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Il pensiero “ecologista” di Walther Darré è ancora un segno di contraddizione

di Francesco Lamendola - 17/06/2010



La seconda guerra mondiale è finita da sessantacinque anni, circa il tempo tre generazioni: è molto, è poco?
A volte sembra pochissimo, quando ci si accorge quale imbarazzo suscitano ancora certi nomi nel salotto buono della cultura odierna.
Prendiamo il nome di Berto Ricci, ad esempio, sul quale ci proponiamo di tornare quanto prima con uno scritto specifico: impossibile negare la sua statura intellettuale e morale, la sua cristallina coerenza (magari ce ne fossero altri come lui, oggi); e, tuttavia, impossibile negare il suo fascismo. Appunto, il SUO fascismo: ma quanti sono stati i fascismi? E fino a che punto li si è voluti semplificare, appiattire, omologare su un modello unico di comodo, grottesco, caricaturale, allo scopo di poterlo meglio deridere, vilipendere, o, semplicemente, rifiutarsi di prenderlo in considerazione? Quest’ultima soluzione, la più comoda e la più ipocrita, fu quella del filosofo Benedetto Croce, con la sua teoria sulla «invasione degli Hyksos»: quasi che il fascismo fosse sceso sull’Italia direttamente dal pianeta Marte.
Oppure, uscendo dai confini dell’Italia, prendiamo il caso di Ricardo Walther Darré, che fu ministro per l’Agricoltura e presidente dell’Associazione dei contadini nella Germania hitleriana: caso ancor più imbarazzante, se possibile, di quanto il nazismo è più imbarazzante (e peggio) del fascismo, rispetto alle categorie culturali, politiche e morali della odierna democrazia.
Che cosa c’è di più lontano dal totalitarismo nazista, si pensa oggi comunemente, del pensiero ecologista e dei movimenti politici “verdi” che ad esso si ispirano? Guarda caso, l’unico Paese d’Europa nel quale i Verdi abbiano raggiunto una discreta forza elettorale è la Germania, dove si sono alleati con la socialdemocrazia per formare dei governi di centro-sinistra; e, per di più, con una resuscitata icona del Maggio ’68: quel Daniel Cohn-Bendit, già “eroe” barricadiero del Quartiere Latino, eletto deputato al Parlamento europeo nel 1994.
Eppure…
Proprio nella Germania guglielmina e, poi, nazista, era diffuso un robusto movimento ecologista “ante litteram”, fondato in parte sulle idee steineriane circa l’agricoltura biodinamica, in parte sulla reazione antiborghese dei cosiddetti Wandervoegel (“Uccelli migratori”, studenti girovaghi che anticipavano il Waldgänger poi profetizzato da Ernst Jünger) ed in parte sul mito ruralista e tendenzialmente razzista del “sangue e suolo” (“Blut und Boden”) e sulla ricerca di una nuova aristocrazia spirituale fondata sul rifiuto della modernità o, quanto meno, su un atteggiamento molto critico verso di essa, così come verso l’industrialismo, l’urbanesimo, l’internazionalismo (tutti elementi, sia detto fra parentesi, che si ritrovano, in diversa misura, anche nel nostro movimento di Strapaese e nel pensiero di Berto Ricci).
Dobbiamo considerare tutto questo come una semplice coincidenza, oppure esiste un nesso organico fra l’odierno ecologismo europeo e gli aspetti proto-ecologisti presenti nella Germania degli anni Venti e Trenta del ‘900 e particolarmente nella concezione di Darré, esposta nei due libri «Il mondo contadino come sorgente di vita della razza tedesca», del 1928, e «Una nuova aristocrazia basata su sangue e suolo», del 1929?
La storica inglese Anna Bramwell, già ricercatrice presso il Trinity College di Oxford, ha delineato la figura e il pensiero di questo anomalo esponente del Terzo Reich, nell’ormai lontano 1985, in un lucido volume con cui la cultura contemporanea politicamente corretta ha cercato di non fare i conti: «Walther Darré and Hitler’s Green Party» (Londra, Kensal Press), un estratto del quale apparve, con l’intrigante titolo «Il padre dei Verdi era un nazista?», sul mensile «Storia Illustrata» del novembre 1985, all’epoca diretto da Giordano Bruno Guerri. A quella monografia rimandiamo il lettore italiano desideroso di approfondire l’argomento.
