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Ci sarà tempo per capire quanto grave possa essere la “rottura” fra Washington e Tel Aviv sulla questione del nucleare iraniano, benché sia chiaro che si tratta di un contrasto non diverso da quello all’interno dello stesso gruppo dominante statunitense. Non è certo un mistero, infatti, che l’amministrazione Obama sia accusata anche in America di essere incapace di difendere con successo gli interessi degli Stati Uniti e che buona parte del mondo politico americano che “conta” si sia schierata apertamente con Netanyahu, il quale ritiene che Obama si sia fatto “raggirare” da un regime “infido” come quello iraniano. Del resto, anche i media occidentali meno scettici riguardo all’accordo di Losanna sottolineano che ora si dovrà vedere se l’Iran rispetterà davvero gli impegni presi o se invece cercherà di “imbrogliare” la comunità internazionale. Come se non fosse stata l’America a mentire ripetutamente su questioni di politica internazionale (dal Kosovo all’Iraq, dalla Siria all’Ucraina) e a trasformare insieme con le petromonarchie del Golfo la Mesopotamia in un lago di sangue. O come se non fosse Israele a disporre di oltre 200 testate nucleari ma senza averlo mai ammesso (e quindi non dovendo subire alcuna ispezione da parte di alcun organismo internazionale, mentre l’Iran non solo ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare, ma ha anche ratificato, nel 1997, la Convenzione internazionale sulle armi chimiche, dopo avere già ratificato, nel 1973, la Convenzione sulle armi biologiche). Che i media mainstream di proprietà degli oligarchi occidentali facciano il tifo per gli Usa e per Israele “a prescindere” però è storia nota e non vale la pena insistervi. Quel che davvero importa è comprendere la ragione del conflitto tra una parte significativa del gruppo dominante americano e l’ammnistrazione Obama.

Quest’ultimo, non lo si dovrebbe dimenticare, aveva ereditato una situazione gravemente compromessa dalla disastrosa politica della precedente amministrazione, che aveva tentato di sottomettere con la forza intere regioni del continente eurasiatico. Una strategia rivelatasi fallimentare non solo per la difficoltà di “gestire” direttamente Paesi così diversi dagli Stati Uniti come l’Afghanistan e l’Iraq, ma perché nel frattempo la storia “andava avanti”, nonostante le “profezie” di Francis Fukuyama, e gli Usa non potevano arrestare lo sviluppo e la crescita di una serie di Paesi, primo fra tutti la Cina ma anche quella Russia che ritenevano di avere “liquidato” definitivamente negli anni Novanta. Invece, con l’elezione di Obama gli Stati Uniti sembravano voltare pagina, prendendo atto che il modello unipolare incentrato sulla supremazia americana era oltre le proprie possibilità, non per difetto di potenza militare, ma perché la potenza militare garantisce sì la distruzione di un Paese nemico, ma non necessariamente che si sia in grado di imporgli la propria volontà. Per ottenere questo occorrono ovviamente anche altri “mezzi”. Invero, perfino da un punto di vista strettamente militare, occorre un esercito che sappia combattere sullo stesso terreno del nemico, altrimenti si rischia di dare la caccia alle mosche con i cannoni e di farsi odiare addirittura dai propri alleati. Insomma, si richiede una dottrina militare basata più sulla flessibilità operativa che sulla potenza di fuoco, ma soprattutto si deve essere disposti ad accettare perdite di vite umane rilevanti in combattimento, senza essere costretti a reagire con tutta la forza di cui si dispone. Inutile dire che questo è proprio ciò che gli Usa non sono disposti ad accettare. Non a caso “no boots on ground” è il principio su cui si fonda la nuova strategia di Obama.

