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Nonluoghi per non persone

di Roberto Pecchioli - 21/12/2025

Nonluoghi per non persone

Fonte: EreticaMente

La crisi della filosofia occidentale – cioè, del pensiero meditante – è evidente. Sconfitta la metafisica sull’altare dell’utilitarismo, del pragmatismo e di un individualismo materialista, “povera, e nuda vai, filosofia, dice la turba al vil guadagno intesa. Pochi compagni avrai per l’altra via”, come cantava il Petrarca. Il pensatore forse più interessante del presente è coreano, sia pure di cultura tedesca, Byung Chul Han. Critico acutissimo della postmodernità, di cui è divenuto una sorta di perito settore che esegue l’autopsia di un cadavere – la società di quest’angolo di mondo – ha appena scritto un  libro dal titolo urticante, per l’uomo contemporaneo, Ueber Gott, Su Dio, non ancora tradotto in italiano. È un dialogo sul muro del tempo tra il filosofo fattosi cattolico con Simone Weil, la sfortunata pensatrice francese di origine ebraica, anch’ essa probabilmente convertita.
Segno che la trascendenza, la riflessione sul senso ultimo del transito terreno della creatura umana, non è ancora stata del tutto scacciata dall’orizzonte della modernità postera di sé stessa. Ugualmente, i filosofi italiani più importanti recuperano il valore del sacro rispetto alla “nuda vita”, come Giorgio Agamben o addirittura dialogano con il totalmente altro, tendendo ponti verso il mistero. È il caso di Massimo Cacciari e del suo “L’angelo necessario”, recentemente ampliato e riveduto. L’Angelo, secondo l’intellettuale veneziano, “testimonia il mistero in quanto mistero, trasmette l’invisibile in quanto invisibile, non lo tradisce per i sensi”. Segnali, fuochi di recupero di un pensiero non appiattito sull’oggi e sulle luci accecanti ma fugaci di un tempo senza profondità.
È più popolare la sociologia, la fotografia di ciò che si vede, il sapere che sviscera, analizza, indaga ma troppo spesso non giudica, non fornisce alternative né arriva al fondo dei problemi. Tuttavia, due sociologi contemporanei, Marc Augé e Zygmunt Bauman, hanno fornito un’interpretazione della postmodernità – dopo Jean François Lyotard che coniò il termine – inventando a loro volta due delle espressioni più azzeccate del nostro tempo. Per Bauman (1925- 2017) la chiave di una vita di indagini è l’aggettivo “liquido”. La nostra è un’epoca di precarietà, incertezza e cambiamento costante, in contrasto con la solidità delle società passate. Istituzioni, relazioni, identità diventano fluide, instabili, frammentate. Tutto è orientato al consumo immediato e all’individuo; i legami sono temporanei: liquidi, per l’appunto. L’umanità diventata fluida, senza equilibrio, guidata da bussole che indicano punti cardinali cangianti, cerca continuamente nuove esperienze, in un crescendo di ansia, aspettativa e successiva delusione.
Si perde il senso di appartenenza a comunità, valori, legami stabili, sostituiti da connessioni virtuali e temporanee, affannosamente ricercate e presto abbandonate. Zygmunt Bauman ci offre una preziosa immagine nel saggio. Da pellegrino a turista, una breve storia dell’identità, all’interno de La società dell’incertezza. La modernità – ancora solida – era popolata da pellegrini, ossia persone che costruivano la vita con progetti a lungo termine, con una direzione e un significato, con un orizzonte verso cui procedere. Il soggetto poteva perdersi, ma aveva una destinazione. Il pellegrino è diventato un turista, un vagabondo, un passeggero in transito perenne, un giocatore d’azzardo che mette in palio la vita. Un passante senza direzione, una sorta di flaneur alla Baudelaire che cerca di cogliere gli stimoli della vita moderna, ma senza un legame personale con lo spazio urbano. Questi ruoli condividono la tendenza a rendere le relazioni frammentate e discontinue, ostacolano la costruzione di reti durature di doveri e obblighi reciproci, alimentano la distanza tra l’individuo e l’Altro. Diventata turista dell’esistenza, l’umanità liquida non cerca una destinazione, ma un’esperienza e poi un’altra, compulsivamente. Non abita, consuma; non mette radici, si sposta con bagaglio leggero, giusto il contenuto di un trolley il cui peso non deve eccedere il limite al banco del check-in.
