Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Uomo e animali. Il posto dell'uomo nella natura. L'ultimo libro di Alain de Benoist

Uomo e animali. Il posto dell'uomo nella natura. L'ultimo libro di Alain de Benoist

di Giuseppe Giaccio - 07/10/2014

Fonte: Arianna editrice

E' uscita, a cura di Giuseppe Giaccio, l'edizione italiana del libro di Alain de Benoist, Uomo e animali. Il posto dell'uomo nella natura, per Diana edizioni (www.dianaedizioni.com)

 

Se, come si fa nei giochi di società, ci chiedessero di salvare, a futura memoria, dalla non indifferente mole delle pubblicazioni di Alain de Benoist, quattro o cinque libri, non esiteremmo a includere nel lotto anche il lavoro qui presentato al lettore italiano ed il cui valore è inversamente proporzionale al numero delle pagine: breve, ma succoso, scritto con grande chiarezza espositiva, esso rappresenta una conferma, l’ennesima, che siamo di fronte a un autore che arricchisce la mente, fa venire voglia di approfondire, trasmette il gusto dell’elaborazione intellettuale, dà la sensazione di non aver perso tempo leggendolo. Lo spunto da cui  le pagine seguenti prendono le mosse, il saggio di Yves Christen L’animal est-il une personne? (Flammarion), ben presto si allarga fino ad assumere l’aspetto di una vera e propria chiave d’accesso al pensiero debenoistiano, spesso travisato o addirittura ignorato da chi pure ha la pretesa di parlarne. Ma proviamo a guardarlo più da vicino, sia pure per sommi (molto sommi) capi[1] e tenendo presenti i contenuti sviluppati in Uomini e animali.      

Timeo hominem unis libris, ho paura dell’uomo di un solo libro. Questa frase di san Tommaso d’Aquino non si attaglia certo ad Alain de Benoist. Per diverse ragioni. Anzitutto, perché il pensatore francese di libri ne possiede parecchi. Si dice che sia il proprietario di una delle più vaste biblioteche private dell’Hexagone, composta da un numero di testi oscillanti tra i 150.000 e i 200.000. In secondo luogo, perché proprio lui ha contribuito ad ampliarne le dimensioni scrivendone molti, circa una novantina, oltre ad almeno duemila articoli, senza contare le interviste[2]. In terzo luogo, perché la struttura stessa del suo pensiero rifiuta l’idea di unicità intesa come indifferenziazione, opponendole la ricchezza del molteplice, un monismo pluralista, un “uno” che si manifesta in modi variegati e che lo ha spinto a scandagliare una quantità impressionante di temi relativi sia alle scienze umane e sociali che alle scienze naturali.

Questa prospettiva pluridisciplinare, se praticata in maniera superficiale, senza rigore intellettuale, espone al rischio, di cui de Benoist è ben consapevole, dell’eclettismo e del dilettantismo. D’altra parte, l’approccio opposto cela un altro, e non meno grave, pericolo, vigorosamente  e profeticamente denunciato da Ortega y Gasset già negli anni Trenta dello scorso secolo, quello della «barbarie dello specialismo» (nella quale egli vedeva una delle manifestazioni dell’uomo-massa), espressione con la quale il filosofo spagnolo intendeva riferirsi a quella figura di studioso, e più in particolare di uomo di scienza, oggi dominante, che sa tutto, o quasi, del piccolo angolo di mondo cui ha dedicato i suoi sforzi intellettuali, mentre per il resto è un perfetto ignorante, con l’aggravante che, conscio del suo micro-sapere, comincia a sproloquiare con aria petulante anche su questioni rispetto alle quali è un incompetente patentato. Di qui il suo auspicio che si ponga mano a un «lavoro di ricostruzione» finalizzato alla creazione di collegamenti tra «regioni più vaste del sapere totale». Abbiamo bisogno di più uomini «colti» e di meno «specialisti» o, meglio ancora, di specialisti la cui passione di intelligere, di capire, li spinga ad affacciarsi fuori dalla «piccola cella del loro laboratorio» nella quale si sono volontariamente rinchiusi «come l’ape nel suo favo», rinunciando così ad una «cultura integrale», alla «curiosità per l’insieme del sapere»[3]. Poco più di vent’anni dopo, in un saggio del 1953, Carl Schmitt esprimeva preoccupazioni e speranze analoghe, notando: «La considerazione scientifica dei problemi della vita associata è frammentata in molte specializzazioni, come quella giuridica, economica, sociologica e così via. Si impone la necessità di una prospettiva globale, capace di riconoscere l’unità del contesto reale». Si tratta di «superare i limiti delle specializzazioni, senza per questo negare il valore delle ricerche specifiche»[4]. I pericoli della specializzazione sono stati evidenziati anche da Hans Jonas, il quale si sofferma in particolare sulla frammentazione del sapere, che diventa sempre più esoterico e «sempre meno comunicabile ai non addetti al lavori, finendo così per escludere la maggior parte dei contemporanei», con la conseguenza di favorire il diffondersi di «surrogati del sapere e superstizione»[5]. Benché necessario, osserva dal canto suo Serge Latouche, questo «approccio transdisciplinare […] è la cosa che la nostra modernità trova più difficile da concepire»[6]. Difficile, aggiungiamo, ma non impossibile.   

