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Il trattato di pace russo-giapponese è possibile

di M. K. Bhadrakumar - 20/11/2018

Il trattato di pace russo-giapponese è possibile

Fonte: Aurora sito

Un nuovo modello si forma nella geopolitica dell’Asia-Pacifico: la concordia russo-giapponese. Le due potenze dalla storia travagliata vanno verso la conclusione di un trattato di pace che potrebbe ufficialmente porre fine alle ostilità della Seconda guerra mondiale e aprire una nuova pagina nelle loro relazioni. I negoziati sono gestiti al vertice e pertanto ogni singolo incontro tra il Presidente Vladimir Putin e il Primo ministro Shinzo Abe ha grande importanza. Entrambi sono noti ardenti sostenitori di una solida partnership tra i loro Paesi. La conclusione di un trattato di pace è il prerequisito per avviare la relazione realizzando il pieno potenziale. Ma entrambe le nazioni cavalcano l’onda del nazionalismo e quando si tratta di concessioni territoriali, i sentimenti volano. Abe tenta anche il destino sperando di raccogliere l’eredità storica restituita dalla Russia, i territori che l’ex-Unione Sovietica occupò alla fine della Seconda Guerra Mondiale quando il Giappone era sconfitto. Putin sa che un atteggiamento ostile sulle isole Curili è inaccettabile per qualsiasi leader giapponese. D’altra parte, non può nemmeno ignorare l’opinione pubblica russa contraria a concessioni territoriali. Inoltre, ciò che complica le cose è che il Giappone è l’alleato numero uno degli Stati Uniti nel Nord-Est asiatico e la Russia è preoccupata che qualsiasi formula nel risolvere la disputa territoriale, che dovrà basarsi sulla dichiarazione congiunta di Giappone e Unione Sovietica del 1956 (ristabilendo le relazioni diplomatiche e decidendo la restituzione di due isole delle Curili, Habomai e Shikotan, dopo la conclusione del trattato di pace) che porterebbe la presenza militare statunitense in una regione in cui la Russia ha molte basi importanti.
A settembre, Putin fece l’offerta romanzesca di firmare un trattato di pace incondizionatamente entro la fine del 2018, ma Abe lo trovava inaccettabile. Detto questo, Abe riconosceva che Putin mostrava il desiderio di un trattato di pace. Quando s’incontravano il 14 novembre, Abe propose che il Giappone non avrebbe permesso basi militari statunitensi sulle due isole al largo di Hokkaido, anche se la Russia le restituisse sulla base della dichiarazione del 1956. (Apparentemente, Abe spera di dissipare la preoccupazione russa sulla possibile presenza di basi statunitensi sulle isole Habomai e Shikotan). Il portavoce del Cremlino rifiutava di commentare, ma in nodo sfumato chiariva che “confermare gli obblighi dell’alleanza di Tokyo cogli Stati Uniti sono importanti nei colloqui sul trattato di pace”. È difficile dire se la diplomazia di Putin-Ab sia anche un tango inscenato dai due statisti interessati ad accelerare sul trattato di pace, ma che devono anche negoziare per salvaguardare gli interessi nazionali così come anche avere il sostegno del pubblico nazionale. È del tutto ipotizzabile che i due statisti possano persino aver impostato una linea temporale. In effetti, Putin e Abe s’incontreranno di nuovo in Argentina al G20 di fine novembre. TASS riferiva che Abe visiterà la Russia a gennaio. La diplomazia accelerata potrebbe avere a che fare con la visita proposta da Putin in Giappone a giugno per ilG20 ad Osaka. Non sorprenderebbe se Abe spera che Putin compia una visita di Stato a giugno.
Ovviamente, le relazioni russo-giapponesi si approfondiscono e ciò che sembrava una disputa territoriale impossibile può prestarsi alla risoluzione. Una possibilità potrebbe essere che il Giappone riprenda la sovranità sulle isole Habomai e su Shikotan, trasformandole in zone economiche speciali. Chiaramente, gli Stati Uniti sono l’elefante nella stanza. Nell’ambito del Trattato di Sicurezza Giappone-USA, le truppe statunitensi in Giappone possono essere di stanza su Habomai e Shikotan se vengono consegnate al Giappone. Pertanto, la proposta di Abe (che una cosa del genere non accadrà) implica anche la volontà di mantenere una distanza diplomatica dagli Stati Uniti. In effetti, non poteva sfuggire all’attenzione di Putin la tendenza politica incipiente di Abe che ultimamente suggerisce un certo “distacco” dagli Stati Uniti, come evidenziate, ad esempio, dalle mosse di Abe per migliorare le relazioni con la Cina, liberandosi dal deterioramento delle relazioni sino-nordamericane. Il fatto è che il Giappone è sempre più incerto sulle intenzioni degli Stati Uniti. Detto questo, il Giappone dipende ancora dal Trattato di sicurezza con gli Stati Uniti, cogli Stati Uniti che interferirebbero sulla conclusione del Trattato di pace Giappone-Russia, date le implicazioni a lungo termine che avrebbe sulla presenza militare statunitense nel Nordest asiatico. D’altra parte, un trattato di pace trasformerebbe completamente le relazioni russo-giapponesi, che influenzerebbero il triangolo Russia-Giappone-Cina. Di certo, una partnership corposa con la Russia amplierà enormemente lo spazio strategico del Giappone ricalibrando le relazioni con Stati Uniti e Cina. Tutti i segnali indicano che Abe lavora a un grande piano. Per cominciare, deve fare i conti con l’opinione interna. La rielezione di Abe a capo del Partito Liberal Democratico a settembre (coll’82% di supporto) l’ha fatto diventare il primo ministro più longevo del Giappone, perseguendo la sua visione del Giappone nei prossimi tre anni al potere (in ciò che sarebbe il suo ultimo mandato), oltre a concentrarsi sull’eredità da lasciare. Leggasi un bel articolo della studiosa giapponese Tomohiko Satake dell’Istituto Nazionale di Studi sulla Difesa, Tokyo: Il Giappone continuerà a sostenere l’ordine internazionale guidato dagli Stati Uniti?

