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L'Europa e il riarmo: una situazione grave ma non seria

di Franco Cardini - 02/07/2025

L'Europa e il riarmo: una situazione grave ma non seria

Fonte: Franco Cardini

Un grande scrittore e commediografo satirico, autore di fulminanti aforismi, è stato il pescarese Ennio Flaiano, vissuto tra 1910 e 1972; fu anche sceneggiatore di alcuni films di Federico Fellini. Oggi è quasi dimenticato nel suo paese e semisconosciuto all’estero. Peccato: di lui è noto soprattutto un aforisma dedicato alla politica italiana negli Anni Sessanta: “Situazione grave, ma non seria”. Una felice descrizione, fra l’altro, dell’indole di noialtri italiani. Difatti, quando ci càpita o càpita al nostro paese di trovarsi in difficili frangenti, da noi una delle reazioni più comuni è che ci scappa da ridere.
E un sacco di belle risate, magari con un po’ di amaro in bocca, ce le stiamo facendo in questi giorni. Tutto è cominciato quando l’ineffabile Tycoon Trump ha annunziato a noialtri, suoi “soci in affari” (e in scelleratezze) dell’associazione a delinquere detta NATO, ch’era stufo di coprire con i suoi bei dollari americani (di fatto ridotti a cartastraccia dopo Bretton Wood, ma tenuti a galla a suon di giochi di borsa, di minacce e di ricatti) quasi tutte le spese dell’organizzazione sedicente “difensiva”  “atlantica” – la NATO, appunto -, pena pesanti ritorsioni.
Diciamo la verità: eravamo in tanti, a quel punto, a temere le ritorsione che ci avrebbe spinti a scendere per strada a ballare di gioia: lo scioglimento di quell’associazione a delinquere sorta nel 1949 per “difendere” gli stati dell’Europa occidentale ormai asserviti all’USA contro una tanto incombente quanto inesistente minaccia sovietica. Fu, com’è ormai ben noto, una provocazione bella e buona: quel “Patto Atlantico” della più autentica marca aggressiva che costrinse l’Unione Sovietica e i paesi euro-orientali in Occidente detti sprezzantemente “satelliti” a stipulare nel 1955 un’alleanza in pratica uguale  e contraria: il “Patto di Varsavia”, quello sì davvero difensivo.
Ma negli Anni Novanta, ormai sciolta l’Unione Sovietica, la presunta utilità della NATO veniva ovviamente a perdere giustificazioni. Per l’esercito statunitense e il suo governo, però, ciò avrebbe comportato la perdita di numerose basi militari sparse in Europa e nel Mediterraneo. Non era neppur il caso di parlarne. L’organizzazione procedette pertanto   a nuovamente ridefinirsi: c’era già stata la prima “guerra del Golfo” e, con essa e dopo di essa, la nuova” necessità” di tenere a bada quel mondo musulmano dal quale proveniva (vero o falso, autentico o strumentalizzato che fosse) il “pericolo islamico”. Con i postumi del mai chiarito attentato plurimo dell’11 settembre 2001 e l’aggressione degli USA e della NATO all’Afghanistan che gli tenne dietro, si posero le basi per una nuova “guerra fredda” che gli tenne dietro e in forza della quale già fino dal 2006 alcuni reparti NATO rimpiazzarono gli statunitensi nell’area afghano-meridionale e si avviò quell’escalation che avrebbe preluso, a partire soprattutto dalla crisi del 2008 e quindi della guerra del ’14-’15 contro il feroce e fanatico ma al tempo stesso ambiguo ISIS-DAESH, a un affrontamento stavolta reso più evidente dalla scomposta reazione americana all’affermarsi dei paesi riuniti nel sodalizio de facto chiamato BRICS e che raccoglie le nuove forze emergenti – Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica – di un equilibrio multilaterale che va ormai soppiantando il vecchio ordine monocratico caratterizzato dall’ormai logora e scricchiolante  leadership mondiale di Washington. 
Tale fino a pochi mesi or sono era lo stato delle cose. Ma adesso, ormai da alcuni mesi, il Ciclone Trump ha di nuovo scompigliato le acque. Contro l’evidente flusso della corrente della storia, egli rifiuta di arrendersi al fatto che il Secolo Americano sia tramontato e pretende che make America great again, costi quello che costa.