Il contributo intellettuale di Alain de Benoist è animato dalla stessa tensione verso una cultura integrale. E ciò spiega il fascino che, dal punto di vista metodologico, hanno esercitato su di lui sia gli enciclopedisti che la Scuola di Francoforte, per non parlare della konservative Revolution. «Sono ugualmente convinto», scrive, «che le differenti discipline si chiariscano reciprocamente, cosa che l’attuale tendenza alla specializzazione fa spesso perdere di vista. Quelli che lavorano nel settore delle scienze della vita ignorano i risultati delle scienze sociali – di cui talvolta non vogliono nemmeno sentir parlare – e viceversa»[7]. Egli si presenta, perciò, come un «coordinatore-sintetizzatore»[8], impegnato nella ricerca di legami tra differenti discipline sulla base di una Weltanschauung fondata su due cardini che, diversamente coniugati nel corso dei decenni, lo hanno costantemente accompagnato in mezzo secolo di impegno intellettuale e culturale: il rifiuto dell’Unico in quanto «implica una concezione unitaria del bene, che rigetta nell’ambito del male tutto ciò che si allontana da questo nuovo regime di verità»[9], cui fa da contraltare una visione monistica – dove si avverte l’influenza, del resto apertamente confessata, di Stéphane Lupasco e dell’antropologia filosofica tedesca – che comprende il reale come un tutto autosufficiente ed eterno, privo di antinomie e lacerazioni dualistiche e metafisiche, articolato su diversi livelli (il microfisico, il macrofisico, il vivente e l’umano) e nella quale l’uomo è visto come una particolare manifestazione della materia biologica – una manifestazione che, pur essendo radicata in essa, e pur rientrando, pertanto, pienamente nella sfera animale (perché tutto l’animale è nell’uomo), se ne distacca in parte a causa delle proprietà «emergenti» dalla sfera «neuropsichica» che gli appartiene in proprio (perché non tutto l’uomo è nell’animale). In questa concezione del vivente, che si richiama evidentemente alla teoria della emergent evolution di Lloyd Morgan, le forme superiori di esistenza, rispetto alle quali usiamo termini come anima, spirito, coscienza, non hanno niente di trascendente e la loro matrice è «rigorosamente immanente»[10]. Proprio per queste sue peculiarità, l’uomo, come ha notato Hans Jonas, è un essere costitutivamente ambiguo e problematico. Ogni tentativo di spiegarlo in nome di una sua presunta autenticità è destinato a trasformarlo in un homunculus totalmente asservito al dispositivo tecnico (alla Megamacchina, come direbbe Latouche).

