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Il crollo degli imperi

di Paolo Macry - 20/04/2010


Da tempo sono consapevole di quanto anomali siamo nel mondo moderno L' imperatore Francesco Giuseppe (1916)Ma a vincere fu soprattutto la realpolitik più che un' autentica spinta nazionalista

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La sequenza cronologica che porta dal collasso dell' impero al trionfo dello stato nazionale sembrava scritta nelle tavole della storia. Nel 1918, quando dai domini asburgici erano nati quattro nuovi Paesi, a vincere non era stato soltanto il wilsonismo, ma anche una sorta di senso comune ben diffuso in Occidente. E perfino i massimi simboli della tradizione imperiale erano finiti rapidamente nell' oblìo. L' 11 novembre di quell' anno, il giorno dopo la rinuncia al trono, Carlo d' Asburgo aveva abbandonato la residenza di Schönbrunn in una serata piena di nebbia, stando ben attento a evitare l' uscita principale del castello, perché la polizia aveva avvertito del pericolo di dimostrazioni popolari. Ma si era trattato di un falso allarme. Ad assistere alla fine di sei secoli di storia non c' era nessuno, né operai con la coccarda rossa, né curiosi. L' euforia era esplosa altrove, tra le élite dei nuovi Stati nazionali o tra gli italiani che avevano conquistato le «terre irredente». Il giovane Carlo, di fatto, era uscito di scena in perfetta solitudine. Già negli anni che avevano preceduto il 1914, in un contesto internazionale sempre più competitivo, le classi dirigenti degli imperi continentali erano sembrate afflitte dai peggiori incubi. «Andiamo verso il collasso e lo smembramento», aveva scritto un influente diplomatico viennese, mentre i Romanov apparivano preoccupati dal pan-islamismo e guardavano con ansia a quegli Ottomani che stavano cedendo pezzi di sovranità alle minoranze interne e alle grandi potenze. Temevano - loro, e non di meno degli Asburgo - di fare la stessa fine. «Dopo la Turchia, tocca all' Austria: è questo lo slogan che circola in Europa», aveva scritto qualcuno. Innumerevoli volte, a carico dei domini di Pietrogrado, Vienna e Istanbul, l' opinione pubblica occidentale aveva emesso una sentenza di morte. Erano i «grandi malati», le «prigioni dei popoli», la negazione del principio di nazionalità. Accuse che corrispondevano del resto alla coscienza inquieta delle élite imperiali. «Da molto tempo sono consapevole di quanto anomali siamo nel mondo moderno», avrebbe confessato nel 1916 Francesco Giuseppe. La stessa decisione d' imbarcarsi nella guerra era nata da un simile pessimismo. «Non vogliamo finire ai margini della storia» - aveva dichiarato un funzionario viennese alla vigilia del conflitto - allora è meglio essere distrutti subito». Con una tipica miscela di vittimizzazione e aggressività, quei circoli politici scivolavano nella retorica del «fare o perire». E fare significava fare la guerra. Fin dal tardo Ottocento, gli imperi sembravano aver perso la loro partita con gli Stati nazionali. Rispetto a una forma istituzionale ben radicata nell' Europa più moderna, era fatale che apparissero come residui del passato. Agli occhi di quell' Europa, lo Stato nazionale era il destino dell' impero, una sorta di nemesi delle sue molte «colpe storiche»: le dimensioni territoriali eccessive, il carattere multietnico, il debole controllo sulle periferie, l' inefficacia del governo e della governance. L' impero appariva sconfitto dallo Stato nazionale perché non ne aveva il mastice identitario e culturale, né dunque la forza di mobilitazione comunitaria. Il che in parte è vero, in parte è la classica profezia che si autorealizza. Ci sono storici che hanno sostenuto con buoni argomenti come, allo scoppio della Grande Guerra, i domini dei Romanov fossero economicamente e culturalmente in pieno sviluppo. E quelli asburgici godessero di ottima salute. Delle centinaia di migliaia di militari fatti prigionieri sul Piave, nel novembre 1918, gli austriaci sarebbero stati appena un terzo, mentre il grosso era composto da cechi, slavi del sud, polacchi, italiani. Come dire che, sebbene multinazionale, l' esercito di Vienna aveva tenuto fino all' ultimo. Forse non è il caso di sopravvalutare la spinta delle nazionalità. Significativamente, gli Stati emersi dal crollo asburgico avrebbero avuto in comune gravi squilibri politici, derive autoritarie, conflitti etnici. E questo dimostra come, al loro interno, la coesione nazionale restasse debole e come i nuovi governanti fossero poco radicati tra le rispettive popolazioni e avessero conquistato il potere - più che per la forza dei movimenti nazionali - grazie alla realpolitik degli Alleati, i quali, com' è noto, avevano legittimato le nazionalità dei domini asburgici in chiave antitedesca. Ma Francia e Inghilterra erano state incerte fino all' ultimo sulla sistemazione geopolitica da dare a quei territori: per l' esattezza, fino ai clamorosi errori politici e diplomatici commessi da Carlo d' Asburgo nel 1918. Il che suggerisce che la storia gioca le proprie carte, come insegnano i libri, ma ha sempre altre carte di riserva da giocare. E questo vale anche per la grande partita tra imperi e nazionalità. Le catene cronologiche sono molto meno fatali di quanto non appaiano a cose fatte.