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Viene dall'estero la verità sulle stragi?

di Luciano Lanna - 26/05/2010

 

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Il 14 novembre del 1974 sulla prima pagina del Corriere della Sera compariva un celebre editoriale in cui Pier Paolo Pasolini diceva la sua sulle stragi che stavano insanguinando l'Italia da qualche anno. «Io so - scriveva il poeta - i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974....».
Pasolini aggiungeva: «Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974)». Per arrivare però a concludere: «Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero...».
Dalla data dell'articolo pasoliniano lo stragismo e il terrorismo continuarono a segnare in Italia una lunga fase di violenza e morte sino ai primi anni Ottanta. Ma a oggi non si è mai riusciti a mettere insieme, come avrebbe voluto Pasolini, tutti i pezzi frammentari in un insieme coerente in grado di dirci la verità. «Ci sono verità - ha detto ancora nel 2003 Rosario Priore, giudice istruttore per tanti casi di terrorismo di lunga esperienenza, al giornalista Giovanni Fasanella - che non ho mai potuto dire. Perché pur intuendole e a volte intravedendole o addirittura vedendole chiaramente, non potevano essere provate sul piano giudiziario. Erano verità "indicibili", secondo il neologismo coniato da Giovanni Pellegrino e, scritte in una sentenza, avrebbero produrre effetti destabilizzanti sugli equilibri interni e internazionali». Su tutta questa questione Fasanella, giornalista di Panorama e già autore di altri libri sul tema, ha messo su un lungo dialogo con Priore realizzandone un libro che si legge tutto d'un fiato: Intrigo internazionale. Perché la guerra in Italia. Le verità che non si sono mai potute dire (edizioni "chiarelettere", pp. 195, € 14,00).
Il cuore della discussione ruota intorno a una domanda tutto sommato spontanea: per quale ragione l'Italia, in particolare dal 1969 al 1980, è stata dilaniata da una violenza politica estrema che ha assunto la forma dello stragismo e quella dell'omicidio selettivo provocando centinaia di morti e migliaia di feriti? Rosario Priore, che si era occupato del caso Moro, della strage di Ustica, dell'attentato a Giovanni Paolo II e di tanti altri casi di eversione, lasciato l'ufficio istruzione del tribunale per trasferirsi ad altri incarichi non ha mai smesso di cercare una risposta a questi interrogativi. Ha ripreso in mano le fila delle sue vecchie inchieste, ha letto e riletto la montagna di carte custodite nei suoi archivi. Ha cercato nuove testimonianze, ha letto ogni libro pubblicato sull'argomento. E per lui - come anche per Fasanella - è ormai chiaro che per via giudiziaria, a ormai troppi anni di distanza dai fatti, non sia possibile giungere a risultati diversi da quelli ottenuti a suo tempo. «La magistratura - spiega Fasanella - non è mai riuscita ad arrivare fino in fondo nella ricerca della verità perché il lavoro dei giudici ha sempre dovuto fare i conti con ostacoli insormontabili, depistaggi, prove sottratte, informazioni negate». Insomma, per diversi decenni, la storia delle inchieste su questi fatti è stata condizionata anche da uno scontro per impedire che la garanzia di legalità turbasse interessi superiori dell'Italia, le sue relazioni con altri paesi, i suoi interessi economici e geopolitici e gli equilibri internazionali. Ecco perché, in sostanza, la giustizia si è dovuta quasi sempre fermare e «non ha potuto ricostruire i contesti in cui il terrorismo ha agito e gli interessi geopolitici che lo hanno alimentato». Sostiene infatti Priore che «oltre a quella giudiziaria, esiste una verità politica. E una ancora più alta, molto più complessa e molto più difficile a raggiungersi: la verità storica». Tanto per dire, da questo punto di vista Priore smantella tutta la vulgata sullo stragismo: «Posso dire - esordisce l'ex magistrato - una cosa controcorrente? L'esito giudiziario delle stragi compiute tra il 1969 e il 1974, a mio parere, è stato condizionato da certe interpretazioni che hanno nuociuto moltissimo al lavoro investigativo di polizia e magistratura. Si tratta di stragi dalla matrice ancora incerta. E la stessa cosa per la strage alla stazione di Bologna dell'agosto 1980 e per la tragedia di Ustica». Non solo non c'è una verità storica ma quella giudiziaria deve essere messa in archivio: «Quelle indagini hanno sofferto di teorizzazioni che hanno impedito che si arrivasse alla verità. Era il tempo in cui certe procure prima elaboravano un teorema, anzi a parer mio dei veri e propri postulati, da cui facevano discendere le interpretazioni dei fatti, le connessioni, la realtà tutta...».