Il monismo pluralista e l’emergentismo (cui è associata una serrata critica del riduzionismo), insieme con una serie di autori di riferimento che stanno dietro a queste etichette e che abbiamo in parte già citato, sono la bussola che si intuisce presente anche nelle posizioni assunte da Alain de Benoist in campi apparentemente distanti e scollegati dagli argomenti affrontati in Uomini e animali, ma in realtà ad essi strettamente connessi. La demolizione del nazionalismo, la distinzione tra cittadinanza e nazionalità, la simpatia per il federalismo e la democrazia partecipativa (con annessa valutazione negativa della democrazia rappresentativa), e quindi per Altusio contro Bodin, il rifiuto del pensiero unico neoliberale, che diventa critica della Forma Capitale e della globalizzazione sul terreno economico e dell’unilateralismo statunitense sul terreno della politica internazionale, cui si affianca la proposta di un assetto mondiale basato sull’equilibrio tra grandi spazi geopolitici, l’attenzione per la decrescita e l’ecologia, la formulazione di una concezione «sferica» e non finalistica della storia, la valorizzazione del politeismo pagano versus il monoteismo – questi ed altri temi rintracciabili nelle sue opere sono il riflesso di una scelta di fondo che privilegia, in tutti gli ambiti del sapere e della vita, la differenza e il differente rispetto al medesimo e all’uniforme. Con un retroterra del genere, non desta stupore che Alain de Benoist non sia un intellettuale à la page. Rifiutando di genuflettersi davanti al pensiero unico neoliberale e di offrirgli sacrifici, è logico che sia discriminato. Di questo egli è perfettamente cosciente, ma non se ne rammarica affatto, essendo persuaso che «la notorietà non è necessariamente un bene, ed è anzi spesso un male. Per molti, segna l’inizio dell’“adesione”, ossia del tradimento». Ciò che conta, a suo parere, è elaborare e mettere a disposizione di quanti si sentono insoddisfatti del mondo così com’è, qualunque sia la loro provenienza e ammesso che esistano ancora esseri tanto bizzarri, «un corpus teorico adatto al momento storico in cui viviamo e suscettibile di (ri)fondare il legame sociale su valori condivisi»[11].

Se è vero che la nostra è, come sosteneva Günther Anders, un’epoca di «conformati» e di «conformandi», di libertà illusoria nella quale «la privazione di libertà della persona va di pari passo con l’ideologia della libertà della persona; e l’abolizione della libertà per lo più viene perpetrata in nome della libertà»[12], è comprensibile che si cerchi di mettere ai margini certe idee che potrebbero far inceppare i congegni bene oliati della «Megamacchina» occidentale.

Quelli di Alain de Benoist (e di una pattuglia di altri intellettuali non omologati: si pensi a un Régis Debray, a un Serge Latouche o, per quanto riguarda l’Italia, a un Danilo Zolo) sono dunque, nietzscheanamente, libri «per tutti e per nessuno». Per tutti, perché, almeno in teoria, tutti possono prenderne visione; per nessuno, perché, in realtà, essi, per usare una metafora evangelica, sono come seme che cade su un terreno non propizio, infertile, sterile. La loro pubblicazione equivale, pertanto, a una scommessa e a una speranza: la scommessa che ci sia ancora del terreno buono, la speranza che forse un giorno germoglieranno piante e matureranno frutti.

 

Giuseppe Giaccio                                                 



NOTE

 

[1] Chi volesse approfondirlo, può utilmente avvalersi, oltre che dei testi indicati in questa nostra breve nota introduttiva, anche del saggio di Pierre-André Taguieff Sulla Nuova destra, Vallecchi, Firenze 2004.   

[2] Il volume bibliografico che dà conto della sua produzione nell’arco di tempo compreso tra il 1960, data di pubblicazione del suo primo scritto, e il 2010, mezzo secolo dopo, supera le 450 pagine (cfr. Alain de Benoist. Bibliographie 1960-2010, AAAB, Paris 2009). E non è ancora finita se, come ci – e gli – auguriamo, dovesse avverarsi l’auspicio formulato, nella prefazione, da Michel Marmin quando osserva che «gli restano almeno due buoni decenni per raddoppiare il volume!» (pag. 9). Per quanto riguarda le interviste, una significativa raccolta, che è anche una buona introduzione al suo pensiero filosofico e politico, si trova in Alain de Benoist, Pensiero ribelle, I, Controcorrente, Napoli 2008 e Pensiero ribelle, II, Controcorrente, Napoli 2012.       

[3] Cfr. José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, il Mulino, Bologna 1974, pagg. 101-107.

[4] Il saggio cui si fa riferimento è «Nehmen/Teilen/Weiden», tradotto con il titolo «Appropriazione/divisione/produzione», compreso in Carl Schmitt, Le categorie del ‘politico’, il Mulino, Bologna 1979, pagg. 295-312.

[5] Cfr. Hans Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1993, pagg. 210-211.

[6] Serge Latouche, Limiti, Bollati Boringhieri, Torino 2012, pag. 17.

[7] Cfr. Alain de Benoist, Mémoire vive, Éditions de Fallois, Paris 2012, pag. 151.

[8] Ibidem.

[9] Ivi, pag. 182.

[10] Cfr. Hans Jonas, op. cit., pag. 85. 

[11] Alain de Benoist, Au temps des idéologies «à la mode», AAAB, Paris 2009, pag. 18.   

[12] Cfr. Günther Anders, L’uomo è antiquato. II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pag. 179.