Si tratta pur sempre però di una strategia che mira a rafforzare la posizione di predominio degli Stati Uniti, non certo a ridefinire gli equilibri mondiali secondo un’ottica “multipolare”, ma con mezzi nuovi: rivoluzioni colorate, quinte colonne, uso dei “mercati”, di Ong e così via. Se si deve combattere gli Usa possono offrire armi, soldi e intelligence e se proprio è necessario, impiegare missili, navi ed aerei, ma il sangue meglio che lo versino altri. Ragion per cui Obama durante la sua presidenza ha lasciato pressoché carta bianca alle petromonarchie del Golfo, pur riservando a Washington, per così dire, il ruolo di “regista”. Scopo dichiarato: ridisegnare la mappa geopolitica dell’intera regione, dal Medio e Vicino Oriente al Nord Africa, ossia la cosiddetta “primavera araba” (generata sì dal malcontento delle masse arabe, ma fin dall’inizio “eterodiretta” e strumentalizzata dalla “manina d’oltreoceano” e soprattutto dagli “alleati” arabi e turchi). Né Obama si è opposto alle mire neocolonialiste di Sarkozy, dacché la Francia (tradizionale rivale degli Usa in Africa) è adesso un alleato utile e prezioso per fermare la penetrazione della Cina nel continente africano. L’inaspettata resistenza della Siria di Assad e i diversi e perfino contrastanti interessi delle petromonarchie del Golfo (particolarmente significativo lo scontro fra Qatar e Arabia Saudita riguardo all’Egitto, essendo i sauditi acerrimi nemici dei Fratelli musulmani egiziani, appoggiati invece dal Qatar) hanno però trasformato una situazione, già di per sé estremamente complessa, in un tale “caos”, che in pratica non vi è più un attore geopolitico nella zona che non giochi diverse partite, al punto che gli stessi americani possono essere dalla parte dei nemici dei propri nemici, ma al tempo stesso sostenere gli amici dei propri nemici.

D’altronde, vi è chi vede in tale geopolitica del caos una vera e propria strategia della tensione che giocherebbe solo a vantaggio di Washington, giacché gli Stati Uniti nel 2020 saranno il primo esportatore mondiale di gas e petrolio, e perciò dovrebbero «avere interesse a favorire la destabilizzazione delle regioni caratterizzate dalla presenza di risorse energetiche o attraversate da gasdotti e oleodotti, fondamentali per le economie dei loro competitor globali (Europa, Giappone, Cina, India, “tigri asiatiche”…)» (1). Questa è però solo una faccia della medaglia, dato che una tale strategia per gli Usa sarebbe vantaggiosa solo nel caso che avessero il pieno controllo dell’intera area, che è ancora di vitale importanza in uno scenario internazionale che obbliga gli Stati Uniti ad affrontare la doppia sfida con la Russia e la Cina, mentre l’egemonia statunitense è messa in discussione perfino nel continente americano, ove la tradizionale politica di Washington basata su golpe, giunte militari, squadroni della morte, torture, assassini e massacri non sembra più “funzionare” come in passato. Insomma, questo significa che la politica di destabilizzazione degli Usa nel Medio e Vicino Oriente non può essere compresa senza tener conto che la prospettiva degli Usa è quella di un attore geopolitico che gioca una partita sulla “grande scacchiera”, non su una scacchiera regionale e che di conseguenza non può coincidere con quella di una potenza regionale, qual è appunto Israele.

Al riguardo, bisognerebbe tener presente quanto dichiarato in una recente intervista da Zbigniew Brzezinski (2), un analista certo seguito dalla Casa Bianca con più attenzione di quella che può riservare alle analisi di Luttwak. Per lo studioso di geopolitica di origine polacca non vi è dubbio che il nemico degli Usa sia la Russia, al di là di ogni considerazione di carattere ideologico, e che invece la Cina non sia necessariamente una minaccia per gli Stati Uniti, che perciò dovrebbero impegnarsi per dar vita, insieme con questa grande potenza asiatica, ad un nuovo sistema internazionale che Brzezinski denomina “G2 plus”, in quanto non esclude il ruolo geopolitico di attori regionali. Si capisce che per Brzezinski l’America dovrebbe invece preoccuparsi di ridurre il più possibile il ruolo della Russia e il “potenziale” geoeconomico e geopolitico dei Brics. In questo senso, l’alleanza strategica con la Cina, che vedrebbe pur sempre gli Usa occupare la “posizione dominante”, non sarebbe un prezzo troppo alto da pagare per Washington. Epperò, è ovvio che sarebbe necessario non solo che Pechino fosse davvero disposta a collaborare con Washington, rinunciando di fatto a formare con gli altri Stati dei Brics un polo geopolitico alternativo rispetto a quello atlantico (il che naturalmente non è affatto facile da ottenere), ma che venissero recisi i legami tra l’Europa e la Russia e che gli Usa acquisissero la totale e definitiva direzione degli affari internazionali in tutta la regione medio-orientale.