L’essere liquido vive nella provvisorietà, nella logica dell’”essere in transito”, nella condizione di fugace passante indifferente a ciò che lo attornia, alla continua ricerca di novità che non si fissano mai nella memoria. Un personaggio siffatto, l’uomo liquido traformato in turista, passeggero come progetto di vita, eppure provvisorio, non può neppure immaginare la riflessione filosofica, che è insieme contemplazione, giudizio, ricerca interiore dell’universale. Era un sociologo o un filosofo Franco Cassano, il cui concetto di “pensiero meridiano” indica un modo di vivere e di pensare lento – la sosta nelle ore più calde che lascia fuori il baccano e la corsa – legato al luogo piuttosto che al tempo, contrapposto all’accelerazione di cui siamo vittime? La preferenza per il tempo rispetto al luogo, il paradossale radicamento nel transito del turista e del casuale passante è stato oggetto dell’analisi dell’antropologo e sociologo francese, Marc Augè (1935-2023) inventore della categoria di “nonluogo”. Il nonluogo è il paradigma del transito, dell’assenza di radici e di stili, della stessa bruttezza seriale, stereotipata, strumentale, di gran parte di ciò che produce la contemporaneità.
Immaginiamo una scena quotidiana: un tizio è seduto in una sala d’attesa di un aeroporto. Davanti a lui una lunga sequenza di cancelli d’imbarco. I passeggeri affannati corrono con valigie, cuffie nelle orecchie e in mano smartphone e tablet sui cui schermi tengono fissi gli occhi, incuranti del resto. Potrebbero essere a Roma, New York o Singapore, e a malapena noterebbero la differenza. Tutto è identico, asettico, intercambiabile. In quello spazio nessuno si conosce, nessuno si saluta; tutti aspettano, tutti consumano. La vita come intervallo: l’aeroporto non è una destinazione, né una casa, né una piazza pubblica. È semplicemente un punto di passaggio. Qualcosa di simile accade nelle sale d’attesa ferroviarie, nelle aree di servizio, nei centri commerciali, nei mezzi pubblici e in tanti altri spazi detti “comuni”: luoghi privi di identità e di storia che rendono impossibili relazioni umane significative. Ambienti privi di un’essenza propria che non generano alcuna connessione sociale. Eppure, il centro commerciale è il tempio ateo della religione del consumo e della forma merce; il mezzo di trasporto è il demiurgo che conduce “altrove”, per lavoro, turismo, perfino per riempire/consumare il tempo di generazioni terrorizzate dalla sosta, dal dialogo con sé stesse.
I nonluoghi sono spazi funzionali dedicati alla circolazione, al consumo e all’intercomunicazione, spesso tra altri nonluoghi, come i raccordi autostradali. Aree o interstizi anonimi attraversati interpretando ruoli impersonali (cliente, passeggero, turista, utente, consumatore). Universali e omogenei, generano una relazione strumentale, liquida, con uno scopo esclusivamente pratico, senza promuovere un senso di appartenenza. L’abitudine li rende finanche familiari: nonluoghi per esseri non-più-pensanti, rassicurati dall’uguaglianza anonima di corridoi, scaffali, camminamenti, cartelli indicatori. Ambienti di sosta veloce in cui compiere gesti previsti in spazi dedicati, ad esempio pagare beni o servizi in casse automatizzate, prive anche delle parole sempre uguali degli operatori. Ci voleva un antropologo per cogliere il mutamento della specie umana dinanzi ai luoghi-nonluoghi in cui è rinchiuso. Augé li definisce ambienti della “surmodernità”. Il concetto è distinto da postmodernità (Lyotard), ne è anzi il rovescio, poiché attiene alla categoria dell’eccesso. Di tempo, per la sovrabbondanza di avvenimenti (e di notizie). Di spazio, grazie allo sviluppo dei mezzi di trasporto, una dimensione in cui nascono e si moltiplicano i nonluoghi. Eccesso di ego – minimo ed ipertrofico, un ossimoro trai tanti – che si manifesta nel momento in cui l’individuo “surmoderno” si considera un mondo a sé.
