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Fedeltà: a chi, a che cosa?

di Francesco Lamendola - 25/11/2018

Fedeltà: a chi, a che cosa?

Fonte: Accademia nuova Italia

La fedeltà è, senza dubbio, una delle più belle qualità dell’animo umano, nonché una delle più simpatiche. Ve ne sono altre che suscitano ammirazione, ma un po’ spaventano per la loro severità; questa no: questa piace a tutti, perché a tutti sorride l’idea che, nelle circostanze avverse, qualcuno ci resterà fedele, ci resterà amico, continuerà a starci accanto, anche se tutti gli altri ci dovessero abbandonare. E una tale idea è consolante, specie nelle condizioni caratteristiche della società moderna, dove si ha l’impressione che la filosofia dominante sia quella dell’utile personale, e che, quindi, la fedeltà sia una merce poco frequente, perché tutti pensano alla propria convenienza e ciascuno è abituato a contare solo su se stesso e a non farsi troppe illusioni riguardo alla costanza degli altri nei suoi confronti, nonostante le molte promesse del tempo felice. D’altra parte, è proprio la mentalità moderna che ha sferrato la sua offensiva contro il sentimento della fedeltà, e proprio là dove, un tempo, era considerato più necessario, per non dire indispensabile: nell’ambito della famiglia. Da sempre e in tutte le culture la fedeltà coniugale è stata considerata come un requisito irrinunciabile per il buon andamento della vita di coppia e per la sopravvivenza stessa della famiglia: niente fedeltà, pericolo gravissimo per la stabilità e per la stessa esistenza del legame familiare. Di fatto, anche le società antiche tolleravano il divorzio in un caso soltanto: l’infedeltà coniugale. Qualcuna lo prevedeva anche nel caso della mancanza di figli, ma si trattava di casi più rari e, di solito, di possibilità giuridiche e religiose che non venivano sfruttate da chi ne aveva la possibilità: era ben raro, infatti, anche nel mondo greco e romano, che un uomo divorziasse dalla propria moglie solo perché questa non poteva dargli dei figli. Tuttavia, proprio la fedeltà coniugale si pone, nella prospettiva della società moderna, come un grosso ostacolo verso la realizzazione di uno dei “diritti” fondamentali da essa predicati: quello di fare tutto quel che piace all’individuo, purché non violi apertamente le leggi. A partire da quel momento, cioè dal XIX secolo, gli sforzi dei progressisti e dei liberali si sono concentrati verso l’introduzione giuridica del divorzio e, contemporaneamente, verso una tacita accettazione dell’infedeltà coniugale, proprio per evitare che il tradimento divenisse causa di separazione legale fra i coniugi. Tale è stata la ”saggezza” che il secolo libertino, il XVIII, aveva insegnato agli uomini e alle donne europei: a convivere con i tradimenti del rispettivo coniuge ed eventualmente a fare altrettanto, senza bisogno che ciò conducesse alla rottura del vincolo coniugale, almeno dal punto di vista formale. Pragmatico e ipocrita, il secolo XIX, educato da tali maestri, ha appreso l’arte di tradire il marito o la moglie senza portare le cose all’estremo. Ma non bastava ancora: non era sufficiente poter infrangere la promessa di fedeltà formulata all’atto delle nozze, bisognava anche eliminare ogni possibile residuo del senso di colpa: ci voleva per forza una svolta antropologica, un nuovo modo di pensare, affinché, con o senza divorzio, le persone si abituassero a considerare “normale” il tradimento coniugale e non soltanto lo derubricassero dal codice penale, ma anche dalla lista dei peccati. Il che è puntualmente avvenuto, con il silenzioso abbandono della pratica di sposarsi e con la sostituzione del matrimonio con la semplice convivenza: semplice per modo di dire, giacché, essendo stata legalmente riconosciuta, essa si è posta, e si pone, come l’equivalente del “vecchio” matrimonio e quindi, negli anni futuri, finirà per soppiantarlo completamente.  Ora, se non ci si sposa più, che problema c’è a non essere fedeli? Nel caso delle coppie gay riconosciute con la legge Cirinnà, il legislatore ha fatto in modo di espungere proprio la clausola della fedeltà dalle condizioni sulle quali si basa il patto della convivenza: più chiaro di così…

