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Piero Foscari e il suicidio del nazionalismo italiano nel primo dopoguerra

di Francesco Lamendola - 06/05/2010


La memoria di Piero Foscari è stata ormai in gran parte smarrita e crediamo che non siano davvero molti gli Italiani di media cultura a ricordare chi egli sia stato.
Nato a Venezia nel 1865 da una antica e illustre famiglia, nella quale si contano un doge (Francesco, 1373 - 1457) e un insigne storico, giureconsulto e diplomatico (anch’egli di nome Francesco, 1704- 1790), Piero Foscari è stato un uomo politico abbastanza importante nei primi due decenni del XX secolo.
Entrato in Marina, aveva raggiunto il grado di capitano di vascello e, nel 1896, aveva comandato una squadra navale durante il bombardamento di Mogadiscio, in Somalia, per vendicare l‘uccisione di alcuni marinai italiani. Lasciato il servizio, aveva poi partecipato alla vita amministrativa della sua città, adoperandosi specialmente per la creazione delle grandi imprese elettriche del Veneto e diventando, poi, uno dei maggiori esponenti del movimento nazionalista italiano.
Questo era stato fondato nel 1910 da Enrico Corradini e Luigi Federzoni con il nome di Associazione Nazionale Italiana, svolgendo opera di propaganda per mezzo del giornale «Il Regno», organo ufficiale del movimento, e del settimanale «L’Idea nazionale» che, nel 1914, fu trasformato in quotidiano.
Piero Foscari fu tra le figure più attive ed energiche all’interno del movimento nazionalista e, al tempo stesso, fece una significativa carriera politica, pur nutrendo scarsa fiducia nell’istituto parlamentare, specialmente dopo il 1918 (e, in tal senso, accolse con atteggiamento sostanzialmente favorevole l’avvento del fascismo). Nel 1909 venne eletto deputato e sedette sui banchi della Camera per un decennio, fino 1919;  fu inoltre nominato sottosegretario alle Colonie nel governo Salandra (dal novembre 1914 al giugno 1916, quando gli Austriaci lanciarono la «Strafexpedition») e nel governo Boselli (dal giugno 1916  all’ottobre 1917, ossia allo sfondamento di Caporetto). Da ultimo, nel 1923, gli giunse la nomina a senatore del Regno; nomina che precedette di poco la sua scomparsa improvvisa, per malattia, il 7 aprile 1923.
Armando Odenigo, fiumano, giornalista e diplomatico (fu, tra l’altro, nel 1944, ambasciatore della Repubblica Sociale Italiana presso il generale Antonescu in Romania), che del Foscari fu un fervido ammiratore, a lui ha dedicato una commossa biografia, nella quale, fra l’altro, così descrive l’atteggiamento del Nostro durante le trattative che precedettero la firma del Trattato di Rapallo con la Jugoslavia, nel 1920 (A. Odenigo, «Piero Foscari, una vita esemplare» (Bologna, Cappelli Editore, 1959, pp. 187-191):

«Il 3 gennaio, il Foscari parlava a una deputazione di Dalmati convenuti nei locali del’Associazione Nazionalista a Venezia.  Egli aveva preso conoscenza “non certo da fonte italiana” del memorandum presentato dal ministro Scialoja a Parigi, con l’indicazione delle “garanzie strategiche che l’Italia chiedeva agli alleati.
“Anche i rinunciatari - diceva commentando il memorandum -  anche i nostri mappa mondani, ma specialmente i pacifisti, dovrebbero impedire a qualunque costo che l’arcipelago dalmata, che Sebenico e cataro possano in avvenire tornar a diventare gravi minacce a tutto un fianco indifendibile della nostra penisola: basi che in possesso del’Italia non Possono minacciare nessuno, né vi sarebbe ragione di tenerle armate, anche perché non  hanno alcun valore come testa di ponte verso il retroterra.
