione di aver guadagnato la maggioranza del capitale della Banca d’Italia. Ci si troverebbe così a una riedizione degli effetti falliti della legge 262 del 2005 (che appunto disponeva che la maggioranza del capitale della Banca d’Italia fosse in mano pubblica), legge vanificata l’anno dopo dalla riforma dello Statuto da parte del Governo Prodi. Ma anche si inverasse questa ipotesi, a che prezzo per lo Stato e il suo debito, vista che la rivalorizzazione porterebbe il prezzo delle quote a livelli di gran lunga superiori a quello del passato?