Dunque, la fedeltà piace quando è quella degli altri verso di noi; un po’ meno quando è quella che noi dovremmo osservare nei loro confronti. Ci piace che l’altro ci sia fedele, ma ci secca l’idea che noi restiamo vincolati a lui (o lei) da una promessa, e soprattutto che ci si aspetti da noi l’osservanza di tale promessa. Promettere, infatti, non costa nulla; mantenere la promessa, invece, è una faccenda che a volte risulta scomoda, e la cultura moderna ha una vera allergia nei confronti di tutto ciò che è scomodo e di tutto ciò che reca disturbo, disagio, fatica, sacrificio, o semplicemente che costringe ad attendere e a rimandare quel che si vorrebbe avere subito. La fedeltà, quindi, è uno dei valori messi in crisi al tumultuoso avanzare della modernità, perché essa implica a sua volta un altro valore oggi assai negletto, quello dell’onore, che appare come un tipico valore d’altri tempi, sorpassato e inattuale. Per essere fedeli a qualcuno o a qualcosa, bisogna amare quel qualcuno e quel qualcosa, e inoltre bisognava possedere il senso dell’onore, altrimenti la fedeltà si riduce a una promessa insincera, una formalità priva di qualsiasi efficacia. Per noi, che apparteniamo alla generazione che s’impegnava, mediante promesse, a essere fedele a qualcuno e a qualcosa, non è facile osservare con indifferenza il tramonto di questi punti di riferimento; e riteniamo che esso sia un male in senso oggettivo, ciò che non porterà il bene, ma il male del corpo sociale, per le generazioni future. Quelli della nostra generazione, per esempio, giuravano fedeltà alla bandiera e alla patria: nel nostro caso, membri delle truppe alpine, il senso di fedeltà e di onore era particolarmente spiccato e sentito, o almeno così sembrava. È strano pensare che quel giuramento non venga più chiesto ai cittadini, se non ai pochi che scelgono, come professione, la carriera militare. La fedeltà veniva anche chiesta all’atto del matrimonio, nei confronti della sposa o dello sposo, e implicava costanza, devozione, lealtà, nella buona e nella cattiva sorte, e specialmente nel delicato compito dell’educazione dei figli.