“Tra i principali scopi della nostra guerra, v’era la smobilitazione  e la neutralizzazione completa dell’Adriatico, e ciò non soltanto nell’interesse dell’Italia, ma d tutti gli Stati…”
Egli vedeva con chiarezza ciò che a troppi, allora,  era nascosto, e cioè che oggi, col ritorno degli Uscocchi nel “Golfo di Venezia” e con le basi sovietiche in Albania vedono, sgomenti, tutti gl’Italiani che non sono ciechi per partito preso, o malati di indigestione dottrinaria.
Prima che, consumato il tradimento, le truppe italiane ricevessero l’ordine di sgomberarla, la Dalmazia attestava la sua antica latinità non soltanto con i suoi monumenti,  oggi in balia dei nuovi Vandali; e Piero Foscari, poteva concludere il suo discorso col gesto e la parola  dell’antico legionario, senza falsare la realtà  per adattarla al proprio sogno:
“i contadini delle vostre montagne, sino al culmine di quelle Dinariche  che separano l’Oriente dall’Occidente europeo, l’Italia dalla Balcania, Roma da Belgrado,  i contadini, dopo due millenni  ad ogni loro incontro  si salutano col gesto della destra alzata e colla parola stessa  dell’antico legionario romano: Ave!
Così io, in questa Roma  che è la vostra Madre e che ormai  è per sempre vostra capitale politica, vi saluto come quei Morlacchi che le cancellerie europee possono ribattezzare  oggi come Jugoslavi, ma nei quali il nostro  fante ha già in pochi mesi risuscitato il sentimento e la lingua latina. Vi saluto col gesto e colla parola dell’antico legionario romano: Ave!”
Alla fine di gennaio, i maggiori quotidiani riportavano dall’”Idea nazionale” del giorno 28, un articolo di Piero Foscari che cominciava con una domanda angosciosa:
“Quando finiremo dunque di essere zimbello degli altri popoli, grandi e piccoli, di farci dettar legge da nazioni vinte,  di lasciare che si speculi a nostro danno da coloro che si giovarono, e non poco,  della nostra collaborazione nella guerra, e che sfruttano ora la vittoria per tanta parte a noi dovuta?
L’Italiano esemplare sentiva come, prevalendo, si sarebbero comportati i nostri “mappamondani2 anche nei riguardi di quella esigua minoranza allogena stabilitasi di qua dalla Vetta d’Italia, nei secoli delle invasioni incontrastate.
Egli insisteva a denunciare con gli scritti  e con la parola la cronica incapacità  degli uomini al governo di organizzare fortemente lo stato, e il pericolo che ne derivassero brutte sorprese,  tali da peggiorare la situazione antica.
 Mentre stava maturando il miserevole baratto di Rapallo, i rappresentanti del potere centrale in  Alto Adige sembravano chiedere scusa della nostra presenza in quella provincia, quasi fossimo noi, tra il Brennero e Salorno, gli intrusi in casa d’altri. Per colpa di un tale nostro contegno, quelle alcune decine di migliaia di montanari scesi di qua dalla cerchia alpina quando non c’era nessuno a difenderla, non s’erano “ancora convinti di non appartenere a una nazione sconfitta, bensì di fare ormai parte di uno Stato vittorioso, come cittadini italiani parlanti un’altra lingua”.
L’arroganza non si corregge con l’indulgenza. Anche allora, quegli “intrusi di qua dalle Alpi”, a farlo star cheti non bastava che lo Stato ne rispettasse la lingua, i costumi ed i sentimenti. Dimentichi di essere stati per un secolo gli oppressori della nostra gente nella Venezia Tridentina, avevano la pretesa di “perpetuare l’opera di snazionalizzazione tra gli italiani autoctoni tra le vallate ancora immuni”. E al Nostro era cagione di amaro sconforto il fondato timore che “il petulante manipolo di vecchi pangermanisti dell’Alto Adige” avrebbe trovato al parlamento “zelanti patroni” capaci di chiedere “perfino l’autonomia”; e lo sgomentava  il pensiero della situazione che “l’inverosimile compromesso adriatico offerto dai nostri plenipotenziari all’ingordigia degli Iugoslavi e dei loro tutori” avrebbe determinato, applicato che fosse sul mare.