Darré odiava la civiltà industriale e aveva un sentimento tolstoiano della natura e della vita rurale; sognava un’Europa ove i contadini, da sempre oppressi e disprezzati (si pensi solo alla guerra di sterminio condotta contro di essi dai principi tedeschi nel 1525, con la lugubre benedizione di Lutero), diventassero la nuova aristocrazia; un’Europa dove la campagna assediasse letteralmente le città, le svuotasse del loro veleno - la fabbrica -, e le costringesse ad assumere più umili dimensioni, strappando loro l’egemonia culturale e politica fino ad allora esercitata.
Come si vede, il suo pensiero rientrava perfettamente in quella paura della modernità e in quel rifiuto dell’urbanismo di stampo americaneggiante che spazzò l’Europa tra le due guerre mondiali e di cui si possono cogliere numerosi riflessi, oltre che nella filosofia e nelle arti figurative, nella letteratura: dalla narrativa del romeno Cézar Petrescu (specialmente nel romanzo emblematico «Calea Victoriei», a quella del norvegese Knut Hamsun (col bellissimo «Pan»), al già citato Jünger, alla nostra rivista «Il Selvaggio» di Mino Maccari ed anche all’opera di Cesare Pavese e alla sua contrapposizione fra città e campagna e fra storia e mito.
Presenta anche significativi punti d’incontro con la critica all’occidentalizzazione portata avanti dal filosofo russo contemporaneo Aleksandr Zinov’ev, del quale ci siamo appena occupati (con l’articolo «L’occidentalizzazione del mondo nel pensiero di Aleksandr Zinov’ev» del 14/06/10, sempre sul sito di Arianna Editrice) che, a sua volta, si rifà, almeno in parte, al pensiero di Dostojevskij e al dibattito tra slavofili e occidentalisti nella Russia di fine ‘800, che fa da sottofondo al capolavoro «I fratelli Karamazov».
Un aspetto particolarmente imbarazzante delle teorie di Darré, che si è trasmesso ad alcuni filoni del contemporaneo pensiero “verde” (quello di David Icke, per citare un nome), è - imbarazzo nell’imbarazzo di questa inattesa, ingombrante parentela - una certa propensione, se non all’antisemitismo, certo alla diffidenza verso il modello culturale e, in parte, politico, di cui gli Ebrei sono stati portatori nel ‘900.
Da Marx e Trotzkij a Cohn Bendit, Bernard Henry-Lévy e André Glucksmann, gli Ebrei sono stati all’avanguardia del pensiero socialista, rivoluzionario e “gauchista”. Però sono stati anche all’avanguardia, con i Rotschild ed altri potenti gruppi d’affari, di quel capitalismo d’assalto, finanziario e industriale, che ha contribuito a sostenere il Partito nazista nella sua scalata al potere, ha avuto pesantissime responsabilità nel crollo della Borsa di Wall Street e poi, dalla roccaforte di New York, ha sponsorizzato il braccio armato del sionismo attraverso lo Stato di Israele, fino alle ultime vicende dell’operazione “Piombo fuso” contro Gaza e dell’assalto alla flottiglia umanitaria che cercava di portare viveri e medicinali alla stremata popolazione della Striscia, sottoposta da anni ad un blocco illegale.
Ora, viviamo in tempi di terribile semplificazione e di incessante ricatto psicologico e culturale, retaggio della guerra fredda ma, ancor più, frutto del Pensiero Unico ormai saldamente stabilito. Un neo-manicheismo sostenuto da appositi apparati repressivi, sia psicologici che giuridici e polizieschi, è stato imposto ovunque con successo, in nome di un manicheismo democratico ed egualitario tanto demagogico quanto funzionale ai poteri forti, i quali - a differenza di quelli del Novecento - si tengono scrupolosamente nell’ombra, sforzandosi di far parlare di sé il minimo indispensabile (vedi il Gruppo Bilderberg, la Commissione Trilaterale e le riunioni annuali nel Bosco Boemo, presso Sonoma, in California).
Di questi tempi, si vorrebbe riscrivere la storia recente in termini di violento chiaroscuro, con tutto il Bene da una parte sola e tutto il Male possibile, dall’altra. Di conseguenza, scoprire che alcuni tratti del pensiero ecologista erano già presenti nel nazismo (ma siamo sicuri che ci sia stato un solo nazismo, come ci sarebbe stato un solo fascismo?), risulta inaccettabile alla maggior parte delle persone, anche di discreta cultura; per cui bisogna per forza o negare quella derivazione, magari a dispetto dell’evidenza, oppure parlare di convergenze casuali.
Ma, come diceva appunto Berto Ricci, forse sarebbe ora di liberarci delle ultime scorie idealiste (con buona pace di Hegel e Croce) e di renderci conto che non tutto è storia: perché storia non è tutto quello che passa, ma quello che permane.