E difatti, a noialtri europei che per nostra dabbenaggine siamo rimasti avvinchiati al pachiderma zoppo d’Oltreoceano, agli impone adesso arbitrariamente una crescita fino al 5% del rispettivo PIL di ciascuno dei nostri paesi per meglio concorrere ai suoi sogni di grandezza (la Groenlandia, il Canada, Panama…) e nel contempo per alleviare i forzieri del suo paese stremati a causa delle spese necessarie per mantenere la basi USA travestite da basi NATO. 
E la nostra Europa? Gigante economico e culturale ma ridicolo nanetto politico-militare, essa è oggetto anziché soggetto di volontà altrui. Da dove sia uscito il calcolo del necessario 5% sul PIL dei paesi europei per potenziare il loro rispettivo pool militare da porre al servizio degli USA (il comandante militare NATO deve obbligatoriamente essere, per statuto, un generale statunitense) nessuno lo sa: da nulla, se non da sotto la chioma color arancio che comincia ad argentarsi di The Donald. Ma il nostro continente soffre di una drammatica schizofrenia tra i governi che, diciamo così, lo guidano, e i singoli paesi reali da cui tali governi sono, diciamo così, guidati. Il dramma sta tutto nella netta e profonda distanza tra i singoli “paesi ufficiali” europei, nelle elezioni che si tengono fra i quali l’assenteismo dilaga sempre di più, e i “paesi reali”, in ciascuno dei quali la gente va sempre meno a votare e ha da tempo sfiduciato le rispettive classi politiche.
Ed ecco perché la nostra bionda presidente del consiglio sfarfalla in abiti da haute couture di Palazzo in Palazzo, proclamando che noi italiani siamo “europei, quindi occidentali” e  scomunicando quotidianamente l’Iran per un’arma nucleare ch’esso non possiede. Amica e alleata fedele di Trump come lo è stata con Biden prima e con  Elon Musk poi, qualche settimana fa ha volto fiduciosa fino ai marmorei gradini della Casa Bianca fiduciosa che il Tycoon le avrebbe consentito il prezioso, singolare favore di permettere all’Italia di mantenere per le spese militari il suo scarno 1,5%. Da notare che, quando afferma che l’armamento del nostro paese è in parte antiquato e comunque del tutto inadeguato, la presidente Meloni ha tutte le ragioni del mondo. Dal momento ch’essa non nasconde la sua propensione per il sovranismo e afferma altresì – forse dopo una scorsa non troppo attenta ai trattati internazionali – che l’Italia è perfettamente libera e indipendente (come possa esserlo con più di un centinaio di basi USA e NATO dotate di extraterritorialità e qualcuno anche di armamento nucleare, contro al nostra Costituzione), ci saremmo tuttavia aspettati che, durante la campagna elettorale che il suo partito ha vinto giovandosi non tanto di una crescita di voti quanto dell’imponente peso dell’assenteismo, essa avesse quanto  meno annunziato agli italiani una sia pur lontana intenzione di rivedere le spese militari.
Invece no. Quanto meno, Salvini ha tempo fa timidamente accennato alla possibilità di tornare alla leva militare obbligatoria: il che, vista la piega assunta dal trend  etico e comportamentale die nostri ragazzi, forse non sarebbe affatto un male. Ma la Meloni su ciò come su altre cose ha taciuto, tranne le lodi di repertorio alle forze armate e alle forze dell’ordine. Da Trump ha ricevuto fiori, baci, abbracci, elogi: ma sconti, no. L’Italietta paghi come gli altri partners della NATO. Adesso, l’immediato e acritico avallo  dell’imposizione statunitense del 5% sul PIL pro NATO,  analogo e omogeneo del resto da quello espresso dalla signora Von der Leyen, è cosa accettata da tutti: dal centrodestra che non fa una piega (tantopiù che molti dei suoi elettori sono dei fierissimi evasori fiscali) e dalla sinistra cha fa un p’ di ammuina e una parte della quale, almeno, “scende in piazza”: con esiti evidentemente inefficaci? Da dove prenderemo il 3,5% più di quanto finora pagavamo? Dalle spese sanitarie e da quelle per gli anziani? Dalla scuola, dalle famiglie già oberate, e in particolari dai Cirenei di sempre, le categorie a reddito fisso? E quanto di questo colossale gruzzolo finirà nel fuoco e nel fumo della guerra ostinatamente voluta da Zelenski, dalla politica di sterminio fortemente sostenuta da Netanyahu, e in entrambi i casi soprattutto per garantirsi più a lungo possibile la rispettiva impunità? Giacché sia chiaro che è soprattutto a questi due figuri, sostenuti entrambi dall’energumeno di Washington che i giorni pari vuole la pace e i giorni dispari la guerra, che noi di troviamo adesso sul ciglio di un terzo baratro, dopo quelli del 1914 e del 1939.