Da quattordici mesi, dalla fine cioè della guerra vittoriosa, egli andava ostinatamente invocando l’applicazione integrale del patto di Londra e il rispetto dell’autodecisione di Fiume: invocazione che non era soltanto quella del patriota e del nazionalista che difende l’oggetto del proprio sacro egoismo, ma, come s’è visto, quella del’uomo civile convinto che la supremazia italiana in Adriatico era condizione imprescindibile non solo per la sicurezza dell’Italia, ma anche dell’Europa tutta quanto e per la difesa della civiltà  che in essa si esprime. Era un impegno che Francia e Inghilterra avevano sottoscritto, e del quale si poteva esigere l’esecuzione, tanto più che data la presenza dei soldati italiani in Dalmazia, bastava che il governo di Roma dichiarasse stato di diritto lo stato di fatto.
Ma al governo c’era Nitti, il quale un giorno, in un salotto , aveva detto al’onorevole Colosimo: “Non potreste consigliare a Foscari di smetterla con quella sua invenzione della Dalmazia italiana?”.
E c’era il conte Sforza, il quale, pochi giorni prima, aveva detto a Giovanni Giuriati che “non valeva la pena di accapigliarsi tra Italiani pr una costa sterile”. Egli erra convinto che il risultato “sinistro” delle elezioni di novembre, fosse una risposta del popolo italiano allo sbarco di D’Annunzio a Zara!”
Il governo del’Italia vittoriosa era intento a capovolgere Vittorio Veneto.»

La posizione assunta da Piero Foscari in occasione della partecipazione italiana alla Conferenza di Versailles e, più ancora, delle trattative bilaterali fra Italia e Jugoslavia per la definizione della frontiera comune, che sarebbero sfociate nel Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, è emblematica della parabola autodistruttiva del nazionalismo italiano.
La sua posizione massimalista era basata sulla determinazione a chiedere a Francia e Inghilterra il rispetto integrale del Patto di Londra dell’aprile 1915, vale a dire la cessione all’Italia della Dalmazia settentrionale; nonché, sulla base del diritto all’autodecisione affermato nei «14 punti» del presidente americano Wilson, anche l’annessione di Fiume, occupata dai volontari di D’Annunzio sin dal 12 settembre 1919.
Tale fu anche la linea ufficiale tenuta dai nostri rappresentanti alla Conferenza di Versailles, il presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, e il ministro degli Esteri, Sidney Sonnino. I nazionalisti come Foscari non avevano rimproveri da fare, in questo senso, ai nostri plenipotenziari, se non quello di non essere stati abbastanza decisi e intransigenti.
Non si accorse, Piero Foscari, che quella linea, in quel contesto internazionale, era una linea suicida: perché dava agli Alleati l’impressione di uno smodato appetito annessionistico e di una strategia diplomatica eccessivamente disinvolta, per non dire furbesca: chiedendo la Dalmazia non in base al principio di nazionalità, ma al Patto di Londra; e Fiume non in base al Patto di Londra, ma al principio di nazionalità.
Quello che i nostri statisti non avevano compreso, e meno ancora lo avevano compreso gli esponenti del nazionalismo, era che il carattere della prima guerra mondiale si era profondamente modificato nel corso della sua ultima fase. Iniziata come una guerra tradizionale in vista di obiettivi convenzionali, era poi divenuta una guerra ideologica, “totale”, che non avrebbe mai più potuto concludersi sulla base di compromessi e mediazioni cari alla vecchia diplomazia.
In particolare, l’intervento statunitense, che si era rivelato decisivo per la vittoria finale dell’Intesa, aveva impresso una svolta in senso democratico agli obiettivi di guerra, laddove essi erano stati, fino al 1917, di tipo puramente imperialistico. Fino a quella data, per esempio, nessuno aveva seriamente pensato di distruggere l’Austria-Ungheria; a partire da quella data, un tale esito divenne praticamente inevitabile. Il principio dell’autodecisione dei popoli, in un’epoca di nazionalismi esasperati, non poteva che portare alla dissoluzione dell’ultimo grande Stato europeo a composizione plurinazionale (l’altro, la Russia, era stato già dissolto dalle vicende del febbraio e dell’ottobre 1917 e dalla nascita dell’Unione Sovietica).