Ciò premesso, non bisogna nemmeno cadere nell’eccesso opposto, tentando una strisciante riabilitazione del nazismo in funzione di quegli aspetti “ecologisti” che pure ebbero cittadinanza in esso, e sia pure cittadinanza minoritaria (Darré fu e rimase un isolato e alla fine, nel 1942, dovette dimettersi da ministro). Per cui, ad esempio, constatare come Darré fosse un fervente sostenitore dell’agricoltura biodinamica e fosse seriamente preoccupato per l’esaurimento e l’avvelenamento del suolo, non significa, automaticamente, che gli ecologisti d’oggi debbano sentirsi culturalmente debitori del nazismo, perché è molto più logico ammettere che sia il nazismo, o meglio le frange ecologiste in esso presenti, sia l’ecologismo dei nostri giorni, traggono ispirazione da alcuni principî e, diciamolo pure, da alcuni timori, che non sono propri né di questa, né di quell’area culturale, ma hanno a che fare, più genericamente, con il disagio della modernità.
E qui si giunge al punto cruciale del discorso. Abbiamo visto che l’odio per la civiltà urbana, borghese e decadente, e l’esaltazione di una forte razza di contadini, sana e laboriosa, era una componente culturale non secondaria dell’Europa del primo Novecento, che poi andò a confluire, rispettivamente, nelle utopie ruraliste tanto del fascismo, quanto del nazismo; portandosi dietro, in questo secondo caso, il suo logico corollario, l’antisemitismo (in quanto gli Ebrei erano gli sradicati per eccellenza e i massimi esponenti del pensiero urbano e industriale: non si dimentichi l’adorazione di Marx per la macchina).
Ebbene: il fatto che, nel fascismo e nel nazismo, andarono a confluire e a coagularsi molti elementi di origine ruralista, antiborghese, anti-industriale, e in una parola molti elementi nati dalla paura e dal rifiuto della modernità (ma il dibattito storico è ancora apertissimo: perché è certo che nel fascismo e nel nazismo vi furono anche elementi di esaltazione della modernità, come già era accaduto nel caso del futurismo) non significa che, in nome di essi, si possa rivendicare a quei movimenti una capacità profetica alla quale, ora, noi ci dovremmo riallacciare, come le pecorelle smarrite che tornano al pastore; ma non significa neppure che, ipocritamente, si debba far finta di non vederli o che li si debba negare e misconoscere.
Il punto decisivo è che un rifiuto della modernità, il quale nasca dalla paura e dal desiderio di tornare all’antico, non può che dar luogo ad una concezione regressiva, anti-storica (nel senso indicato da Berto Ricci e non in quello di Croce) e, in ultima analisi, reazionaria, con gli inevitabili riflussi razzisti e isolazionisti: si pensi, oggi, al fenomeno culturale del leghismo, almeno nelle sue forme più rozze e velleitarie. Al contrario, una critica della modernità che ne assuma tutta la complessità e che ne metta in evidenza i limiti e i pericoli, filosofici non meno che pratici ed ecologici, si caratterizza come la doverosa e necessaria ricerca di una alternativa praticabile all’incombente catastrofe planetaria: senza di che, essa diviene sterile esercizio retorico o, peggio, irresponsabile nichilismo e moda intellettuale senza sostanza etica.
Così, per esempio, nell’ideologia della Guardia di ferro di Codreanu si possono cogliere tanto una sincera aspirazione alla rifondazione morale della società romena, mediante un ritorno alla terra vista come sorgente di valori religiosi (in fondo, è lo stesso programma di Ottaviano Augusto dopo la fondazione del’Impero, sostenuto da intellettuali del calibro di Virgilio e Orazio), sia elementi intrinsecamente distruttivi, come un antisemitismo fanatico e l’esaltazione della violenza sistematica come “normale” strumento di lotta politica, che portarono all’imbarbarimento della vita sociale e aprirono la strada alla dittatura del generale Antonescu.
Il caso dell’Italia e della Germani fra le due guerre è diverso da quello della Romania. Sia per Mussolini che per Hitler, il mito ruralista era, in sostanza, uno strumento propagandistico, in cui essi credevano poco; e ciò era particolarmente vero per la Germania, società industriale avanzata, in cui un “ritorno alla terra” era un anacronismo di fatto, alquanto stridente e decisamente inaccettabile per i ceti industriali e finanziari che sostenevano Hitler, pur se gradito agli junker prussiani e soprattutto ai contadini.