Quanto alle spese di guerra e allo sconquasso trumpiano del bilancio occidentale, ecco in pochi sintetici tratti la situazione. Le nostre fonti immediate sono english.elpais.com, en.wikipedia.org, sipri.org, economy-finance.ec.europa.eu, reuters.com, washingtonpost.com, ft.com, businessinsider.com, wsj.com: difficile risalire in poco tempo a quelle di prima mano, ma è un buon avvìo. Verificare  per credere.
In sintesi, il Totentanz dell’economia di guerra danza al ritmo assordante dei suoi tamburi. Svezia e paesi baltici si preparano esplicitamente allo scontro, il neobellicista cancelliere tedesco Merz prefigura il ritorno della leva militare e si vede già a capo di una potente forza di difesa tedesca, leader in Europa. Sia detto al riguardo: “forza di difesa” in tedesco di dice Wehrmacht. Cittadini e intellettuali europei, salvo qualche isolata vox clamantis in deserto, tacciono.
Qualche tratto analitico non guasterà. L’esposizione finanziaria programmata dalla NATO per volontà di Trump è al top. Al vertice de L’Aia , tra 24 e 25 giugno scorsi, 32 Paesi hanno concordato l’obiettivo di destinare il 5 % del PIL alla difesa entro il 2035 (3,5 % spesa militare + 1,5 % sicurezza infrastrutturale) con un check intermedio nel 2029). Naturalmente si parla con gentili eufemismi di “graduare” , di “spalmare”, di “rateizzare”, di “ammortizzare”, di “contenere” le spese. Ma le cifre grosso modo restano le medesime: e parlano da sole.
La spesa difensiva media dell’UE è slittata da 1,3 % del PIL nel 2023 all’1,5 % stimato nel 2024, con un ulteriore aumento previsto nel 2025 e 2026 secondo la volontà del presidente USA.
Ecco i dati distinti e aggiornati sulla spesa militare europea rispetto a quella russa.
In Russia la spesa militare è stimata di circa 149 miliardi di dollari nel 2024 (incidenza sul PIL: circa 7,1 %, con una crescita del +38 % rispetto al 2023).
L’Europa aderente alla NATO ha speso invece nel 2024  circa 544 miliardi di dollari.
Ed ecco in rapida sintesi e con qualche arrotondamento le spese paese per paese. Come vedete, gli ordini di Trump sono stati interpretati e osservati in misura variabile, con le solite reticenze e furbastrerie.
Prima della classe, finalmente!, torna la Germania del canceliere Merz (Sieg Heil!): dal 2025 punta dagli iniziali 100 miliardi di dollari USA  a 177 il 2029, prevedendo un aumento di 60.000  unità nelle  truppe cui di dovrebbero aggiungere nel decennio 100.000 riservisti, sospendendo i limiti fiscali finora previsti per la Bundeswehr e prospettando addirittura il ritorno della leva militare obbligatoria. Ma i socialisti minacciano guerra e gli ambienti giovanili sono in subbuglio, mentre l’ineffabile ministro della difesa Pistorius ritiene le proposte governative semplicemente aderenti alla pura necessità concreta. La Germania ha dispiegato altresì 5000 effettivi militari in Lituania, creando un “precedente” di sapore in realtà alquanto rétro, che rinvia al 1941.
La Polonia prevede  un aumento dal 31 % a 38 miliardi di dollari avviato  già dal  2024 (4,2 % PIL) con produzione nazionale di munizioni su scala crescente .
