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Federalismo demaniale, più risorse agli enti locali. A quali rischi?

di Francesco Bevilacqua - 17/05/2010


Sembra che la politica italiana voglia abbandonare il livello amministrativo centrale per dirigersi verso il decentramento che trasferisce agli enti locali maggior potere. Proprio in questi giorni si sta discutendo di un importante provvedimento attraverso il quale una serie di beni del demanio passerebbero dalla gestione statale a quella locale. Ma non sempre un'idea buona coincide con un'ottima realizzazione.


beni demaniali gestione enti locali
In questi giorni si parla molto di federalismo demaniale, ovvero del trasferimento di una serie di beni dalla gestione statale a quella degli enti locali
È in discussione proprio in questi giorni un provvedimento tanto importante quanto controverso, sotto diversi punti di vista. Si tratta di ciò che è stato denominato federalismo demaniale ovvero, in parole molto povere, il trasferimento di una serie di beni della più svariata natura – porzioni di costa, laghi, fiumi, canali, terreni agricoli e urbani, immobili e via dicendo – dalla gestione statale, in particolare del Demanio, a quella degli enti locali: Regioni, Province e Comuni.

Le considerazioni da fare sono tante, alcune positive e incoraggianti, altre fortemente negative, che hanno già suscitato reazione allarmate presso molti osservatori, come per esempio Legambiente.

Partendo da ciò che ci piace di questa iniziativa, si può dire che finalmente si comincia ad andare con i fatti e non solo con le parole nella direzione del decentramento, del conferimento di maggiori poteri, risorse e di strumenti più efficaci agli enti locali.

Sembra che la volontà sia proprio quella di accantonare il modello amministrativo centralista e clientelare tipico della casta politica italiana. Sembra però è proprio la parola giusta. Perdonateci, ma oramai siamo scettici di fronte a operazioni strategiche di questo tipo. Non vogliatecene se nutriamo qualche dubbio sulla volontà di decentrare realmente la gestione di importanti risorse e di dare finalmente ai piccoli amministratori locali, che ora sopravvivono – quasi sempre contro la loro volontà, è ovvio – ai danni del loro territorio, ovvero incassando gli oneri di urbanizzazione derivanti dalla cementificazione massiccia.

Al di là della sterile polemica politica dell’opposizione - peraltro smentita da un appoggio alla votazione in sede di commissione parlamentare - esistono due ordini di problemi, di reali criticità che contraddistinguono la manovra di federalismo demaniale. Entrambi discendono dalla possibilità che hanno gli enti che ricevono i beni, attualmente in capo al demanio, di alienare i beni stessi, cioè di venderli ai privati.

È giusto dire che esistono particolari categorie esenti da questa eventualità – come per esempio i beni sottoposti a vincolo architettonico –, ma lo scenario prevede che un Comune che entra in possesso di una spiaggia, di un bacino o di una grande area urbana dimessa, magari una ex caserma, possa cederla a soggetti privati, verosimilmente costruttori, nella peggiore delle ipotesi speculatori.

L’unico vincolo da osservare nel compiere questa operazione, è che l’85% del ricavato dovrà essere utilizzato per ripianare l’eventuale debito dell’ente in questione, mentre il 15% sarà obbligatoriamente destinato al fondo di ammortamento per i Titoli di Stato. Questo solleva il primo problema: gli enti locali italiani, soprattutto i comuni, sono oggi in una condizione di grave ristrettezza economica e mancano delle risorse finanziarie primarie per poter tirare avanti (pensiamo all’abolizione dell’ICI, tassa comunale). C’è quindi il concreto rischio che la stragrande maggioranza degli enti interessati venda effettivamente ciò che eredita da questa operazione per risanare il proprio bilancio.

Federalismo demaniale
Ancora una volta infatti, lo Stato centrale fa bella figura con un provvedimento falsamente federalista
Il secondo problema è di ordine politico. Ancora una volta infatti, lo Stato centrale fa bella figura con un provvedimento falsamente federalista – per quel poco che può valere, il leghista Monti si è astenuto dalla votazione del provvedimento in Commissione Ambiente e Territorio – che in realtà scarica la patata bollente agli enti locali, i quali saranno poi i diretti responsabili della privatizzazione di una considerevole porzione del patrimonio pubblico italiano. A tal proposito, è opportuno sottolineare come le rendite di questi beni sono irrisorie rispetto alla loro entità: il Demanio stesso parla di meno di 240 milioni di euro su scala nazionale.

Come giudicare questa operazione quindi? Diciamo così: buona l’idea, pessima la realizzazione, per ora. Se si riuscisse a inserire un vincolo che inibisce la vendita di beni di importanza fondamentale per la collettività, l’operazione sarebbe certamente degna di lode e costituirebbe un primo passo tangibile, concreto e fruttuoso verso la valorizzazione degli enti locali. La rivalutazione poi, interesserebbe in primis i beni stessi, oggetti del passaggio: Regioni, Province e Comuni avrebbero certamente un maggiore interesse rispetto allo Stato centrale ad adoperarsi per ottimizzare, rivalutare, tutelare e potenziare il patrimonio che ricevono, avendone anche maggiore cura poiché esso costituisce una parte importante del loro territorio.

Così com’è formulato attualmente tuttavia, già questo primo parere di commissione solleva numerosi dubbi e perplessità, per lo più legati al rischio di privatizzazione, aggravato dalla speculazione, che in questo momento è più che mai concreto. Come se non bastasse, i tempi imposti dal governo non aiutano: entro il 21 maggio 2011 infatti, l’intero processo dovrà essere completato. Considerato che al momento non è stato neanche terminato il censimento dei beni e delle aree che saranno oggetto del trasferimento, il pericolo che la fretta impedisca di porre rimedio alle criticità che abbiamo rilevato è molto serio.