Il Giappone dovrebbe continuare a sostenere l’ordine internazionale guidato dagli Stati Uniti?
Tomohiko Satake, East Asia Forum Quarterly, 2 ottobre 2018

Dalla fine della Seconda guerra mondiale, la politica di difesa e sicurezza del Giappone è sempre stata costruita attorno a una sola premessa, l’ordine internazionale basato sul primato degli Stati Uniti. Il primo ministro del dopoguerra Shigeru Yoshida decise che il Giappone sarebbe diventato membro della comunità occidentale concludendo il trattato di pace di San Francisco e il trattato di sicurezza USA-Giappone del settembre 1951. Queste decisioni permisero al Giappone non solo di godere dell’ombrello di sicurezza degli Stati Uniti, ma diede l’accesso al mercato e alla tecnologia degli Stati Uniti, indispensabili per la ripresa e lo sviluppo economico giapponese. Nel frattempo, il ruolo della sicurezza del Giappone nel contesto della rivalità est-ovest era limitato al mantenimento delle forze di difesa al livello “minimo necessario”, mentre ospitava le truppe statunitensi sul proprio territorio. La fine della Guerra Fredda e il miracolo economico del Giappone dimostrarono che la decisione di Yoshida era fondamentalmente corretta. Il Giappone fu un vincitore della guerra fredda con costi relativamente bassi. Col crollo dell’Unione Sovietica, sembrava che la democrazia liberale fosse diventata valore universale. Allo stesso tempo, il Giappone fu invitato a contribuire al mantenimento dell’ordine internazionale liberale guidato dagli Stati Uniti al livello commisurato al suo potere economico. Questo è il motivo per cui, già negli anni ’90, il Giappone iniziò ad inviare le proprie forze di autodifesa (SDF) all’estero per operazioni internazionali di mantenimento della pace o per le calamità, creando istituzioni multilaterali e promuovendo democrazia e diritti umani con misure diplomatiche ed economiche. Il Giappone aveva anche concordato cogli Stati Uniti l’uso dell’alleanza USA-Giappone non solo per proteggere il Giappone, ma anche per contribuire alla costruzione di ordini regionali e globali sulla base dei loro valori e interessi condivisi. Questo ampio obiettivo strategico dell’alleanza USA – Giappone entrò in gioco durante la guerra al terrore guidata dagli Stati Uniti, in cui il Giappone inviava le SDF nell’Oceano Indiano e in Iraq per la ricostruzione. Il Giappone fornì ampio sostegno finanziario per la ricostruzione di Afghanistan e Iraq. Il sostegno militare e non del Giappone alla guerra al terrore fu principalmente motivato dal mantenimento di forti legami bilaterali dovuti alla crescente minaccia della Corea democratica, ma ugualmente importante era il desiderio del Giappone di mantenere il primato degli Stati Uniti nell’Asia-Pacifico sostenendone ed integrandone i ruoli regionali e globali. Per il Giappone, l’ascesa della Cina era gestibile, se non inevitabile, purché gli Stati Uniti mostrassero impegno abbastanza forte per la sicurezza regionale, compresa la difesa giapponese. Ma coll’avvento del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, i politici giapponesi, per la prima volta nel periodo post-bellico, mettono seriamente in discussione la loro politica di sostegno all’ordine internazionale guidato dagli Stati Uniti. Una visione inizialmente ottimistica di Trump fu sostituita da cautela e confusione sulla coerenza strategica della sua amministrazione. È vero, l’amministrazione Trump ha per ora continuato lo stretto impegno per la sicurezza nei confronti degli alleati e partner asiatici, compresa la deterrenza nucleare. Tuttavia, tali impegni sembrano basati su interessi a breve termine e strettamente definiti piuttosto che da un impegno a lungo termine per l’ordine internazionale. Il Giappone fu scioccato quando il presidente Trump accettò immediatamente l’offerta di Kim Jong-un per il vertice USA – Corea democratica, persino suggerendo il possibile ritiro delle forze statunitensi in Corea del Sud senza alcuna consultazione cogli alleati regionali.
