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Il populismo avrà un futuro roseo grazie a politici incapaci e corrotti

di Marco Tarchi - Manlio Triggiani - 19/05/2015

Fonte: Barbadillo


TarchiIl populismo è al centro del dibattito culturale e politico da alcuni anni e, con il passar del tempo, nascono e si sviluppano in tutta Europa movimenti populisti. La scena politica italiana è particolarmente attraversata da queste realtà, dalla Lega a Grillo, da Di Pietro ad altre espressioni. Uno di massimi studiosi del populismo è Marco Tarchi, professore ordinario di Scienza della politica all’Università di Firenze. Dirige due riviste, Trasgressioni e Diorama Letterario e, dagli anni Settanta agli anni Novanta, ha animato il movimento culturale battezzato dalla stampa “Nuova Destra”, che si richiamava, pur con sfumature differenti e caratteristiche proprie, alla Nouvelle Droite francese, diretta da Alain de Benoist. Da oltre vent’anni Tarchi segue scientificamente la dinamica politica del populismo e, nel 2003, dedicò al fenomeno un libro edito dal Mulino. Nelle settimane scorse, sempre per il Mulino, è stata edita una nuova versione del volume, Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo (pagg. 379, euro 20,00), più che raddoppiata e riscritta da Tarchi.

Da Peron a Le Pen, da Castro alla Thatcher, da Giannini a Bossi a Grillo, personaggi politici molto diversi fra loro hanno in comune la matrice populista. Professor Tarchi, può spiegarci cosa è il populismo? È più un atteggiamento politico, che può trovarsi a destra come a sinistra, o un sostrato ideologico?

Chi parla di atteggiamento, di solito pensa che il populismo si riduca a uno stile argomentativo, a un modo di porsi e di proporsi. A mio parere, si tratta di qualcosa di più; non però, come qualcuno ritiene, di un’ideologia, perché manca di sistematicità, non ha formulazioni racchiuse in testi sacri né interpreti ufficiali incaricati di divulgare il Verbo. Nel mio libro lo definisco come una mentalità, un modo di pensare più emotivo che razionale, una predisposizione psichica che induce a reazioni non codificate, un’entità fluttuante, che tuttavia poggia su un fondo comune. Questo fondo è la convinzione che il popolo – il proprio popolo, beninteso – sia, in origine, una totalità organica che è stata artificiosamente divisa da forze ostile. A questo popolo i populisti attribuiscono naturali qualità etiche, come il realismo, la laboriosità, l’integrità, che contrappongono all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione che a loro avviso caratterizzano le oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali, e ne rivendicano il primato, quale fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione. Il che li fa spesso accusare di essere portatori di una visione antipolitica.

Come nasce il populismo in Italia e perché continua ad avere successo?

C’è chi ne riscontra le radici in alcuni filoni di pensiero risorgimentali, facendo riferimento al Mazzini del binomio “Dio e popolo” o a Pisacane. Di sicuro, il fascismo ha coltivato anche un filone populista, sia nella retorica che nella prassi, pur innestandolo in un quadro statalista e aggressivamente nazionalista che al populismo è estraneo. Ma il motivo per cui, dal 1945 ad oggi, questa mentalità ha avuto buona salute è la cattiva prova che la classe dirigente ha dato di sé: nel fossato che si è creato fra “quelli che stanno in alto” e paiono interessarsi solo dei propri interessi e “quelli che stanno in basso”, gli uomini qualunque, il populismo non poteva che prosperare.

Nella politica italiana il richiamo espresso alla “società civile” o “ai tecnici” solitamente rappresenta, implicitamente, una garanzia di serietà, genuinità, di vera rappresentanza dal basso. Rientra fra i richiami populisti?

La mitizzazione delle presunte virtù della società civile ha certamente favorito la crescita del populismo, soprattutto durante e dopo Tangentopoli, quando aver avuto una carriera di politico professionale era ritenuto da molti un peccato mortale. Dei tecnici, invece, in genere i populisti diffidano: li considerano spocchiosi, fumosi, freddi.

Quali sono le differenze fra il populismo espresso da Berlusconi, da Di Pietro e da Renzi?

Per rispondere esaurientemente, dovrei riassumere due capitoli del mio libro. Mi limito a distinguere chi il populismo lo impiega solo sul piano lessicale, per fare concorrenza ai populisti veri (Renzi), chi ne fa un uso strategico e in parte vi è coinvolto anche sul piano della personalità (Berlusconi) e chi ce lo ha nel sangue, in forme ruspanti (Di Pietro).

Il populismo viene considerato come un richiamo alla democrazia partecipativa. Poi, però, come nel caso del Movimento 5 Stelle, lasca margini ristretti di libertà e di democrazia interne, con epurazioni e espulsioni. E’ una contraddizione esplicita o una logica tutta interna di Grillo?

È una contraddizione costitutiva di questa mentalità. I populisti vorrebbero veder restituire al popolo lo spettro del comando che gli è stato sottratto, ma per avere voce collettiva prediligono eleggere a ventriloquo del popolo un capo che non si dia arie di superiorità ma dimostri di avere le giuste doti ordinarie in misura straordinaria, e gli si affidano ciecamente. Che questo provochi nei “quadri intermedi” di un movimento scissioni e incomprensioni è la regola, non l’eccezione: è accaduto al peronismo, al Front national, al Partito del progresso danese, alla Fpö di Haider, a Chavez, alla Lega…

Fino a che punto la piazza, soprattutto alla luce della diffusione dei movimenti populisti e identitari in tutta Europa, può sostituirsi ai partiti tradizionali e proporre qualcosa di innovativo?

La piazza, di per sé, non può sostituirsi ai partiti. Può promuovere, però, movimenti che raccolgono la protesta verso la politica ufficiale e la rendano evidente, le diano voce. Va detto però che i movimenti genuinamente populisti non hanno una grande capacità di mobilitazione (fatto salvo il momento elettorale), perché il loro seguace-tipo vuole soprattutto essere lasciato in pace a vivere la propria vita. Siamo più vicini alla maggioranza silenziosa che alle minoranze rumorose, che invece non perdono occasione di scendere in piazza.

Lei studia da più di vent’anni il fenomeno del populismo e ha dedicato ben quattro numeri della rivista che dirige, Trasgressioni, a questo fenomeno, un libro nel 2003 e la sua versione completamente rivista e ampliata appena uscita dal Mulino. Quale sarà il futuro del populismo?

Se i comportamenti dei politici di professione continueranno ad essere quelli che conosciamo – cioè, se continueranno a dare dimostrazione di corruzione, di inefficienza e di incapacità di mantenere le promesse che, seguendo la logica del marketing, continuamente fanno –, il futuro del populismo sarà roseo. E, soprattutto, il fenomeno allargherà sempre di più l’arco delle sue manifestazioni, trovando referenti non più e non solo in un’area adiacente alla destra, come è stato in passato, ma anche a sinistra. I casi del Front de gauche in Francia, e in certa misura di Podemos in Spagna e di Syriza in Grecia, ne sono evidenti indicatori. Il populismo, è stato scritto, è camaleontico: non si fa problemi in merito al colore dei contesti che ne consentono lo sviluppo. (Da il Borghese, maggio 2015)