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Lettonia, governo dimissionario salari - 15%, inflazione + 15 e tutti se la prendono coi russi

di Riccardo Valsecchi - 23/02/2009

 


La Lettonia, dal 2004 parte della Comunità Europea, è stata governata fino a ieri l'altro da una coalizione di centro-destra guidata da "Latvijas", erede dello storico movimento indipendentista "Tautas Fronte", e "Latvijas Partija", noto anche come "partito dei preti" per l'appartenenza alla classe ecclesiastica dei suoi leader; il primo ministro Ivars Godmanis, già primo premier della Lettonia indipendente, ha rassegnato le dimissioni venerdì. Nonostante gli sforzi di modernizzazione e il tasso di crescita più alto in tutta la Ue fino al 2007, il paese è rimasto letteralmente travolto dalla crisi mondiale: in poco più di un anno il prodotto interno lordo ha subito un calo del 17%, l'inflazione è salita fino al 15.8%, la percentuale di disoccupazione, a gennaio 2009, si attesta al 7.8%, 2 punti percentuali in più rispetto all'anno precedente, e i salari sono diminuiti del 10-15%. Il clima di recessione, il malcontento generale e la sfiducia nella classe politica sono i moventi che hanno trasformato la manifestazione di fronte alla Saeima, il parlamento, in una vera e propria sommossa: autovetture e camionette della polizia incendiate, supermercati e negozi saccheggiati, scontri con le forze dell'ordine; 32 feriti, 126 arresti il bilancio finale. «Finalmente gli abbiamo fatto capire che cosa pensiamo di loro!» urlava alla fine Janeks B., un manifestante.

«Il problema, oltre che economico» spiega Karline Bukule, direttrice e docente del programma di laurea in Scienze politiche presso la Vidzemes University, «è anche di comunicazione. La classe politica non s'interessa d'informare delle proprie decisioni i cittadini, i quali a loro volta si sentono tagliati fuori dalla gestione del paese.» Aigars S., fotografo, ha un'opinione abbastanza originale: «Questa parola, "Krisis", crisi, è ovunque: al notiziario, nella pubblicità, nei discorsi pubblici, e i giovani ci scherzano pure sopra. Trovo che tutto quanto sia così stupido, così enfatizzato dai media!». Mostra alcune foto che ritraggono teppisti e vandali in azione:«All'inizio del corteo si cantava tutti insieme, ma poi sono arrivati quei russi ubriachi, hanno cominciato a tirare pietre, a prendere a bastonate le auto, a saccheggiare i negozi di alcolici».
La comunità russofona, stabilitasi durante l'occupazione sovietica, costituisce il 36,4% della popolazione. Benché governo e ispettori europei minimizzino, la convivenza con l'etnia autoctona appare tutt'altro che serena:«La contesa ha toni prettamente linguistici» precisa Bukule:«I lettoni sono risentiti verso coloro che vivono qui e non vogliono imparare la nostra lingua, mentre i russi vedono questo come un pretesto per cacciarli via...». La questione idiomatica, in realtà, appare come un enorme pentolone dove si mescolano tutti i risentimenti di un'identità duramente oppressa durante l'occupazione, non solo politicamente, ma anche culturalmente, attraverso l'imposizione del russo come lingua ufficiale. I monumenti cittadini sono stati spesso il pretesto per ribadire l'odio verso gli ex-invasori: al centro del parco di Kronvalda si trova la "Statua della Libertà", ai piedi della quale ogni anno si svolge la commemorazione dei veterani delle Ss lettoni che combatterono contro l'Urss; Purkonkrusts, movimento neofascista, ha invece compiuto più attentati dinamitardi contro il "Monumento ai liberatori di Riga dagli invasori tedeschi"; infine il Museo dell'Occupazione, fortemente voluto dall'attuale governo e considerato dai cittadini russi «un insulto verso chi ha combattuto contro i nazisti».
Lo spirito nazionalista lettone non si esprime solo in sede extraparlamentare: il "Documento-guida per la politica culturale 2006-2015", approvato dalla Saeima, impone la conoscenza del lettone come condizione indispensabile per l'ottenimento della cittadinanza. «Per noi ragazzi non è un problema» fa notare Victor, padre russo e madre lettone, «ma per chi vive qui da oltre 60 anni?». Alena, imprenditrice, mostra il passaporto ancora con la scritta Cccp: «Siamo qui da oltre tre generazioni. Possono pretendere che ce ne andiamo?». Dmitry O., nato in Russia con antenati lettoni, è d'accordo sulla necessità d'apprendere la lingua locale, ma s'infuria a sentire le accuse infamanti sugli scontri di gennaio: «I lettoni devono sempre dare la colpa di tutti i loro errori a noi. È nel loro stile, sempre piangersi addosso: "Quanto siamo poveri! Quanto sfortunati! Per favore, Europa ascoltaci!". Ma chi li ha portati in questa situazione? Tutto il governo è lettone: il presidente, il primo ministro, tutti i ministri...tutti lettoni». Anche Max, russo, studente, rigetta le accuse a proposito del corteo:«Sì, c'erano dieci, quindici ragazzi con la bandiera bianco-blu-rossa che inneggiavano Putin, ma da lì a parlare di boicottaggio...tutta una costruzione dei giornali nazionalisti». Ma qual è il ruolo della Comunità europea? Che futuro attende una nazione così divisa? «Fin dall'inizio c'è stato un sentimento ambivalente nei confronti della Ue: da una parte d'entusiasmo per l'inedita possibilità di viaggiare liberamente, di poter intraprendere rapporti commerciali con altri paesi, dall'altra di preoccupazione per la drastica diminuzione del potere d'acquisto e per il continuo rialzo dei prezzi» spiega Bukule. «Penso che abbiamo bisogno della partnership sia dell'Europa che della Russia» confida Victor. Ribadisce Dmitry: «La Lettonia è la miglior via di transito dall'Europa alla Russia e viceversa. Dovremmo sfruttare questa nostra posizione geografica». E dopo gli eventi in Georgia e Ucraina, che hanno riaffermato la Federazione Russa come potenza militare ed economica? «Stanno tornando a essere forti» tuona Aigars, «ma loro saranno sempre i nostri nemici! Meglio la vecchia Europa...».

Valdis Zatlers, presidente della Repubblica, è stato chiaro: soluzione immediata della crisi o scioglimento della Saeima. Una risoluzione senza precedenti che potrebbe essere motivo di una grave crisi istituzionale: la costituzione, infatti, prevede che qualora il Presidente decidesse di sciogliere il parlamento, si debba indire un referendum che, se conferma, conduce all'effettivo adempimento di nuove elezioni, altrimenti al decadimento dell'incarico presidenziale.