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Gli scandalosi "bonus" dei super-managers

di Roberto Marchesi - 19/03/2009

 

Tutti di questi tempi hanno sentito parlare in televisione, o letto su qualche giornale, degli scandalosi “bonus” milionari che i supermanager delle banche generosamente si sono concessi (e in buona misura tuttora si concedono) di anno in anno spesso in cambio di prestazioni tutt’altro che soddisfacenti per la loro banca.
Un milione di dollari (o di euro) è una cifra che la maggior parte delle persone per bene che lavorano nei 20 Paesi più industrializzati del globo non riescono a guadagnare nemmeno in tutta la loro vita di lavoro, senza contare perciò quello che riescono a guadagnare gli altri, quelli dei Paesi più poveri che si danno da fare 7 giorni alla settimana solo per mettere semplicemente insieme il pranzo con la cena.
Bene, ma non è così per tutti. Per esempio non lo è stato per Mister Alan Schwartz ex CEO (Chief Executive Officer) della Bearn Stern, la famosa banca d’affari Usa collassata per le perdite registrate a seguito della crisi innescata dai “subprime motgages”, e in seguito incorporata nel marzo 2008 dalla J.P. Morgan Chase bank (che ha fatto un pessimo affare comprandola).
Ebbene, il sig. Schwartz, nel periodo immediatamente precedente lo sfascio della sua banca, si portava a casa ogni anno, tra stipendio e bonus di fine anno, la generosa sommetta di circa 117 milioni di dollari (*). Eppure lui si accontentava di una somma inferiore a quella del suo predecessore Jimmy Cayne, che ne guadagnava mediamente 128 all’anno.
Ma c’era qualcuno che nello stesso periodo guadagnava, da solo, più di loro due messi assieme. Era il collega Dick Fuld, CEO della Lehman Brothers, che negli ultimi cinque anni alla guida della sua banca guadagnava mediamente 350 milioni di dollari all’anno (*), vale a dire quasi un milione di dollari al giorno!
Cifre da capogiro, ma alla guida di banche così importanti mica ci possono mettere persone qualsiasi. La responsabilità di amministrare banche così importanti e giri d’affari così cospicui può essere assunta solo da persone eccezionali, quindi, nella logica corrente, anche la loro retribuzione doveva essere eccezionale.
Infatti lui è stato talmente bravo alla guida della banca che nel settembre 2008 la banca da lui amministrata è fallita!
Un altro “drago” dell’alta finanza, il sig. Stan ÒNeal, CEO della Merril Lynch (altra mitica grande banca d’affari di Wall Street) ha pensato bene di togliere il disturbo verso la fine del 2007, portandosi a casa la “modesta” buonuscita di circa 161 milioni di dollari. Giusto premio per uno che si ritirava lasciando la banca sull’orlo della bancarotta!
Eppure tutti questi superuomini, quando sono stati chiamati a testimoniare davanti ad una Commissione senatoriale Usa sui motivi del disastro, hanno tutti più o meno versato le stesse “lacrime di coccodrillo” dicendo che loro hanno fatto del loro meglio, che nessuno poteva immaginare la tremenda portata della crisi in arrivo, un autentico “tsunami” della finanza.
Ma è proprio vero che è andata così? Sono pochi a crederlo, anche se c’è qualcuno che fa finta di non capire e già accusa Obama di essere un “socialista” (proprio così, detto in modo spregiativo!) perché secondo loro lui allarga troppo i cordoni della borsa in aiuti di Stato.
È vero che la crisi finanziaria globale che ha seguito quella dei mutui subprime ha superato le più pessimistiche stime, ma è anche vero che loro, i banchieri, si sono comportati più da avidi profittatori che da capaci amministratori.
