Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / I nuovi Pentagon Papers

I nuovi Pentagon Papers

di Carlo Musilli - 30/07/2010



Il cataclisma che da qualche giorno ingombra la sezione “Esteri” dei giornali, l’affare WikiLeaks, ha un fratello maggiore. Quarant’anni fa è successo qualcosa di simile. L’ “Afghan War Diary”, il dossier di 92mila file militari segreti pubblicato su internet e su tre dei maggiori quotidiani del pianeta, ha un precedente storico molto noto ai lettori americani, i Pentagon Papers. Il collegamento fra le vicende è piuttosto ovvio, ma ci sono banalità che conviene non dimenticare.

Nel 1967 il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Robert Mc Namara, commissiona al Dipartimento della Difesa un rapporto sul coinvolgimento politico-militare americano in Vietnam dal 1945 al 1967. Nascono così, un anno dopo, i Pentagon Papers. Documenti top-secret, naturalmente. Tre anni dopo uno degli analisti militari autori del rapporto, Daniel Ellsberg, scopre di essere contrario alla guerra in Vietnam e decide di fare quanto in suo potere per fermarla. Fa una copia del rapporto e la passa a Neil Sheenan, reporter del New York Times.

La pubblicazione dei Pentagon Papers inizia nel giugno del 1971: le amministrazioni di quattro presidenti americani (Truman, Eisenhower, Kennedy e Johnson) vengono sbugiardate in prima pagina. Si scoprono bombardamenti in Cambogia e Laos di cui nessuno aveva mai sentito parlare. Si scopre che Johnson aveva pianificato di estendere la guerra e di bombardare il Vietnam del Nord già durante la campagna elettorale, quando prometteva il contrario. Vengono svelate falsità e mistificazioni. Quello dei Pentagon Papers è uno scoop in senso proprio: rivelazioni inaspettate di avvenimenti clamorosi.

In risposta, il presidente Nixon accusa Ellsberg di alto tradimento e ottiene da una corte federale un’ingiunzione che proibisce al New York Times di continuare a pubblicare i documenti. Non c’è problema, va avanti il Washington Post (da questo punto di vista il coraggio e l’autonomia degli americani andrebbero imitati). Nel frattempo la Corte Suprema, nel nome del celebre primo emendamento, ripristina il diritto del Nyt a pubblicare i Papers. E vissero felici e informati.

Ora proseguiamo con le banalità: nel 1971 non esiste internet. E’ quindi perfettamente logico che un analista come Ellsberg scelga le colonne di uno dei più importanti quotidiani per informare il pianeta. Inchiostro su carta. Meno intuitiva è la ragione per cui, quarant’anni dopo, un uomo come Julian Paul Assange scelga di fare la stessa cosa. Parliamo di un veterano delle reti informatiche: ex programmatore di computer, ex hacker, direttore da quattro anni del pluripremiato sito WikiLeaks. Eppure, un signore del web come lui, in grado di raggiungere il mondo intero in tempo reale, quando si è trovato per le mani l’Afghan War Diary ha alzato la cornetta e ha telefonato ai cari vecchi quotidiani.

New York Times (ancora), The Guardian e Der Spiegel. Tre icone della quality press. Evidentemente le testate storiche assicuravano a Assange qualcosa che lui sapeva di non poter garantire: la massima credibilità possibile. Si è sentito dire qualsiasi cosa a proposito di quei 92mila file, tranne che siano falsi. Se i giornalisti di New York Times, Guardian e Spiegel per un mese verificano una notizia e poi la pubblicano, chi si sente minacciato non può comunque negare, deve scegliere un’altra strategia difensiva.

E qui si sono aperte due strade fondamentali: da una parte “la pubblicazione di questi documenti mette in pericolo i nostri uomini e la nostra missione”, dall’altra “che c’è di nuovo? Sono cose che si sapevano già”. Entrambe confutabili, entrambe pericolose. Nel primo caso si fa appello al patriottismo becero, al rassicurante senso di far parte di una comunità minacciata dall’alieno, a tutto quel repertorio da sociologi d’accatto che rivela la disponibilità a giustificare ogni machiavellismo pur di continuare a sentirsi al sicuro.

In realtà, come spiega il direttore del New York Times, “nella loro forma originale, non rivista, questi documenti avrebbero potuto davvero mettere a rischio delle vite”, ma soprattutto “quelle dei cittadini afgani identificabili come collaboratori della Nato. E’ per questo che abbiamo realizzato un grande sforzo per eliminare questi riferimenti dai nostri articoli”.

Per quanto riguarda invece la posizione del “nulla di nuovo sotto il sole”, la questione è forse più delicata. Qui risiede la differenza più evidente fra Pentagon Papers e Afghan War Diary. I primi hanno fatto emergere verità effettivamente non conosciute, non sospettabili; anzi, hanno rovesciato delle convinzioni radicate. La gente ha capito di aver creduto vero qualcosa che era falso.

I documenti di WikiLeaks sembrano invece confermare qualcosa che più di una persona, non solo nelle alte sfere, già sospettava. I pakistani fanno il doppio gioco, le forze armate afgane sono inadeguate, molti civili sono morti durante la guerra. Sono alcuni esempi di cose atroci, non insospettabili. E con ciò? Siccome posso immaginare l’eventualità generale è inutile che venga informato sul fatto particolare? “Sono cose che si sapevano già”. E’ una frase inutile. E’ la frase di chi non trova un’opinione da controbattere quando sono i fatti a parlare.