Per quanto concerne l’Europa in effetti si deve riconoscere che Washington può contare sul pieno sostegno di potenti “circoli atlantisti”, che agiscono come quinte colonne nei vari Paesi europei, e può pure sfruttare le differenze tra l’Europa settentrionale e quella meridionale, rese sempre più gravi dall’introduzione dell’euro e dalla crisi economica originatasi dallo scoppio nel 2007-08 della bolla finanziaria e pilotata dai “centri egemonici “atlantisti e mondialisti. Inoltre, gli americani hanno dimostrato di sapere sfruttare il nazionalismo e la russofobia della Polonia, dei Paesi Baltici, della Romania e della stessa Ucraina, dove, dopo aver favorito un colpo di Stato per abbattere il legittimo governo di Yanukovich, non hanno nemmeno esitato ad appoggiare in funzione anti-russa squadroni della morte composti da estremisti nazionalisti. Solo la pronta reazione di Putin ha impedito che la bandiera a stelle e strisce sventolasse nel porto di Sebastopoli, anche se nel Donbass si combatte ancora. Ma sebbene la strategia di Washington consista in primo luogo nel tenere sotto scacco l’Europa, alimentando vecchie e nuove tensioni fra gli europei, è naturale che i forti legami commerciali di alcuni Paesi dell’Europa occidentale (in particolare della Germania) con la Russia (dell’importanza dei quali anche Brzezinski è perfettamente consapevole) (3), e gli spettri della Seconda guerra mondiale che ancora si aggirano nel Vecchio Continente non possono non preoccupare proprio la “Vecchia Europa”. Non meraviglia perciò che Hollande e la Merkel si siano recati a Minsk per cercare di mettere fine ai combattimenti nel Donbass. Vero che ancora una volta si è dimostrato che in realtà l’Ue politicamente non esiste. Eppure, è la debolezza stessa dell’Ue che può rappresentare un pericolo per Washington. Una Europa stretta tra la politica di potenza degli Usa e una Russia decisa a difendere la propria sicurezza nazionale e non intimorita dalla minacciosa avanzata verso est della Nato, potrebbe avere l’effetto di moltiplicare le tensioni derivanti dalla crisi economica e innescare un processo di destabilizzazione di cui Washington non avrebbe più il controllo. Ovverosia si potrebbe creare una situazione simile a quella che appunto si sta verificando in Africa settentrionale e nel Vicino e Medio Oriente.

Ragion per cui sia per Brzezinski che per Obama è necessario che gli Usa stabiliscano nella regione medio-orientale un “nuovo ordine geopolitico”, che avvantaggi il più possibile l’America senza scontentare i propri alleati, benché ciò sia più facile a dirsi che a farsi. Infatti, per mettere fine ai conflitti che stanno devastando e insanguinando il Medio e Vicino Oriente e che vedono prevalere gruppi di terroristi islamisti secondo questa concezione strategica occorrerebbe proprio puntare sull’Iran, nonostante la scontata opposizione di Tel Aviv., dato che si ritiene che Israele sia al sicuro con le sue 200 testate atomiche, mentre l’Iran anche se riuscisse a fabbricare qualche ordigno nucleare non sarebbe così folle da “suicidarsi” lanciandolo contro Israele. Sia Brzezinski che Obama però sanno benissimo da chi sono finanziati e armati i gruppi islamisti che hanno aggredito la Siria, alleata dell’Iran, e che gli stessi Usa giocano la carta dell’estremismo islamista, colpendolo con un mano ma aiutandolo con l’altra, come hanno fatto con l’Isis, utile contro il regime sciita di Baghdad e perfino contro Damasco. In quest’ottica, allora è logico che l’accordo con l’Iran voluto da Obama miri innanzi tutto a restituire lo scettro al principe (cioè agli Usa), e coinvolgere questo Paese nella costruzione di un “equilibrio geopolitico” che porti al definitivo isolamento della Russia. Nondimeno, è assai difficile ritenere che Israele e la stessa Arabia Saudita accettino che l’Iran diventi in qualche modo garante di equilibri geostrategici funzionali alla politica statunitense.