Sicché, mentre il Patto di Londra era stato sottoscritto nella prospettiva che l’Austria-Ungheria venisse ridimensionata, ma non distrutta, ora, nel 1919, l’Italia si trovava ai propri confini orientali un nuovo Stato plurinazionale, e tuttavia fortemente nazionalista, il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, la cui nascita, nel 1915, nessuno avrebbe potuto immaginare. Ciò cambiava completamente la prospettiva riguardo al destino di Fiume; ma cambiava anche, soprattutto, la prospettiva diplomatica internazionale.
Il presidente Wilson aveva molta simpatia per i Cechi, per i Croati e, in genere, per le forze nuove emerse dal disgregamento della vecchia Mitteleuropea; i consiglieri espatriati di quelle nazionalità, come Masaryk e Šupilo, Beneš e Trumbić, erano da lui molto ascoltati e considerati come i legittimi rappresentanti di una realtà vitale, destinata non solo a ridisegnare la carta geografica d’Europa, ma anche a instaurare un nuovo tipo di relazioni internazionali.
Wilson era un uomo impregnato di idealismo dogmatico e astratto, dal carattere presuntuoso e rancoroso; convinto di rappresentare la verità e la giustizia, non ascoltava se non quelli che sottoscrivevano le sue idee democratiche e non aveva la minima comprensione per la delicata complessità dei problemi politici europei, che a lui sembravano pasticci di bambini egoisti. Avendo fatto del principio di nazionalità il caposaldo del “nuovo ordine” mondiale che aveva in mente, trovava perfettamente logico, ad esempio, che una vasta regione come la Transilvania passasse di punto in bianco dall’Ungheria alla Romania, senza tener conto della storia, dell’economia e della cultura locali; mentre, però, era sempre pronto a fare un’eccezione alla rigida interpretazione delle linee di nazionalità, qualora si trattasse dei suoi amici e protetti, come fu nel caso dell’annessione forzata di tre milioni di Tedeschi dei Sudati al nuovo Stato cecoslovacco.
Wilson sapeva di essere il rappresentante della potenza mondiale egemone, l’unica che fosse uscita dalla guerra non già indebitata, ma creditrice, con una finanza e una industria in piena espansione, e con la piena consapevolezza di avere dato il contributo decisivo alla vittoria finale sugli Imperi Centrali. A lui, che non aveva sottoscritto il Patto di Londra perché, nel 1915, il suo Paese era ancora neutrale, e perché contrario alla diplomazia segreta, la pretesa italiana di ottenere la Dalmazia e di fare dell’Adriatico un proprio mare interno sembrava inammissibile.
Con il tono del maestro paziente che deve convincere degli scolari un po’ zucconi, nonché con la condiscendenza del ricco e potente che deve ascoltare le fastidiose richieste del povero, egli condusse i negoziati per la definizione del confine orientale italiano nel modo che sappiamo, giungendo a rivolgersi direttamente all’opinione pubblica italiana a mezzo stampa, scavalcando i nostri uomini politici e il nostro governo e spingendo Orlando e Sonnino alla vana protesta di abbandonare Parigi, nell’aprile 1919.
I nazionalisti italiani non avevano compreso che la rivoluzione russa e l’intervento statunitense avevano radicalmente modificato lo scenario politico e ideologico; non si chiesero se fosse nell’interesse dell’Italia la scomparsa dell’antica monarchia danubiana, che aveva costituito un secolare fattore di stabilità nell’area centro-europea; e faticarono ad accettare l’idea di vedere negli Jugoslavi, che erano stati tra i più accaniti nostri avversari nelle file dell’esercito austriaco e, anche prima della guerra, i più accaniti avversari dell’italianità della Venezia Giulia e della Dalmazia, dei partner nella vittoria e dei vicini con cui instaurare rapporti amichevoli.
Non che la cosa fosse facilissima.