Nella surmodernità invasa da nonluoghi non esistono identità, memoria, comunità. Ambienti iper-regolati caratterizzati dall’anonimato, dalla ricerca di soddisfazioni e interessi esclusivamente personali, dalla provvisoria coesistenza spazio-temporale, dal disinteresse per gli altri e dal consumo di esperienze. Scenari di transito: autostrade, centri di vendita, catene alberghiere, supermercati, autostazioni. Nonluoghi reali o virtuali, come le reti impropriamente chiamate sociali. Basta guardarsi attorno per rendersi conto del fenomeno. Negozi di oggetti “firmati” in franchising delle grandi aziende proprietarie di brand, rivendite di gadget inutili e di apparati elettronici occupano le ex librerie, le drogherie e le mercerie di quartiere. Strade e piazze non sono più luoghi di incontro, passeggio e conversazione, ma forme geometriche e più spesso sghembi frattali da attraversare. Zone effimere, astoriche, senza volto né nome, insignificanti, che non lasciano traccia nella nostra memoria. Spazi in cui circoliamo circospetti, consumiamo e scompariamo.
E in cui, ahimè, non pochi si identificano, come nelle esposizioni commerciali (ma si deve dire show room) dei marchi, diventati identità a pagamento surrogate, posticce che indossiamo, sostituti di ciò che (non)siamo. I non luoghi esprimono l’impossibilità di molti spazi del mondo post o surmoderno di fungere da punti di riferimento, come la casa, il quartiere, la città, la piazza pubblica, la chiesa, il municipio o il monumento storico. Le grandi città sono già diventate veri e propri non-luoghi, poiché in esse scompaiono gli spazi della socialità. Gli stessi modelli e i medesimi criteri architettonici si ripetono nelle strade, producendo paesaggi identici tra loro, tutti senz’anima. Andy Warhol, icona pop e astuto imprenditore del proprio talento, arrivò ad affermare che la bellezza della catena Mac Donald sta nell’assoluta uguaglianza dei suoi interni, esterni e menù, ovunque nel mondo. Il nonluogo per eccellenza.
Nella prima parte abbiamo descritto i non luoghi e la condizione di turisti o passanti dell’umanità che vi transita senza alternative. Quasi tutto è diventato nonluogo. Finanche le stazioni di servizio per il rifornimento delle automobili sono progettate e organizzate allo stesso modo degli aeroporti e dei supermercati. L’ultimo simulacro di rassicurazione per gli individui non-persone che vi deambulano. Non c’è bisogno di uscire di casa per rintracciare un nonluogo: tutti seduti davanti alla TV, e contemporaneamente a fissare lo smartphone indossando le cuffie. Non condividiamo neanche i suoni! È come se evitassimo la catastrofe di dover trascorrere del tempo insieme, creare spazi di identità, significato e scopo. I dispositivi ci stanno rinchiudendo in gabbie che isolano. Nel mondo iperconnesso siamo soli, circondati da nonluoghi tutti uguali, spinti a ripetere l’identico per non sentirci sperduti. Tra percorsi obbligati indicati da frecce e pittogrammi, servizi standardizzati, azioni obbligate, viviamo in territori in cui è possibile muoversi senza lasciare traccia. Nell’omologazione, che ne è dell’identità – cioè, del Sé autocosciente – se abitiamo non-luoghi?
La modernità solida era popolata da pellegrini con una destinazione precisa: famiglia, lavoro, la casa di proprietà. Cose solide, beni durevoli. Oggi il pellegrino è diventato un turista, un vagabondo, un girovago o un giocatore d’azzardo. Questi ruoli rendono le relazioni umane frammentate e discontinue, ostacolano la costruzione di reti robuste di doveri e obblighi reciproci e favoriscono la distanza tra i singoli, escludendo l’Altro. Le non-persone abituate ai non luoghi non cercano una destinazione ma un’esperienza. Non abitano, consumano; non mettono radici, si spostano. Vivono nella provvisorietà, nella logica del transito continuo, alla ricerca di novità che non si fissano mai nella memoria per diventare vissuto personale (erlebnis, nella fenomenologia di Edmund Husserl).