Del resto, non pare che Obama possa davvero riservare agli sciiti un ruolo politico di primo piano, considerando il contrasto sempre più acuto tra sunniti e sciiti, come dimostrano le vicende dello Yemen (e si ha addirittura notizia che i sauditi per combattere le milizie sciite yemenite abbiano chiesto armi e soldati al Pakistan, un Paese a maggioranza sunnita che condivide con l’Iran una lunga frontiera) (5). Né sembra che Obama voglia davvero mettere fine alla guerra contro la Siria, tanto che nemmeno la riconquista di Idlib da parte dei miliziani di Al Nusra (ossia di Al Qaeda) appoggiati dalla Turchia, un Paese alleato degli Usa e membro della Nato, ha suscitato indignazione in Occidente, a conferma del fatto che gli Usa si riservano non solo il diritto di stabilire chi di volta in volta deve essere considerato il “nemico dell’Occidente”, ma pure quello di cambiare le regole del gioco ogniqualvolta lo ritengano necessario. Ma se quindi la prospettiva di un “realista” come Brzezinski sembra sconfinare paradossalmente nella “fantageopolitica” ciò dipende pure dal fatto che l’America non è in grado di far fronte a tutte le sfide che deve affrontare in questa fase storica. D’altra parte, se anche la strategia di Obama è fallimentare, non si deve ignorare che i suoi critici, americani o israeliani che siano, praticamente non sanno altro che riproporre la strategia di W. J. Bush.

Al riguardo, può essere indicativo che il Pentagono subito dopo l’annuncio che si era raggiunto un accordo di massima sul nucleare iraniano si sia affrettato a rendere noto che possiede una nuova bomba bunker-buster in grado di distruggere anche gli impianti nucleari iraniani più pesantemente fortificati (6). Ciononostante, è noto che «un rapporto dell’intelligence statunitense, riporta che l’opzione militare contro gli impianti nucleari iraniani non sarebbe comunque risolutiva, al massimo ne ritarderebbe l’attuazione di un paio di anni»(7). Insomma, occorre ribadire che quel che il Pentagono non può fare (posto che non si voglia “vetrificare” l’Iran con un attacco nucleare o scatenare la terza guerra mondiale) è arrestare lo sviluppo non solo dell’Iran, ma anche di Paesi come il Brasile, l’India, la Cina e la Russia. E non solo sotto il profilo economico. Basti pensare che se la Cina nel 2013 ha speso per la difesa 112 miliardi di dollari, la Russia ne ha spesi circa 70 (8). Di questo passo è facile prevedere che tra qualche anno la Russia sarà di nuovo una potenza militare sotto ogni aspetto nonostante che la spesa militare degli Usa sia di gran lunga superiore (quasi 600 miliardi di dollari nel 2013), anche perché i russi (come i cinesi) non mirano, a differenza degli americani, a dominare i mari e gli spazi aerei dell’intero pianeta, né hanno centinaia di basi militari all’estero.

In questo contesto, è logico che nessun autentico equilibrio multipolare è possibile senza coinvolgere la Russia ma limitandosi a cercare di portare l’Iran nel campo occidentale. Gli è che la strategia di Obama come quella “caldeggiata”dai cosiddetti “falchi” (che se possibile sono perfino più ostili alla Russia di quanto lo sia Obama) non può che contribuire ad aumentare i rischi per la sicurezza mondiale, indipendentemente da quali potranno essere le conseguenze dell’accordo di Losanna. Anche senza considerare la questione palestinese o il conflitto tra Israele e Hezbollah, i conflitti nella regione medio-orientale sono ormai troppo forti perché si possa creare di punto in bianco un “ordine geopolitico” che non solo escluda la Russia ma prescinda dal ruolo dell’Arabia Saudita (che nel 2013 ha speso per la difesa circa 60 miliardi dollari, una cifra enorme tenendo conto delle reali necessità di questo Paese e che “la dice lunga” sulla politica e le reali intenzioni di Riad) (9). In effetti, ad un’analisi superficiale potrebbe sembrare che agli Usa converrebbe piuttosto adoperarsi per sfruttare l’alleanza tra Israele e l’Arabia Saudita in chiave anti-sciita, facendo leva al tempo stesso sulle bande di terroristi sunniti che da decenni scorrazzano a destra e a manca tutta l’area mediterranea, senza che nessuno glielo impedisca (benché sia ovvio che i musulmani, sunniti o sciiti che siano, non sono in quanto tali né terroristi né “guerrafondai”, come invece degli insipienti gazzettieri filosionisti vorrebbero far credere, al fine di giustificare una vergognosa e pericolosa islamofobia). Ma una tale politica equivarrebbe a cercare di risolvere dei problemi politici esclusivamente con mezzi militari, non comprendendo che è sempre più difficile far sì che la guerra sia la continuazione della politica con altri mezzi, in quanto è sempre più difficile far convergere obiettivi militari e scopi politici, non fosse altro che per la stessa potenza distruttiva della maggior parte degli attuali mezzi bellici.