Da decenni esisteva una profonda diffidenza tra l’elemento italiano e quello slavo in tutto il litorale adriatico, da Trieste a Spalato ed oltre; da decenni era in corso una lotta per assicurare all’uno o all’altro gruppo l’amministrazione dei comuni dell’Istria e della Dalmazia; e, da decenni, vi era stata, con il favore delle autorità austriache, una progressiva erosione della presenza  e della rappresentanza italiane, a favore della presenza e della rappresentanza austriache. L’alleanza tra l’Austria e gli Slavi in funzione anti-italiana era giunta all’acme con la cessione, negli ultimi giorni di guerra, della marina militare al costituendo regno degli Slavi del Sud; tanto che Rossetti e Paolucci, affondatori della corazzata «Viribus Unitis» nel porto di Pola, si erano trovati nella strana situazione di dover fronteggiare un equipaggio teoricamente “alleato” e non nemico, proprio per tale passaggio di poteri dell’ultima ora.
Il clima politico italiano dell’immediato dopoguerra era avvelenato dalle fortissime tensioni sociali, dalla crisi economica, dall’astronomico debito estero, dal problema del reinserimento dei reduci, dalla mancata riforma agraria, dalle agitazioni nelle campagne e nelle fabbriche. In un contesto così agitato, lo spettro della “vittoria mutilata” aggiungeva motivi di frustrazione e di scontento specialmente in quella piccola borghesia e in quegli intellettuali che erano stati il nocciolo duro dell’interventismo e che, adesso, si sentivano particolarmente amareggiati, oltre che più duramente colpiti dalla crisi.
Oggi la storiografia democratica e liberale ha avvalorato l’idea che la “vittoria mutila” fosse soltanto un mito, nato nella testa dei nazionalisti; ma non è proprio così. Lo storico imparziale deve ammettere che realmente, alla Conferenza di Versailles, Francia, Inghilterra e Stati Uniti trattarono l’Italia come una potenza di minor conto e fecero di tutto per ridimensionare alcune sue legittime aspirazioni. Wilson, come abbiamo visto, non aveva orecchi che per i suoi amici slavi e non ammetteva altra verità che la propria; Clemenceau non pensava che a ricostruire, nell’Europa centro-orientale, un sistema politico-militare (la piccola Intesa fra Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania) capace di tenere stretta tra due fuochi la Germania, in luogo dello scomparso alleato russo; e Lloyd George, di aver abbattuto il pericolosissimo concorrente tedesco, specialmente nel campo navale e industriale, nonché del gigantesco bottino coloniale, era scarsamente interessato alle beghe degli “Europei” e, semmai, coltivava il sogno di mettere le mani sul petrolio di Baku e del Mar Caspio, magari realizzando un collegamento fra i pozzi di Mosul, in Irak, e il Golfo Persico, passando per l’Asia centrale russa (cfr. il nostro precedente articolo: «Quando l’Italia preparava una spedizione militare nel Caucaso (primavera-estate 1919)», consultabile sul sito di Arianna Editrice e su quello di Scrbd).
D’altra parte, è vero che la nostra classe politica e la maggior parte dei nostri pubblicisti e  giornalisti non si erano resi conto che, nel 1917-18, il carattere della guerra mondiale era radicalmente cambiato e che non era pensabile di presentarsi alla conferenza della pace con lo stesso identico armamentario ideologico che aveva fatto da cornice al Patto di Londra del 1915. Erano passati solo quattro anni, da quella data; ma, in un certo senso, era come se ne fossero passati cento. Non si seppe trarre le logiche deduzioni da eventi cui pure il governo italiano aveva dato un impulso, come il Congresso delle “nazionalità oppresse” o come l’arruolamento di truppe cecoslovacche, anche sul fronte italiano, prelevate dai prigionieri di guerra austro-ungarici: eppure bisognava capire che da passi del genere non si torna indietro e che, una volta messo in moto il meccanismo dei nazionalismi esasperati nell’Europa centrale, ne sarebbe derivata una situazione che avrebbe fatto degli Slavi del Sud dei potenziali avversari, proprio in quanto eredi della scomparsa Austria-Ungheria.
