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L'altra agricoltura

di Riccardo Bocci - 14/11/2005

Fonte: peacereporter.net


Quando la tecnologia cancella la variabilità genetica. 
   
 Le guerre del cibo. È questo il provocatorio titolo di un libro uscito nel 2004 in Inghilterra volto a indagare il mondo agricolo di oggi (Tim Lang, Michael Heasman. Food Wars: The Battle for Mouths, Minds and Markets. Earthscan Publications Ltd, 2004) . Secondo gli autori stiamo vivendo una fase molto delicata: è caduto il mito riduzionista-produttivista la cui parola d'ordine era aumentare le quantità facendo un uso crescente di input esterni (pesticidi, insetticidi, concimi, acqua e così via), che ha dominato il pensiero agronomico dal dopo guerra ad oggi. Le nostre società si trovano davanti ad un bivio. da un lato l’opzione definita il paradigma delle scienze della vita, riconducibile alle biotecnologie o meglio all’ingegneria genetica e al modello agroindustriale; dall’altro l’opzione agroecologica, che considera il campo coltivato come un sistema complesso dove interagiscono molteplici fattori (agronomici, economici, sociali e culturali).


Scelte da conoscere. Se pensiamo che circa il 50 percento della popolazione mondiale vive ancora dell’attività agricola, ci rendiamo conto che optare per un modello o per l’altro non è una scelta da poco. Nel dibattito le argomentazioni utilizzate a favore dell’una o dell’altra parte sono spesso fuorvianti. Infatti, la prima scelta non è per forza sinonimo di progresso (e con esso di ricerca e tecnologia), così come la seconda non presuppone nessun ritorno né al passato né a una presunta naturalità (non dimentichiamoci che per quanti sforzi faccia la pubblicità di convincerci del contrario utilizzando a piene mani l’aggettivo “naturale”, l’agricoltura è e rimane un’attività dell’uomo). Sarebbe più corretto dire che le due tesi sono portatrici di modelli, paradigmi teorici e interessi molto diversi. Se le biotecnologie si configurano come la nuova rivoluzione verde, cercando di rinverdire il mito del riduzionismo con le nuove possibilità offerte dalla biologia molecolare, dall’altro l’agroecologia cerca di mettere a frutto l’esperienza acquisita in questi anni per rendere i sistemi agricoli più sostenibili senza l’uso di input esterni. Ma esistono realmente queste alternative? Non hanno ragione coloro i quali affermano che l’agricoltura biologica o l’agroecologia è una “cosa” da europei ricchi, non adatta a chi ora sta morendo di fame? Che dobbiamo aumentare la produzione e quindi non possiamo permetterci ragionamenti da “anime belle”? L’errore di queste affermazioni sta nell’applicare la solita ricetta a contesti differenti, nel non valorizzare le risorse locali, nel considerare scienza e, quindi, progresso solo una visione del mondo, dimenticando che ne esistono altre.

La campagna in Etiopia. Un caso esemplare di questo perverso meccanismo chiamato sviluppo, rivenduto in maniera dozzinale nei paesi del Sud del mondo, si può avere analizzando cosa è successo in Etiopia negli ultimi anni. Dopo la dittatura comunista, il Paese si è aperto al mondo ed è stato oggetto di una campagna agricola statale con il più classico dei pacchetti tecnologici: per aumentare le produzioni bisogna utilizzare le sementi migliorate, fornire gli agricoltori di fertilizzanti per farle produrre e, infine, dare un credito iniziale agli agricoltori per comprare il necessario. La rivoluzione verde che non aveva ancora toccato il Paese doveva arrivare in Etiopia per risollevare il paese dalla carestia. Ovviamente nessuno si è preoccupato da dove quei semi provenivano, o, meglio ancora, se esistevano nel Paese varietà altrettanto valide: gran parte dell’agrobiodiversità etiope è stata cancellata con un semplice programma statale di assistenza tecnica. Eppure, già nel 1966, il noto genetista J.R. Harlan (Ethiopia: center of diversity. Economici Botany) aveva messo in guardia l’umanità sull’importanza dell’Etiopia: “Il centro etiope è una fonte di variabilità genetica che non possiamo permetterci di ignorare" diceva. "Qui è sopravvissuto un intero sistema agricolo con pochi cambiamenti dai tempi preistorici: è come se avessimo riscoperto un mondo scomparso attraverso la macchina del tempo. Da qui possiamo imparare cose che la storia non ci ha detto sull’evoluzione dei sistemi agricoli occidentali. Altri centri di diversità con caratteristiche analoghe sono stati distrutti con l’arrivo delle varietà prodotte dal moderno miglioramento genetico. In altri casi la spinta al cambiamento è stata la moderna tecnologia. I pochi centri che ancora conservano le proprie caratteristiche originali non appartengono ai sistemi agricoli occidentali. Questa è l’ultima possibilità per studiare le nostre stesse origini e il tempo sta correndo velocemente. In pochi anni questa opportunità l’avremo persa per sempre”. Purtroppo questo appello è rimasto inascoltato.