In Svezia la spesa è salita al 2 % del PIL nel 2024, con piano di raggiungere il 2,6 % entro il 2028 e potenziare carri armati e forze in anticipazione di possibili minacce .
La Danimarca porta la spesa al 3 % del PIL adesso, nel,  2025, tramite un fondo ad hoc da 50 miliardi di corone.
Il Belgio, la Slovenia, la  Croazia hanno annunziato  ciascuno un incremento verso il 2 % del PIL, ma la  Slovenia giunge a prospettare il 3 % entro il 2030 .
Nel Regno Unito, il solerte governo Starmer punta al 2,5 % entro il 2027, con 15 miliardi di sterline in nuovi investimenti per testate e munizioni . Poi si vedrà: fedeli agli alleati, ma anche parsimoniosi.
La Spagna è più cauta, ed è stata l’unica a manifestare con una certa mancanza di compostezza il suo malumore. Siamo all’ 1,28 % del PIL, anche se ora si punta al 2 % entro il 2029 e si valuta il sostegno di fondi comuni europei per sostenere la difesa. Ad maiora, ma non senza qualche libertario mugugno. 
A livello di politica comunitaria, la presidente Von der Leyen lancia alla grande l’iniziativa Readiness 2030 - ReArm Europe: programma lessicalmente incerto, ma sostanzialmente impegnativo.
Lanciato da Von der Leyen già nel marzo scorso, esso prevede fino a 800 miliardi di euri  mobilitati tramite mezzi e strumenti articolati:  flessibilità fiscale (cioè?), finanziamenti UE e prestiti per l’industria difensiva. Debito pubblico, fatti caverna. Ma come la mettiamo poi con l’inevitabile rapporto tra esso e il PIL. La nostra raffinata presidente in completi pastello include nel suo progetto sospensioni temporanee delle regole di bilancio, fondi “Banca Europea per gli Investimenti” mobilitati e meccanismi per capitali privati. Insomma: il debito pubblico crescerà, ma anche gli introiti privati. Con il risultato classico, al quale siamo assuefatti: concentramento della ricchezza, aumento medio della povertà generalizzata.
Questo quadro, con tutta la sua incertezza e al sua lacunosità, non sarebbe completo senza qualche cenno sul rapporto tra finanza e tecnologia. Ecco i dati salienti. La spesa per R&D (research and development: “ricerca e sviluppo”) permane ancora bassa in Europa (4 % versus  il 15 % negli USA); cresce però l’attenzione su droni, AI (Artificial Intelligence) e tecnologie dual‑use per migliorare l’efficienza nella produzione tanto civile quanto militare. Le multinazionali affiancano naturalmente l’impegno pubblico, il che non manca di aprire eccellenti prospettive di lucro private a spese di tutti: la francese Orange ha creato una “divisione difesa” per offrire soluzioni cyber e connettività militare; il colosso spagnolo Indra, molto potente in America latina, sta ottenendo l’appoggio governativo al fine di realizzare veicoli blindati (Dragón VCR) e rafforzare l’industria  così l’industria europea. Buoni profitti in vista: la guerra si rivela ancora una volta un eccellente business.  Investimenti massicci riguardano altresì la produzione di munizioni in Polonia, Regno Unito e Germania (Rheinmetall). Insomma, non solo si vis pacem para bellum, com’è dottamente tornata a ripetere la nostra premier: ma anche si vis lucrum, para bellum (alla pace ci pensiamo poi, a incassi fatti: e in più ci sarà anche il business della ricostruzione.
Certo, come in tutte le belle feste che si rispettino, abbondano i profeti di sventura e le fatine cattive.  C’è chi sostiene che la spesa al 5% per volontà trumpiana sottrarrà risorse a clima e welfare: si stima un’uscita annua di  613 miliardi di euri, con impatto su istruzione, sanità e transizione ecologica . Né manca chi stima  il traguardo del 5 % irrealistico; Goldman Sachs ritiene che al massimo si potrà arrivare al 2,7 % nel 2027 per Unione Europea e Regno Unito nel loro complesso, con un vero e proprio balzo però solo dopo il 2026. Ed è lapalissianamente ovvio che spese insostenibili aggraverebbero il debito pubblico (per alcuni apesi già all’80% del PIL), suscitando veri e propri rischi sociali per i paesi più fragili.
