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L’asse Usa-Israele contro l’Iran brucerà soldi e posti di lavoro in Italia

di Alberto Negri - 09/05/2018

L’asse Usa-Israele contro l’Iran brucerà soldi e posti di lavoro in Italia

Fonte: Alberto Negri

L’asse Washington-Israele “brucia” posti di lavoro in Italia. Questa è la cruda realtà dopo l’annuncio del presidente americano Donald Trump, sostenuto da Israele e dai sauditi, di ritirarsi dall’accordo con Teheran del 2015 sul nucleare e imporre altre sanzioni alla repubblica islamica.L’escalation ha ovviamente un risvolto militare perché Israele continua a bombardare le postazioni iraniane e Hezbollah in Siria, con il piano abbastanza chiaro di provocare la reazione dell’Iran e un conflitto che potrebbe dilagare su larga scala.

Ma gli effetti economici si sentiranno subito perché Washington punirà le imprese e le banche che lavorano con gli iraniani.Per l’Italia si tratta di una altro colpo basso alla ripresa. Di questa situazione si avvantaggeranno le imprese cinesi, indiane e  coreane, che sono già partner rilevanti dell’economia iraniana. Le aziende italiane hanno dozzine di importanti commesse in Iran, un Paese dove le nostre imprese non hanno mai abbandonato il mercato neppure nei tempi più cupi quando imperversava il conflitto con l’Iraq negli anni Ottanta.


Le commesse riguardano acquedotti, autostrade e Alta Velocità, settori in cui sono attivi cinesi, coreani e tedeschi.
Negli ultimi due anni sono stati raggiunti numerosi accordi con Teheran per un valore complessivo di circa 27 miliardi di euro (infrastrutture, ferrovie, costruzioni, petrolio, gas, energia elettrica, chimico, petrolchimico). Nei lavori sono coinvolte grandi imprese statali, come le Ferrovie, ma anche molte medie e piccole aziende che lottano per sopravvivere e mantenere posti di lavoro.


Per sostenere questo piano di investimenti e di commesse in gennaio il ministro italiano dell’Economia Carlo Padoan e quello iraniano Mohammad Khazaei avevano raggiunto un accordo per l‘apertura di linee di credito da 5 miliardi di euro destinati a facilitare gli investimenti delle aziende italiane. In questo accordo quadro è previsto che la holding pubblica Invitalia presti soldi alle due banche iraniane Bank of Industry and Mine e Middle East Bank, le quali a loro volta erogano crediti all‘amministrazione pubblica iraniana per commissionare i lavori alle imprese italiane. Sui progetti di investimento è prevista la garanzia sovrana del governo iraniano.


Peccato che il decreto per attuare questo schema sia ancora bloccato proprio per le pressioni delle lobby americane e israeliane. A dimostrazione - se ci fosse bisogno di ribadirlo -  che il Paese ha una sovranità limitata e condizionata da alleati che dettano l’agenda e influenzano stampa tv. Tanto è vero che quando fu firmata l’intesa Invitalia alcuni media, più realisti del re, avevano persino criticato l’accordo, un trattato internazionale sotto l’egida dell’Onu, che per altro era perfettamente in linea con quanto previsto dall’intesa del 2015, di cui avevano già approfittato per fare affari le imprese tedesche francesi.


E’ vero invece il contrario: i primi a non rispettare l’intesa sul nucleare iraniano sono stati proprio gli Stati Uniti, che hanno continuato a imporre sanzioni secondarie alle banche europee e occidentali che erogavano crediti all’Iran.Gli Usa hanno impedito che in Iran affluissero i capitali attesi dal governo del moderato Hassan Rohani. Tanto è vero che le multinazionali europee che lavorano con l’Iran e in Iran, come scrive il Wall Street Journal, da tempo si sono preparate al peggio. E a fine settimana a Londra si riuniranno i rappresentanti di Gran Bretagna, Germania e Francia per esaminare la situazione, dopo l’annuncio di Trump, sia sotto il profilo economico che politico.


In sintesi la guerra militare e diplomatica all’Iran ingaggiata da Usa e Israele, con l’appoggio saudita, ci costa già soldi e posti di lavoro. In attesa che un nuovo conflitto, la seconda fase della guerra siriana, sconvolga di nuovo il Medio Oriente e il Mediterraneo. Ma si può essere certi che quando accadrà all’Italia non faranno neppure una telefonata come è già avvenuto con la Libia nel 2011.