Il non-luogo diventa il palcoscenico di non-identità fluide: turisti perpetui, passeggeri trafelati, figurine in transito, passanti: ruoli momentanei che esistono solo all’incrocio tra l’esibizione di un biglietto con codice QR, il pagamento – rigorosamente elettronico – di un prodotto o di un servizio e l’occupazione di un posto numerato sui mezzi di trasporto. Ma cosa rimane di noi quando tutto è transitorio e provvisorio? L’identità del Proteo su moderno può essere adottata e abbandonata come un cambio di biancheria intima. Le opzioni rimangono sempre aperte. Bauman rileva che difficilmente possiamo agganciare un’identità a relazioni che sono di per sé programmaticamente slegate, provvisorie. Ci viene anzi solennemente consigliato di non provarci nemmeno, dato che l’impegno forte, l’attaccamento profondo possono far male. Sfuma anche la lealtà, l’idea obsoleta che un legame abbia conseguenze vincolanti e produca obblighi. Entrambi i concetti, non-luoghi è identità frammentate, fugaci, postulano l’autonomia individuale in opposizione alle responsabilità morali. Morali, dunque impalpabili o ridicole nella società dei contratti, dei protocolli e delle clausole minuziose.
A proposito di nonluoghi, l’architetto olandese Rem Koolhaas parla di spazi spazzatura, frammenti urbani che proliferano nella globalizzazione: vetrine e centri commerciali, resort, uffici con facciate in cristallo, periferie replicate mille volte senza riguardo a nazioni, costumi, stili. Funzionalità prive di significato che non hanno storia, memoria, anima. Tutto è standardizzato. Un centro commerciale di Milano assomiglia più a uno di Shanghai che alla piazza di una città lombarda. L’architettura diventa un linguaggio universale di acciaio, vetroresina, marchi e loghi commerciali. Inquieta non solo la ripetizione (in)estetica uniformata, ma la sua conseguenza esistenziale: uno spazio senza radici produce individui sradicati. Quando i luoghi che abitiamo non raccontano storie né custodiscono ricordi, la nostra identità si erode.
La fragilità di questa esperienza si accentua perché, come ricorda Yung-Chul-Han, i rituali sono scomparsi, come i simboli. I rituali sono pratiche che ancorano al tempo e allo spazio, creano legami, si ripetono con significati compresi e condivisi. Accendere una candela, riunirsi attorno a un tavolo, salutarsi in piazza, festeggiare un santo o un evento storico: modi per dare sostanza alla vita quotidiana, generare comunità, incontrare l’altro e riconoscersi in lui. Nei non-luoghi i rituali evaporano, i simboli scompaiono e si perdono anche le buone maniere tra fretta, indifferenza e malcelata ostilità. Gesti antichi sono sostituiti da protocolli tecnici: passare attraverso un controllo di sicurezza, scansionare un codice QR, pagare con carta di credito, esibire una card plastificata. Ripetizioni vuote, prive di simbolismo. Senza rituali, il tempo si frammenta in istanti identici, accelerati, devitalizzati. Nel nonluogo non c’è ieri né domani, solo un presente operativo deprivato di memoria.
Lo scrittore portoghese premio Nobel José Saramago (1922-2010) narrò la profondità del pericolo nel romanzo La Caverna. Un umile vasaio scopre che un mercato commerciale in costruzione vicino a casa sua, chiamato il Centro, sta divorando la vita del quartiere, assorbendo mestieri, relazioni e affetti. Quello spazio luminoso e apparentemente ordinato soppianta il mondo esterno, divenendo fulcro e arbitro di ogni attività economica e sociale.  Come i prigionieri di Platone scambiavano le ombre della caverna per realtà, i personaggi di Saramago finiscono per credere che ciò che viene consumato equivalga a ciò che è stato vissuto. La caverna non è sottoterra: sta in ogni galleria commerciale, in ogni flusso continuo di contenuti (feed) in rete, in ogni aeroporto identico in qualsiasi parte del mondo. È la metafora della vita ridotta a non-luogo, dove ciò che conta non è esserci – il Dassin di Heidegger – esistere, in definitiva vivere, bensì circolare.