Tornando all’Europa, e anzi al mondo, dei nostri giorni - il mondo della globalizzazione, dove la catena di fabbricazione di un paio di jeans passa attraverso una dozzina di Paesi e dove l’incidente petrolifero nel Golfo del Messico è destinato e ripercuotersi in ogni angolo dell’orbe terracqueo - occorre avere ben chiaro che l’ideologia della modernità: materialista, meccanicista, riduzionista, deve essere oltrepassata, non semplicemente negata; e oltrepassata conducendone una critica circostanziata e puntuale, che ne sappia cogliere gli stimoli utili, in vista di un salto di qualità della nostra evoluzione, sia materiale che spirituale.
Ciò significa che, per esempio, sul terreno della politica noi dobbiamo pensare, studiare e proporre qualche cosa che sia di più e di meglio della democrazia; non qualche cosa che sia di meno e di peggio, come la dittatura o il totalitarismo esplicito.
Solo se sapremo fare questo, potremo anche cogliere onestamente gli spunti potenzialmente positivi presenti nel pensiero protoecologista di un Darré - che, sia detto per inciso, non amava la guerra e non era un imperialista -, così come in una parte non secondaria della filosofia, dell’arte e della letteratura della prima metà del Novecento.
Dobbiamo avere l’onestà intellettuale di riconoscere che ci siamo sbagliati.
La critica al capitalismo è stata condotta in gran parte con le categorie politiche e culturali del marxismo-leninismo, vale a dire dell’altra faccia della concezione industrialista; la quale ha prodotto, a livello ecologico non meno che a livello sociale, disastri non certo minori di quelli del capitalismo stesso.
D’altra parte, l’utopia tolstoiana e gandhiana non offre se non  soluzioni regressive e consolatorie: ed è significativo che Gandhi, discepolo ideale di Tolstoj, sostenesse che «il peccato più grave di tutti è la macchina»: tipico esempio di quel rifiuto e di quella paura che si esprimono in una demonizzazione di ciò da cui non si riesce a liberarsi (in senso psicologico prima ancora che in senso materiale).
Il nostro domani è ancora tutto da scrivere.
Ci vogliono rigore, onestà, capacità di critica e di autocritica; soprattutto, bisogna smetterla di pensare per luoghi comuni ideologici e liberarsi dall’ossessione della “destra” e della “sinistra”, due categorie che non vogliono dire più nulla.
Il che  non significa cadere nel qualunquismo, ma riscoprire la concretezza e la bellezza del pensiero e dell’azione consapevoli, formulati in vista di fini e di valori e non semplicemente di paure, di ripulse o di oscure e inconfessabili nostalgie.
D’altra parte, una vera consapevolezza olistica, oggi, implica il superamento del concetto stesso e delle pratiche legate all’ecologismo “stricto sensu”, il che la rende ancora più emancipata rispetto alle radici otto e novecentesche del pensiero ambientalista e biodinamico. Oggi, davanti ai disastri apocalittici dell’inquinamento ed all’esaurimento progressivo delle materie prime necessarie a questo tipo di economia, emerge con chiarezza la necessità di ripensare i concetti stessi di sviluppo e di crescita (il «principio di sovrabbondanza» tipico della modernità), riconoscendo in essi la radice del vicolo cieco nel quale attualmente siamo venuti a trovarci.
Oggi è necessario pensare non più in termini di “sviluppo sostenibile”, ma di “decrescita sostenibile”, come affermato da studiosi quali Serge Latouche, Edward Goldsmith, Alain de Benoist, Mauro Bonaiuti; tanto più che tutta l’economia liberale classica, responsabile della disastrosa situazione attuale, è basata su un vero e proprio errore scientifico e filosofico, in quanto si ispira al modello della  meccanica newtoniana ed ignora la termodinamica e il principio dell’entropia, ossia l’irreversibilità delle trasformazioni di materia ed energia.
Occorre pensare in grande, rifiutando il paradigma economico e culturale oggi dominante; ma senza sognare impossibili scorciatoie. L’utopia di una società contadina che si “sbarazza” dell’urbanesimo, accarezzata da uomini come Walther Darré, l’abbiamo già vista in opera, purtroppo: è stata praticata dai Khmer rossi di Pol Pot, che svuotarono a forza le città cambogiane, a cominciare da Phnom Penh, nel contesto di una politica di “moralizzazione dei costumi” che si è configurata come un vero e proprio genocidio.
Pensare in grande, dunque, ma con saggezza e discernimento: questa è la sfida che ci attende.