Strategie non violente al servizio dell'Impero
di Fabio Giovannini - 11/03/2006
Fonte: Comedonchisciotte
La parabola di Gene Sharp (nella foto), dal gruppo Abele alla CIA. Ha messo le teorie ecopacifiste a disposizione del pensiero neocon per abbattere i regimi “sgraditi”.
Sulla nonviolenza è in corso da tempo un dibattito intenso, nella sinistra italiana. Pochi sanno, però, che i metodi dell’azione nonviolenta sono stati messi da anni al servizio dell’espansionismo americano.
Fin dagli anni 80 i movimenti pacifisti italiani hanno discusso molto di un testo in tre volumi scritto da un professore americano, Gene Sharp, Politica dell’azione non violenta (Gruppo Abele, 1986-1997), vero manuale per l’azione nonviolenta, fondata sulla disobbedienza civile, ma spinta fino al sabotaggio. Un testo tuttora consigliato dagli ecopacifisti perché ben lontano da ogni acquisizione solo verbale della nonviolenza, che non fa i conti con i suoi contenuti forti, come quella meramente “buonista” utilizzata da Occhetto a supporto della svolta che portò allo scioglimento del Pci. Bene, proprio in quegli anni Sharp stava compiendo una svolta radicale.
La sua Albert Einstein Institution (tra i patrocinatori vi sono diversi ex ufficiali dell’esercito USA) iniziava una collaborazione, fatta di finanziamenti e consulenze, con istituti filo-governativi come il National Endowment for Democracy (Ned) creato da Reagan nel 1983, il National Democratic Institute (Ndi) presieduto da Madeleine Albright e l’International Republican Institute (Iri), fino alla Freedom House, nata durante la guerra fredda in funzione anticomunista e a lungo presieduto dall’ex capo della Cia Woolsey. A portare ulteriori sostegni economici ci pensavano le fondazioni del miliardario Soros.
Gli Usa si rendevano conto che l’esportazione della democrazia con le bombe non sempre funziona. Il progetto, allora, era di studiare le tecniche per ciò che è stato definito “il colpo di stato postmoderno”: come abbattere i regimi sgraditi a Washington puntando sulla società civile. Nel mirino c’erano inizialmente i paesi del blocco sovietico e la Cina (le prime “consulenze” di Sharp sono state per i moti di piazza Tiananmen e per il movimento di Vaclav Havel in Cecoslovacchia). Nel frattempo Sharp suggeriva le tecniche per resistere a una fantomatica invasione sovietica dell’Europa in Verso un’Europa inconquistabile (Gruppo Abele 1989, con introduzione di Gianfranco Pasquino, ma l’edizione originale aveva una prefazione dell’ambasciatore anticomunista George F. Kennan, sostenitore del “contenimento” sovietico all’epoca della guerra fredda), teorizzando la nascita di migliaia di “gruppi di resistenza” molto simili alla nostra Gladio. Dopo la scomparsa dell’Urss, Sharp ha perfezionato le sue tesi in un altro libro, From Dictatorship to Democracy (1993) e le ha sperimentate sul campo nel 1999, quando i bombardamenti della Nato non erano bastati a piegare l’ex Jugoslavia e a rovesciare Milosevic. Allora si scelse un altro tipo di ingerenza, con l’appoggio dell’Albert Einstein Institution: si dà vita al gruppo Otpor (Resistenza) che alle elezioni presidenziali del 24 settembre 2000 accusa Milosevic di brogli elettorali. Ne conseguono manifestazioni e pressioni mediatiche fino a ottenere la caduta di Milosevic.
Il modello Sharp era vincente: non le semplici tecniche di azione nonviolenta, ma ingenti finanziamenti ai gruppi di opposizione, stretta collaborazione con gli ambasciatori americani, appoggio dei mezzi di informazione e uso delle Ong per monitorare le elezioni accusando i singoli regimi di frodi elettorali. Dopo il successo di Otpor, il “modello Sharp” viene ripetuto in Georgia, portando alla caduta di Shevardnadze, e in Ucraina alla destituzione di Kuchma. I due colpi di stato nonviolenti hanno subito messo in allarme i governanti bielorussi, uzbechi, kazachi e kirghizi che hanno spesso denunciato ingerenze occidentali attraverso gruppi sostenuti da Sharp. Il professor Sharp non si è fermato: nel 2002 ha tenuto corsi di formazione per l’Iraqi National Council e ora nella lista dei paesi da sovvertire ci sono Cuba e Iran. Ma c’è un caso che finora non ha dato i risultati sperati alla “nonviolenza” di Sharp: il Venezuela. Le lotte contro il presidente Chavez, inviso agli Usa, sono state organizzate con la collaborazione dell’Albert Einstein Institute fin dal 2002. Anche in Venezuela si gridò ripetutamente ai brogli elettorali e si portarono in piazza i contestatori, ma persino gli osservatori internazionali dovettero riconoscere che il voto si era svolto regolarmente e Chavez siede ancora al suo posto.
Resta il fatto che il colpo di stato postmoderno spesso riesce. Quello che mancava alla nonviolenza di Sharp per “vincere” era una cosa: i soldi. E solo grazie ai soldi americani i metodi nonviolenti di Sharp sono riusciti a risultare efficaci. Soldi, uso spregiudicato dei media e appoggio logistico delle ambasciate Usa: non c’erano questi elementi essenziali, nei primi libri di Sharp. Il teorico americano evidentemente ha fatto i conti con la realtà.
Oggi gli Usa uniscono quindi la violenza (le guerre di invasione) con le tecniche “nonviolente” (la destabilizzazione e il rovesciamento di regimi sgraditi), differenziandole di volta in volta. Certo, si potrebbe preferire un’espansione dell’imperialismo democratico Usa senza spargimenti di sangue: ma sarebbe solo un’illusione. A Washington si sceglie la violenza o la nonviolenza solo in virtù della loro maggior efficacia, caso per caso.
Il colpo di stato “non violento”
1. Manifestazioni di piazza apparentemente spontanee, in realtà accuratamente organizzate con perfezione “militare”: squadre di militanti “nonviolenti”, analoghe a squadre di soldati, che si tengono in contatto costante con i cellulari e usano Internet (posta elettronica e blog) e messaggi sms per coordinare le manifestazioni di piazza e diffondere le accuse di corruzione.
2. Diffusione di sondaggi elettorali sfavorevoli ai regimi che si vuole sovvertire e operazioni di monitoraggio delle elezioni volte a dichiarare sempre e comunque che sono stati commessi dei brogli, per suscitare il risentimento delle popolazioni.
3. Appoggio dei grandi media internazionali, per veicolare tra l’altro immaginifiche e rassicuranti definizioni per le rivolte (“rivoluzione di velluto” in Cecoslovacchia, “rivoluzione delle rose” in Georgia, “rivoluzione arancione” in Ucraina).
Fonte:www.resistenze.org
Link: http://www.resistenze.org/sito/te/pe/im/peim6c06.htm
6.03.06
Apparso in “La Rinascita della sinistra” , 3 marzo 2006
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