Tra l’altro, il “Congresso delle nazionalità oppresse”, tenutosi sotto la presidenza del senatore Ruffini, era sfociato nel patto di Roma, nel quale si dichiarava ufficialmente che «l’unità e l’indipendenza della Jugoslavia costituivano un interesse vitale dell’Italia». Perciò, i casi erano due: o il patto di Roma era stato solo un espediente tattico, dovuto anche alle incertezze sull’andamento della guerra (ancora nel giugno del 1918 gli Austriaci erano stati in grado di lanciare una temibile offensiva su tutto il fronte italiano, dal Grappa al basso corso del Piave); oppure era stato un passo politico ben ponderato, e allora non restava che fare buon viso alla scomparsa dell’Austria e stabilire relazioni il più possibile amichevoli con la nuova monarchia jugoslava. Non c’era spazio per una terza possibilità; e, in politica, incertezze e ambiguità sono fattori di debolezza che si pagano duramente, prima o dopo.
La questione di Fiume, però, fece emergere tutte queste contraddizioni e ambiguità, mettendo a nudo l’impreparazione e il pressapochismo dei responsabili della nostra politica estera. Ipnotizzati dall’annessione di Fiume, che non era prevista dal Patto di Londra, Orlando e Sonnino rinunciarono alla Dalmazia senza ottenere nemmeno Fiume stessa e così, alla fine, rimasero a bocca asciutta; mentre la loro assenza da Parigi servì solo agli Alleati per spartirsi le colonie tedesche in Africa, senza nulla lasciare all’Italia. Chiedemmo, senza troppa convinzione, la piccola colonia del Togo, ma ci venne risposto che i “compensi” coloniali cui l’Italia aveva diritto rientravano nell’ambito dell’Africa settentrionale e orientale.
Che l’Italia, alla Conferenza di Versailles, sia stata trattata come un parente povero, è un dato di fatto che emerge chiaramente dalla memorialistica dell’epoca; si legga, ad esempio, il libro di Luigi Aldrovandi-Marescotti, «Guerra diplomatica», e si finirà per convincersene. Tuttavia, bisogna dire che l’atteggiamento degli Alleati risaliva anche al modo in cui venne percepita e presentata la guerra italiana nella stampa e nell’editoria inglese, francese e americana. E, per rendersene conto, è sufficiente leggere una qualunque storia generale della prima guerra mondiale, scritta da un autore di quelle tre nazioni. Caporetto è presentata come una pagina talmente vergognosa, che l’Italia, dopo di essa, non avrebbe meritato altro che disprezzo dai suoi alleati; se, nonostante tutto, essa venne accolta fra i “grandi” al tavolo della pace, ciò fu un atto di benevolenza da parte di Wilson, Lloyd George e Clemenceau. Gli Italiani, nel 1918, credevano di aver vinto la guerra e di aver dato un contributo decisivo alla vittoria finale dell’Intesa, ma non era così: questa, in sintesi, la posizione di quasi tutti gli storici europei e americani contemporanei.
D’altra parte, bisogna ricordare che il Patto di Londra prevedeva che l’Italia dichiarasse guerra tanto all’Austria-Ungheria, quanto alla Germania; mentre la dichiarazione di guerra alla Germania fu ritardata fino all’agosto 1916, dopo aver rintuzzato la “Strafexpedition” austriaca nel Trentino. Ambiguità ed incertezze, ancora; che risalgono a quando, nel 1914-15, il governo italiano oscillò fra i due schieramenti in lotta, in attesa di schierarsi dalla parte del probabile vincitore.
Ed è necessario ricordare che non pochi nazionalisti italiani, nell’estate del 1914, insistevano perché l’Italia rimanesse fedele alla Triplice Alleanza ed entrasse in guerra contro l’Intesa, secondo i piani già predisposti dal generale Pollio, che prevedevano l’invio di una armata in Germania per schierarsi contro i Francesi nei Vosgi? Quegli stessi nazionalisti che, poche settimane dopo, avevano radicalmente mutato rotta e non volevano più combattere per Nizza, Savoia, la Corsica e la Tunisia; ma per Trento, Trieste, il Brennero e la Dalmazia.