Ovviamente, il discorso cambierebbe se vi fosse un ordine mondiale “condiviso” dalle maggiori potenze economiche “e” militari (ossia perlomeno Stati Uniti, Russia e Cina). In tal caso non sarebbe difficile far pressione su delle potenze regionali (la cui politica comunque dipende in gran parte dalle grandi potenze e che, tra l’altro, devono anche affrontare situazioni interne non sempre facili) (10), onde imporre loro una visione geopolitica basata sulla difesa di determinati equilibri mondiali, né spazzar via l’estremismo islamista, che invece sta dilagando perfino in Africa. Né mancherebbero mezzi e risorse per interventi militari chirurgici, rapidi e “risolutivi”. Tuttavia, rebus sic stantibus, anche questa è “fantageopolitica”, giacché è certo che gli Usa non intendano fare nessun “passo indietro”, rinunciando ai loro progetti di egemonia mondiale. E’ probabile dunque che la situazione internazionale nei prossimi mesi diventi ancora più “caotica” o (se si preferisce) ancora più “fluida”, tanto più che i Paesi dell’Europa occidentale si stanno rivelando ancora una volta dei nani politici (Germania e Francia incluse). In ogni caso, anche se è possibile (e auspicabile) che l’Iran sviluppi senza problemi il suo programma nucleare (11), la ferita ancora aperta della guerra in Siria è sufficiente per non indulgere a facili ottimismi. Peraltro, il pessimismo della ragione non esclude che quello che oggi pare impossibile possa invece avverarsi perfino in un futuro prossimo, anche perché, a ben vedere, sebbene ancora “imperfetto”, il multipolarismo è già una realtà, Washington volente o nolente.

Fabio Falchi

1. Gianandrea Gaiani, “Meglio potercela cavare da soli, almeno nel ‘giardino di casa’”, “Analisi Difesa”, 4 aprile 2015 (http://www.analisidifesa.it/2015/04/meglio-potercela-cavare-da-soli-almeno-nel-giardino-di-casa/).

2. Vedi “A Time of Unprecedented Instability?” (http: // www. Foreign policy. com/articles /2014/07/21/a_time_of_unprecedented_instability_a_conversation_with_zbigniew_brzezinski%20).

3. Vedi Zbigniew Brzezinski, “Strategic Vision. America and the Crisis of Global Power”, Basic Books, New York, 2013.

4. Del ruolo che attualmente sta svolgendo Londra non merita nemmeno parlare, sia perché da decenni è del tutto subalterno alla politica della Casa Bianca, sia perché il bulldog inglese oltre ad abbaiare ben poco può fare, anche se l’Inghilterra si illude di essere ancora una potenza marittima.

5. Vedi http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Yemen-Pakistan-Riad-ci-ha-chiesto-caccia-navi-e-soldati-90a769bc-439b-4844-8b73-3a1f9b7832fe.html?refresh_ce.

6. Julian E. Barnes, Adam Entous, “Pentagon Upgraded Biggest ‘Bunker Buster’ Bomb as Iran Talks Unfolded”. The Wall Street Journal, 3 aprile 2015.

7. Giovanni Caprara, “Il Pentagono ha eseguito il test della bunker-buster anti-Iran” (http://www.conflittiestrategie.it/il-pentagono-ha-eseguito-il-test-della-bunker-buster-anti-iran-di-g-caprara).

8. “The Military Balance 2014”, p. 230 e p. 180.

9. Ivi, p. 341.

10. A questo proposito, è interessante notare come la politica di potenza regionale della Turchia di Erdogan si sia già imbattuta nei propri limiti, per le crescenti difficoltà sul piano della politica interna.

11. S badi comunque che secondo vari “esperti”, tra cui il noto analista militare israeliano Martin van Creveld, se l’Iran dovesse disporre di qualche ordigno militare, ciò rafforzerebbe la stabilità e la sicurezza dell’intera regione. Si tratta di un’opinione condivisa pure da Brzezinski, secondo cui «a nuclear-armed Israel and a nuclear-armed Iran [are]a source of stability in the region» (“A Time of Unprecedented Instability?”, cit.).