Amici e partner regionali del Giappone hanno già iniziato il passaggio dalla vecchia mentalità: ora so proteggono sempre più contro i doppi rischi di una Cina egemonica e di Stati Uniti inaffidabili. La Corea del Sud ha perseguito l’acquisizione del controllo operativo in tempo di guerra sulla penisola dalle forze armate statunitensi, pur continuando a mantenere buoni rapporti con la Cina e prendendo l’iniziativa per i negoziati di pace con la Corea democratica. Nuova Delhi, pur essendo sempre più cauta su potere ed influenza crescenti della Cina, sembra mantenere la tradizionale politica di non allineamento promuovendo attivamente la “multi-polarizzazione” del mondo con Cina e Russia. L’Indonesia persegua la politica dell'”asse marittimo globale” aspirando alla multipolarità e mantenendo una “posizione centrale” verso le grandi potenze. Persino l’Australia, che sosteneva l’ordine liberale guidato dagli Stati Uniti da anni col Giappone, riconosce il rischio di eccessiva dipendenza dal “grande e potente” amico e le sue élite politiche iniziamo a considerare un “piano B”. Il Giappone potenzia le difese espandendo al contempo gli orizzonti strategici nell’Indo-Pacifico. Tuttavia, il bilancio per la difesa rimane inferiore all’1% del PIL, e la strategia “Free and Open Indo-Pacific” (FOIP), nonostante l’immagine si concentra in realtà su una cooperazione poù economica che nella difesa coi Paesi regionali. In effetti, molti giapponesi ritengono che l’aspetto più importante del FOIP sia mantenere e rafforzare la presenza militare statunitense nella regione ampliando la portata della cooperazione USA – Giappone e sostenendo o integrando le attività regionali degli Stati Uniti con le altre democrazie affini. Anche se finora tale strategia sembra avere successo, non è chiaro in quale misura o per quanto gli Stati Uniti possano dimostrare impegno nei confronti del FOIP, in particolare col suo presidente “America Firster”.
Il Giappone dovrebbe continuare a sostenere l’ordine internazionale guidato dagli Stati Uniti? In caso contrario, qual è la migliore alternativa? Alcuni potrebbero suggerire che il Giappone dovrebbe prendere le distanze dagli Stati Uniti e aumentare gradualmente i legami con la Cina. Ma senza una spina dorsale militare proporzionata al potere della Cina , la corsa giapponese per la Cina probabilmente porterà il Giappone sotto l’influenza egemonica cinese. Questo non sarebbe accettabile per la maggior parte dei giapponesi. Altri potrebbero raccomandare che il Giappone concentri le risorse sulla difesa della patria, rinunciando all’illusione di “costruzione di un ordine liberale” sviluppando il proprio programma nucleare. Ma tale politica del “Prima il Giappone” non solo aumenterebbe il rischio di conflitti tra Giappone e vicini, ma comprometterebbe completamente il regime internazionale di non proliferazione nucleare. Una tale mossa potrebbe promuovere il collasso dell’ordine internazionale basato su regole e invitare a un mondo in cui “chi ha il potere ha ragione” . È abbastanza facile immaginare chi in Asia ci guadagnerebbe da tale stato di cose. Il Giappone affronta enigmi strategici. L’alleanza degli Stati Uniti rimarrà al centro della politica estera del Giappone e il Giappone potrebbe assumersi maggiore condivisione degli oneri nell’alleanza. Allo stesso tempo, il Giappone deve andare oltre il precedente paradigma a “sostegno dell’ordine guidato dagli Stati Uniti” e dovrebbe invece cercare il proprio ruolo indipendente nella costruzione dell’ordine regionale. Le partnership strategiche del Giappone con le democrazie regionali, come pure l’impegno con la Cina, possono essere la base di una nuova strategia di costruzione dell’ordine.

Tomohiko Satake è Senior Research Fellow presso l’Istituto Nazionale di Studi sulla Difesa di Tokyo. Le opinioni espresse qui sono esclusivamente quelle dell’autore e non rappresentano le opinioni di NIDS o del Ministero della Difesa del Giappone.

Traduzione di Alessandro Lattanzio