Ambiguità; opportunismi; ondeggiamenti. La sconfitta austriaca nelle battaglie di Leopoli dell’agosto-settembre 1914, e, più ancora, la sconfitta tedesca nella battaglia della Marna, avevano provocato un simile ribaltamento di prospettiva. Ma la prima guerra mondiale, specialmente nella sua ultima fase, non era più una guerra “classica” per la conquista di territori e di materie prime, bensì una guerra ideologica, dove era necessario farsi una chiara idea di cosa sarebbe stata, da allora in avanti, la politica internazionale.
Dai discorsi di Piero Foscari emerge, invece, una visione generosa, ma provinciale e limitata delle questioni internazionali; e non si può essere nazionalisti intelligenti se non si possiede una visione ampia e articolata della politica internazionale. Per esempio, se si rivendicava Fiume all’Italia, bisognava anche domandarsi come avrebbe fatto la Croazia, ormai parte del nuovo Regno jugoslavo, a sopravvivere senza uno sbocco commerciale sull’Adriatico. Valeva la pena di inimicarsi la Jugoslavia, fin dalla sua costituzione in Stato sovrano e indipendente, per la sovranità su Fiume? È vero che Mussolini riuscirà ad ottenere la revisione del Trattato di Rapallo e la cessione di Fiume, nel 1924; ma, appunto, al prezzo di deteriorare irreparabilmente i rapporti con la monarchia di Belgrado.
Ancora. Dalle parole di Piero Foscari, emerge un malcelato disprezzo per le popolazioni croate, i moderni Uscocchi, così come una comprensione molto limitata del problema alto-atesino, ridotto a poche migliaia di montanari» tedeschi che erano scesi oltre lo spartiacque alpino, nell’epoca delle grandi invasioni barbariche. Ogni politica di conciliazione viene da lui bollata come timida e rinunciataria, e l’operato del commissario generale civile Luigi Credaro, nel 1919, viene addirittura equiparata al pangermanesimo dei sudtirolesi; la sola parola “autonomia” lo fa trasalire ed indignare.
Il fatto che l’Italia, con il Trattato di Saint Germain, avesse incorporato nel proprio territorio nazionale ben 200.000 cittadini di lingua tedesca e, con il Trattato di Rapallo, niente di meno che 500.000 cittadini slavi (Croati e Sloveni) non lo impensieriva minimamente. Né lo avrebbe impensierito l’annessione di altri 500.000 Slavi della Dalmazia, dal momento che egli ragionava solo in termini di confini strategici, non etnici, nonché di tradizione storico-culturale, non esitando a definire “barbari” gli Slavi medesimi.
Del resto Mussolini, in visita nel Friuli e nella Venezia Giulia l’anno dopo, nel settembre del 1920, non esiterà ad affermare: «Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani». E lo stesso Mussolini era stato alla testa di una gazzarra che, al Teatro Lirico di Milano, aveva ridotto al silenzio l’onorevole Bissolati, chiamandolo ingiuriosamente “Croato”, solo perché questi si era fatto sostenitore di una politica amichevole verso la Jugoslavia.
Questo è il sottinteso, razzista e imperialista, che spiega meglio di ogni ragionamento l’atteggiamento dei nazionalisti italiani nei confronti del problema del confine orientale. E, se si vuole essere onesti e non fare opera di mistificazione ideologica, bisogna riconoscere che il razzismo e l’imperialismo erano presenti da entrambe le parti: da quella slava non meno che da quella italiana. Bisogna avere l’onestà di ammettere che non era mai esistita molta stima, e meno ancora cordialità, fra l’elemento italiano - borghese e cittadino - e quello slavo - proletario e rurale - né in Istria, né in Dalmazia; e che la politica austriaca del “divide et impera” aveva aggravato sempre di più tali tensioni nazionali. La tragica vicenda delle foibe, nel settembre del 1943 e poi, di nuovo e ancor più, nell’aprile e maggio 1945, dimostra chiaramente che l’elemento slavo nutriva un odio profondo, ancestrale, nei confronti dell’elemento italiano, di fronte al quale le belle parole di Wilson non erano che le astruse esercitazioni di un retore.