Infatti una delle regole base del servizio bancario (non solo negli Usa) è che la banca non si deve esporre troppo nei suoi impieghi (prestiti, mutui, investimenti e altro), soprattutto in quelli di medio-lungo termine e in quelli di valore incerto. Esiste anche un rapporto (negli Usa fissato dalla Federal Reserve) tra il capitale proprio e il capitale investito cui la banca si deve attenere per restare nei limiti di operatività ritenuti non rischiosi. Questo limite varia a seconda del tipo di banche, ma per le banche d’affari (cioè quelle di cui stiamo parlando) il rapporto dovrebbe essere abbondantemente sopra al 10% per essere adeguato (cioè la banca dovrebbe avere almeno un capitale proprio di 10 per poter gestire un capitale investito di 100).
Invece cosa è successo? È successo che tutti i banchieri d’affari hanno usato l’indice ROE (return on equity), ovvero il rapporto tra il reddito conseguito e il capitale proprio per definire la qualità del risultato reddituale conseguito dalla banca. In questo modo più basso era il capitale proprio della banca e maggiore era il ROE. Quindi più basso era il capitale proprio e più alto appariva nelle rappresentazioni statistiche dei managers l’utile conseguito dalla banca (il che giustificava anche le sontuose parcelle che si portavano a casa).
Ma era solo uno specchietto per le allodole, perché dall’altro lato invece, come abbiamo visto poc’anzi, la bassa capitalizzazione della banca metteva la stessa in una situazione di grave pericolo nel caso la situazione di mercato facesse scendere il valore del capitale investito (obbligando a registrare perdite). Ovvero proprio ciò che è successo tra la metà del 2007 e la fine del 2008.
Ma non è solo una questione di ratios da osservare, il problema è che quando le cose cominciano ad andar male e gli investimenti cominciano a perdere di valore, ci sono un sacco di investitori che decidono di “rientrare”, cioè restituire alla banca i pezzi di carta e farsi dare indietro i soldi. E questa è una fase pericolosa per la banca, perché se non ha sufficiente liquidità non ce la fa a sopportare l’onda d’urto. E se non ha adeguato capitale proprio, non può nemmeno avere adeguata liquidità.
Ma aumentare il capitale nei momenti di crisi è molto più difficile che aumentarlo nei momenti buoni.
Da tutto questo concatenamento di osservazioni cosa si deduce?
Si deduce che questi superbanchieri hanno commesso il più classico degli errori che può fare un banchiere: raccogliere poco denaro a breve termine (cioè immediatamente esigibile) e prestarne troppo a medio-lungo (cioè non immediatamente esigibile), oltretutto in un rapporto di capitalizzazione di uno a venti (o più) che rende tutta la situazione estremamente tesa perché, come in una manovra a tenaglia che strangola la banca, anche quel capitale investito in immobilizzi finanziari che non riescono ad essere liquidati, perdendo continuamente di valore, costringe la banca a registrare periodicamente perdite a bilancio (per la norma “mark to market” che impone di valorizzare i titoli in portafoglio al valore corrente di mercato). Ciò va automaticamente a riduzione del capitale proprio, il quale essendo già basso obbliga la banca ad avviare immediatamente una ricapitalizzazione, in mancanza della quale la banca fallisce.
Fin qui abbiamo analizzato i dati tecnici. Ma se consideriamo che l’epicentro della crisi negli Stati Uniti è iniziato lo scorso anno a settembre con il fallimento della Lehman Brothers, che ha provocato crolli in borsa a ripetizione e avviato un effetto domino per lungo tempo su tutti i valori di listino delle borse. E se consideriamo che questo tracollo è stato determinato a sua volta anche dalla paura che tutte le altre banche d’affari facessero a breve la stessa fine. Se infine consideriamo che tutte queste banche potrebbero essere arrivate alla situazione pre-fallimentare non certo per fatalità, ma solo per l’avidità dei loro amministratori di lucrare maggiori bonus, a quale conclusione possiamo arrivare?
Che dobbiamo temere il pericolo socialista o che è molto meglio per tutti far calare abbondantemente le pretese di certi super-manager che sono super soltanto nei soldi che si portano a casa?