Ci sia permesso di procedere con un esempio storico. Nel 1859 il Ducato di Modena e Reggio cessava di esistere: scosso dai moti liberali e invaso dalle truppe piemontesi, veniva annesso al Regno di Sardegna. Il suo ultimo sovrano, Francesco V di Asburgo-Este, e sua moglie Adelgonda di Baviera, dovettero andarsene in esilio, l’11 giugno, e si ritirarono dapprima a Mantova, indi nel loro castello del Catajo, sui Colli Euganei, nel Veneto che (per pochi anni ancora) era rimasto austriaco. In quella circostanza l’intero esercito del piccolo ducato, ribattezzato Brigata Estense, formato da 3.600 uomini, scelse di seguire il suo sovrano nell’esilio e partì, con le armi, i cavalli e le bandiere, per poi ingrossarsi fino a 5.000 uomini, nella speranza di poter tornare o di rendersi utile con qualche nobile impresa, come la difesa del potere temporale del papa, progetto vanificato dalla Spedizione dei Mille e dal blocco marittimo piemontese al porto d Ancona, che impedì il suo trasferimento via mare negli Stati della Chiesa. Alla fine, nel 1863, giunse dall’Austria l’ordine di sciogliere la brigata. Il duca radunò per l’ultima volta le sue truppe a Cartigliano, presso Bassano del Grappa, il 24 settembre di quell’anno, tenne loro un discorso d’addio e li sciolse dal giuramento; indi consegnò a ciascuno di essi la cosiddetta medaglia dell’emigrazione, una medaglia in bronzo che recava la sua effigie sul recto e, sul verso, la scritta: FIDELITATI ET CONSTANTIAE  IN ADVERSIS MDCCCLXIII. Quel pomeriggio il comandante del piccolo esercito, Agostino Saccozzi, insieme a un gruppo di ufficiali e soldati, si recò nella dimora dell’ex sovrano e gli riconsegnò le bandiere, con l’ottimistico augurio di poterle, un giorno, nuovamente spiegare. Infine, una parte della brigata fu congedata, una parte venne integrata nei ranghi dell’esercito austriaco. Ora ci permettiamo di domandare: cosa c’era di sbagliato, in quell’esempio di fedeltà di un minuscolo esercito che preferisce l’esilio al disonore di tradire il giuramento e di passare al “nemico”? Perché il nemico, in quel caso, era l’Italia. Era forse un traditore, un anti-patriota, Agostino Saccozzi (che morì due anni dopo, probabilmente di crepacuore); e furono dei traditori e dei cattivi italiani, i suoi ufficiali e i suoi soldati? Questa è la storia con la quale dobbiamo fare i conti, meglio tardi che mai: la storia che non ci hanno mai raccontato; la storia di quegli italiani che preferirono l‘Austria (o i Borboni, o il Papa, ecc.) e che al giuramento di fedeltà sacrificarono tutto, la terra natale, la carriera, la sicurezza, il futuro. I libri di storia, e specialmente i testi scolastici, non li ricordano neppure; o, se per caso lo fanno, è solo per stigmatizzare il loro anti-patriottismo. Atteggiamento antistorico e ideologicamente fazioso: a quel tempo si confrontavano due ideali di fedeltà, quello nazionale e quello dinastico: recentissimo il primo, antichissimo il secondo. La democrazia non si era affermata, non era ancora il vangelo obbligatorio della cultura moderna: i sudditi delle monarchie giuravamo fedeltà al sovrano, non alla “sovranità popolare”, sovente calcolata a spanne. Anche i nostri padri, la generazioni di quanti nacquero intorno al 1920, entrando nell’esercito avevano giurato fedeltà al sovrano, cioè a Vittorio Emanuele III di Savoia. Il quale ricambiò quel giuramento di fedeltà nel modo che sappiamo, l’8 e il 9 settembre 1943: piantandoli in asso, senza ordini, senza istruzioni, e mettendosi in salvo, mentre li abbandonava alla cattura e alla prigionia. Qui si vede la differenza fra casa Savoia e casa Asburgo. Francesco V non abbandonò i suoi soldati; Vittorio Emanuele III lo fece. Nostro padre, molti anni dopo la fine della guerra, tornò in Iugoslavia a recuperare la sua sciabola di ufficiale, che la sua vecchia padrona di casa gli aveva amorevolmente custodito, con non lieve rischio personale, per tutto quel tempo. Ora essa è là, in un angolo della casa paterna, malinconico ricordo di una promessa di fedeltà che fu mantenuta da una parte sola: dalla parte di quelli che giurarono, ma non da parte di colui al quale il giuramento venne fatto. Di quelle vicende nostro padre parlava poco, e forse poco volentieri; tenne sempre nel suo cuore i sentimenti che suscitò in lui, ex militare di carriera, quel giuramento non rispettato da parte del sovrano.