Nei non-luoghi siamo circondati da innumerevoli altri, eppure restiamo anonimi. L’esperienza è paradossale: insieme, da soli. Il sociologo Ervin Goffman (1922-1982) ha spiegato che la vita sociale è una serie di prestazioni. Nei luoghi tradizionali recitiamo ruoli davanti a un pubblico noto con aspettative condivise: è ciò che egli chiama face, volto, immagine, il valore sociale positivo che una persona rivendica per sé attraverso gli altri.   Nei non-luoghi agiamo di fronte a sconosciuti, senza continuità o comunità. L’interazione è minima, strumentale e vigilata. Psicologicamente sono spazi che producono alienazione, stanchezza, disorientamento. L’omogeneità sopraffà, la sorveglianza inquieta, la mancanza di punti di riferimento erode il senso di appartenenza. Eppure, i nonluoghi offrono anche una tregua: lì si può scomparire, diventare invisibili, liberarsi dalla pressione dello sguardo altrui. Questa invisibilità è un sollievo fugace che si trasforma in vuoto. L’anonimato senza radici finisce per essere una dipendenza che fa sopportare la vita.
Simone Weil espresse con chiarezza che “il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana”. Mettere radici non significa ristagnare, ma essere nutriti dalla pianta. Come l’albero si rafforza avendo solide radici, anche gli esseri umani prosperano quando sanno di far parte di una storia, di una memoria, di una comunità. Perfino i nonluoghi, tuttavia, possono essere riconvertiti, una sfida difficile perché sono stati progettati come scatole isolate dall’esterno, con pochissime finestre o luce naturale, in modo che l’attenzione si concentri sul consumo o sulla funzione specifica. Anziché accettare i non-luoghi come semplici infrastrutture di transito, possiamo tentare di abitarli in modo diverso. Orti urbani che trasformano lotti vuoti in spazi di socialità; caffè di quartiere che sostengono i semplici rituali di conversazione; piazze riprogettate per incoraggiare gli incontri. Anche in un aeroporto o in una stazione ferroviaria, la scintilla può accendersi se qualcuno aiuta un altro o si condivide una storia; un gesto gentile rompe la logica del transito. La relazione faccia a faccia rende più felici, aiuta a vivere meglio e forse più a lungo. Guardare, ascoltare, condividere il tempo sono pratiche che rafforzano le difese fisiologiche e proteggono dalla solitudine. Dobbiamo riumanizzare i non-luoghi, restituire loro un volto, una storia, un gesto di comunità, una particolarità che li distingua. Dove tutto sembra fatto per il semplice passaggio, bisogna seminare radici. Dove tutto è anonimo, far irrompere il nome proprio; dove tutto è consumo, recuperare la gratuità dell’incontro. I non-luoghi sono lo specchio della nostra epoca: identità liquide, terre desolate, antri consumistici. Sono l’espressione spaziale di una postmodernità in cui tutto scorre e nulla rimane. Ciononostante, possono diventare l’occasione per compiere gesti trasformativi. La domanda è se accetteremo di essere turisti in spazi vuoti, passanti perpetui in transito, prigionieri della caverna illuminata dalle vetrine, abitanti casuali del tempo, o se saremo in grado di riappropriarci di questi spazi per intrecciare memoria, identità e comunità. Tutto grida che il mondo ha cessato di essere un luogo di appartenenza, di accoglienza, come i nostri corpi, le nostre relazioni personali, la nostra nazione, la nostra religione, divenendo il gelido luogo funzionale di esperienze omologate. La rivoluzione inizia con un gesto semplice: guardare qualcuno negli occhi, salutare il vicino, conversare in coda al supermercato, perfino sorridere. Perché un luogo è uno spazio di riconoscimento reciproco. Circondati da non-luoghi tra figurine umane di passaggio, non è perduta la speranza di trasformarli in focolari.