Priore invita quindi al alzare lo sguardo sul contesto internazionale: «Qualcuno dall'estero ha soffiato sul fuoco italiano e si è avvantaggiato della debolezza del nostro paese. Mi riferisco ai servizi segreti di quei paesi che avevano interesse a giocare determinate partiti sul nostro territorio, ovviamente a tutela di interessi propri o dei blocchi a cui appartenevano». E per dirla tutta fuori dai denti: «Diciamolo: le grandi stragi compiute in Italia non sono opera di bande di ragazzi, ma grandi operazioni politiche progettate nelle capitali di paesi che avevano interesse a tenerci sotto scacco».
Il contesto è quello di una guerra invisibile per il controllo del Mediterraneo e delle sue fonti energetiche che Priore documenta forte dei suoi riscontri. E il quadro è sufficientemente chiaro: oltre agli Usa e all'Urss è esistito un terzo attore (Gran Bretagna, Francia e Israele) che ha puntato sulla destabilizzazione italiana, inserendosi nella grande partita tra le due superpotenze d'allora. L'Italia di Enrico Mattei e Aldo Moro dava fastidio perché, nonostante la sconfitta bellica, era riuscita a proseguire pacificamente la politica mediterranea di Crispi e Mussolini compiendo negli anni Sessanta un balzo economico che la portà a competere con le potenze vincitrici europee che, nello stesso giro d'anni, videro invece crollare i loro secolari imperi sotto la spinta della decolonizzazione. L'egemonia franco-britannica si stava sgretolando. E l'Italia aveva sostenuto, nel 1969, in Libia la presa di potere da parte di Gheddafi che aveva chiuso la porta agli interessi britannici tutelati da re Idris. E gli inglesi, perdendo la Libia, di fatto si ritrovarono fuori del Mediterraneo perché, di lì a poco, furono costretti a lasciare anche le isole di Cipro e di Malta. Priore evidenzia come, ad esempio, Piazza Fontana accade nel dicembre 1969, a poco più di tre mesi del golpe di Tripoli. Inoltre, aggiunge il fatto che «l'espressione "strategia della tensione" fosse stata coniata proprio dalla stampa inglese in quello stesso dicembre 1969. Quell'espressione - aggiunge - pesa ancora oggi come un macigno sulla nostra storia, perché continua a essere la chiave d'interpretazione non solo di Piazza Fontana, ma dell'intero periodo degli anni di piombo. E un altro elemento merita di essere ricordato: l'esplicita accusa mossa agli inglesi dall'allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat». Pochi giorni dopo la strage, quando i giornali britannici tornarono a parlare di "strategia della tensione" per alludere a responsabilità tutte italiane, «Saragat reagì ritorcendo l'accusa contro gli inglesi, riferendosi a rapporti dei servizi britannici con gli ambienti in cui era maturato il progetto dell'attentato».
Non solo le bombe del '69, comunque, ma anche l'attentato all'aereo Argo 16, i progetti di golpe del '76, la strage di Bologna e quella di Ustica, si spiegano, secondo Priore, dentro questa guerra calda e costituiscono degli avventimenti o delle ritorsioni per l'azione italiana nel Mediterraneo. Eppure le inchieste giudiziarie su questi fatti si sono sempre rivelate un fallimento. «C'è da dire - spiega Priore - che al tempo delle stragi le strutture investigative avevano una formazione in grado di affrontare e risolvere reati minori, compiuti da singoli e da bande della criminalità comune. E bisogna aggiungere che gli autori e le menti delle stragi erano talmente abili che lasciavano falsi indizi e false prove. E si diffondevano anche piste artefatte. Si confezionavano veri e propri "pacchi" e "pacchetti". I magistrati, in definitiva, preparati in materia di diritto non lo erano di fronte a eventi di quella portata, che presupponevano ben altre strutture mentali e culturali. Non avevano una cultura storica, geopolitica e anche dell'intelligence...». E invece, stando a Intrigo internazionale, le centrali straniere che soffiavano sul fuoco delle nostre tensioni interne erano numerose. E anche i magistrati subirono l'effetto dei depistaggi, che nascevano da schemi come la "strategia della tensione" - nata in una Gran Bretagna in fibrillazione per i successi della nostra politica estera in Nord Africa - o quella di "strage di Stato". Purtroppo, tra la fine del '69 e tutti i primi anni Settanta questa chiavi di lettura «diventano le parole d'ordine sia degli inquirenti sia dei giornalisti che della folla dei politici che si accalca attorno alle inchieste». E anche per farla finita con queste letture è proprio il caso di leggersi il libro di Fasanella e Priore.