Poniamo perciò la domanda: la fedeltà è sempre un valore? Coloro i quali lo negano, forse per scusare la sostanziale infedeltà della cultura moderna verso qualunque impegno, giuramento o promessa, sogliono tirar fuori l’esempio “scandaloso” delle SS che difesero Berlino sino all’ultimo respiro, nell’aprile del 1945, e si sacrificarono per proteggere la Cancelleria e il loro amato Führer. Ora, a parte il fatto che per sentire l’esigenza morale di combattere sino all’ultimo per difendere la propria capitale, non occorreva essere dei nazisti e tanto meno delle SS, ma semplicemente dei cittadini amanti della patria e dei militari fedeli al giuramento di obbedienza, consci di quel che significavano la sconfitta e l’occupazione nemica, non abbiamo esitazioni nel rispondere che la fedeltà è sempre un valore, specie se pagata di persona a caro prezzo, anche se talvolta può essere malriposta, cioè diretto verso un oggetto “sbagliato”. Ma questo succede anche con altri sentimenti positivi, a cominciare dall’amore. Si può amare la persona sbagliata: e tuttavia, chi negherà la grandezza morale di colui, o colei, che si sacrifica per la persona amata? Allo stesso modo, si può deplorare che degli uomini, dei soldati, abbiano riservato la loro fedeltà ad un capo come Hitler; ma non si può negare ammirazione a chi, fedele al giuramento, ha preferito il sacrificio alla diserzione o addirittura al tradimento. Non occorre essere nazisti per pensarla così: basta essere persone con il senso dell’onore. I tedeschi ebbero questi sentimenti anche dopo la resa del 1945 e sotto il tallone di una quadruplice, durissima occupazione straniera. Per questo motivo non insultarono mai la memoria dei capi nazisti, se pure riconobbero che alcuni di essi si erano macchiati di crimini; al contrario, non mostrarono alcuna simpatia per la loro ex connazionale Marlene Dietrich, la quale, vestita dell’uniforme di un esercito nemico, tornò in Germania sulla scia degli invasori e si prodigò per allietarli – gli invasori, non i suoi ex compatrioti - coi suoi spettacoli, atteggiandosi quasi a “buona tedesca” in nome del suo antinazismo. I buoni cittadini si vedono al momento della sventura della patria, così come i veri innamorati si vedono al momento in cui la persona amata subisce una menomazione, o perde il suo patrimonio, o incorre in qualche altra grave disgrazia. Un popolo fiero non può che disprezzare i suoi figli che se la fanno col nemico nel momento della catastrofe nazionale; così come un uomo o una donna fieri non possono che disprezzare un amante che sparisce nel momento della sventura e corre a consolarsi fra le braccia di qualcun altro. E la fierezza, come la fedeltà, è una virtù, non un difetto: ce ne fosse un po’ di più, nel mondo moderno. Ma per essere fieri, bisogna avere una retta coscienza e un forte senso dell’onore: rispetto di se stessi e rispetto degli altri. La persona fiera è severa con se stessa, prima ancora di esserlo con il prossimo. Re Vittorio Emanuele III non aveva fierezza, né dignità: altrimenti non sarebbe scappato a quel modo, all’alba del 9 settembre 1943, lasciando nelle peste un intero esercito che aveva giurato fedeltà verso di lui. Il duca di Modena Francesco V, invece, nel suo minuscolo stato, ebbe sia fierezza che dignità: non si abbassò, non si umiliò, non ricorse a sotterfugi; e quando il trono fu perduto, sciolse per prima cosa i suoi soldati dal giuramento di fedeltà. A queste condizioni, anche la sconfitta può diventare accettabile. Alcuni soldati giapponesi, ignari della resa della loro patria nell’agosto del 1945, rimasero nella giungla di certe isole del Pacifico e rifiutarono di arrendersi; per convincerli, i loro vecchi ufficiali dovettero andare a cercarli e persuaderli uno ad uno. L’ultimo di essi, Teruo Nakamuro, non si arrese che nel 1974: trent’anni dopo che la guerra era finita. Ecco:  questa è fedeltà, ed è cosa sommamente onorevole. Indipendentemente dall’oggetto a cui è rivolta...