Questi erano gli uomini, questo era il clima: almeno se vogliamo tenerci fermi alla “verità effettuale” delle cose, come direbbe Machiavelli, e non inseguire il sogno di come le cose potrebbero essere o avrebbero dovuto essere. Esistevano dei pregiudizi razziali; e la guerra del 1915-18 li aveva ulteriormente rinfocolati. Anche se la Serbia era stata, teoricamente, nostra alleata, le truppe croate dell’esercito austriaco erano quelle che si erano battute con più feroce determinazione contro di noi, sul Carso dapprima, indi sul Piave. Ci avevano considerati nemici, anzi, il nemico più pericoloso per le loro aspirazioni nazionali.
Del resto, il neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni aveva subito mostrato un appetito straordinario, cercando di ottenere confini molto più estesi di quelli che gli sarebbero spettati in base al principio di nazionalità. Aveva cercato di annettersi la Carinzia, per esempio; e solo la decisa reazione delle popolazioni tedesche del bacino di Klagenfurt era riuscita a respingere l’invasione armata slovena, fra parentesi con il sostegno della maggior parte della stessa minoranza slovena di quella regione.
Il Trattato di Rapallo, che i nazionalisti italiani come Foscari accolsero come un vero e proprio tradimento, perché il nostro governo rinunciava ad ogni pretesa sulla Dalmazia (tranne Zara e poche isole), in Jugoslavia fu accolto come una enorme ingiustizia e come una capitolazione davanti alla prepotenza italiana. Ancora ai nostri giorni, storici come Vladimir Dedijer (nel libro «Il groviglio balcanico e Sarajevo») sostengono che con tutti gli Stati limitrofi il governo di Belgrado giunse a una sistemazione delle frontiere sostanzialmente equa, tranne che con l’Italia: per loro, la frontiera del Nevoso era una patente violazione del principio di nazionalità.
La verità è che, fra due opposti nazionalismi, è pressoché impossibile stabilire una composizione soddisfacente per entrambi; e che la forza, la forza del vincitore, costituisce pur sempre l’elemento decisivo di ogni contesa.
Nel 1919 sia l’Italia, sia la Jugoslavia, risultavano dalla parte dei vincitori; ma l’Italia, con un peso politico superiore a quello della Jugoslavia (e dell’Austria), poté negoziare una frontiera che tenesse conto, se non altro, delle esigenze strategiche, che seguisse, cioè, lo spartiacque alpino orientale fino al Quarnaro.
Nel 1945 la Jugoslavia si trovò vittoriosa, sostenuta da un alleato ancor più potente, l’Unione Sovietica, con Francia e Gran Bretagna desiderose di ridurre ulteriormente il peso politico dell’Italia sconfitta e umiliata: e Tito poté seriamente pensare di potersi annettere anche Gorizia e Trieste, nonché di portare la frontiera, se non fino al Tagliamento, almeno fino al Torre.
Non sarà bello, ma, anche in quelle due circostanze, si vide chiaramente che è la forza a fare il diritto, e non il diritto a imporre le sue ragioni superiori.
I nazionalisti italiani, nel 1919, erano uomini vecchi, che pensavano vecchio; né vi sono motivi di pensare che avrebbero modificato il loro modo di ragionare, qualora l’Italia fosse uscita vittoriosa anche dal secondo conflitto mondiale.
Purtroppo, nella storia sembra che nessuno impari mai nulla dagli errori e dalle tragedie del passato: sicché i nazionalisti slavi, camuffati sotto l’internazionalismo comunista, si mostrarono, nel 1945, ancor più vecchi e ancora più ottusi di quelli italiani di un quarto di secolo prima.
Come ben sanno quei nostri 350.000 connazionali che dovettero fuggire dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, lasciando dietro di sé le porte delle case aperte, ultimo gesto di sfida a quegli Slavi che, entrando nelle città e nei borghi subito dopo la loro partenza, si accingevano a fare bottino di quanto essi erano stati costretti ad abbandonare per sempre.