Insomma, la spinta concreta al rearmament con impegni impegni formali formali fino al 5 % del PIL per i paesi NATO  dovrebbe realisticamente concretizzarsi attraverso piani nazionali ambiziosi, mobilitazione industriale e strategia comunitaria dell’UE per finanziare l’intero processo. Tuttavia, restano da accettare delle  sfide significative: finanziare entro limiti sostenibili, mantenere socialmente responsabile il processo, garantire l’innovazione tecnologica e la coesione fra i paesi cointeressati al netto dei disagi e delle possibili scosse sociali. Ma non è un caso che, all’unisono con Merz, Macron spinga per una sempre maggiore integrazione europea difensiva ed esplicitamente (ce n’era bisogno?) dichiari il riarmo una straordinaria opportunità economica per le industrie europee guidate da Germania e Francia. Chissà se il presidente francese ha mai sentito parlare di un certo Herr Speer…
Insomma, c’è senza dubbio sempre qualcuno secondo il quale “finché c’è guerra, c’è speranza”. Non a caso il “Wall Street Journal” intitola un suo impegnato e impegnativo articolo “Buying U.S. arms will help Europe unlock trade deal with Trump, EU Leader says”. I governanti la  pensano così, e anche i ceti dirigenti imprenditoriale. Con maggiore obiettività (forse involontaria) e minore ottimismo, e alo scopo del resto di favorire gli scambi euroamericani nonostante sappia bene a chi andranno i profitti e a chi i gravami, il  presidente del Consiglio Europeo, António Costa, sostiene che i proventi dell’aumento della spesa militare europea -  portata dal 2% al 5 % del PIL - passerà in gran parte a società statunitensi, contribuendo a riequilibrare il deficit commerciale degli USA verso l’UE, attualmente di 236 miliardi di dollari  nel settore merci. Ma, siccome il negoziato commerciale USA‑UE è ancora in alto mare, il solerte Tycoon che ama gli ultimatum  e agita volentieri gli spauracchi calendariali ha minacciato l’applicazione di tariffe fino al 50 % se non si arriverà a un accordo entro il 9 luglio. A questo punto, a proposito di pirateria, opportuno sarebbe il sostituire la bandiera stars and streaps con quella nera dei Fratelli della Costa. Certo, il presidente francese gradirebbe che negli acquisti le industrie europee fossero privilegiate, mentre altri optano per quelle statunitensi: è una questione di qualità, di efficienza, di merito e magari anche di tangenti da sborsare ai mediatori politici.  In guerra, c’è chi muore e chi fa soldi.
Intanto, gli stati europei discutono sull’entità del contributo comunitario di ammortizzamento: gli stati sono in disaccordo sull’entità del contributo UE: si parla di flessibilità fiscale e dell’istituzione di un fondo difensivo di 150 miliardi di euri in prestiti. Le decisioni sul taglio delle tariffe e altri incentivi verranno riesaminate, assieme alla strategia di difesa, nel summit UE previsto per ottobre.
In ultima analisi, lo spauracchio di una “possibile” (!?) aggressione russa all’Europa ha provocato reazioni tese fino all’isteria ma ha anche messo in moto meccanismi che mirano a favorire l’industria statunitense e a rafforzare la concordia atlantica. Il “necessario” riarmo europeo si sta rivelando un eccellente strumento di politica estera con sostanziose ricadute commerciali. Che poi ad avvantaggiarsi siano il sistema capitalistico statunitense o quello europeo, è in fondo irrilevante per non dir apparente: il sistema del mercato unico globalizzato favorisce sempre e comunque le stesse classi sociali. Le tensioni sono in gran parte superficiali e l’oligarchia militar-industriale, quella già denunziata nel 1959 dal presidente Eisenhower, continua a tenere. I Trump, i Merz e i Macron passeranno; ma, anche se tutto cambiasse,  tutto resterebbe come prima in quanto ben salde rimarrebbero le linee industriali e finanziarie di fondo e i rapporti di produzione relativamente ai quali il dibattito internazionale sembra ormai esaurito e dimenticato. Come ha giustamente detto un saggista italiano, Marco Revelli, in un saggio intelligentissimo medito da Laterza, La guerra di classe esiste. E l’hanno vinta i ricchi.