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Gengis-Khan che era il Male e anche Dio

di Pietro Citati - 30/06/2011

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Piegò l’Asia, sfidò l’Islam, sognò l’immortalità Le guerre e la pace del condottiero mongolo


Sullo sfondo del bellissimo libro, che René Grousset ha dedicato a Gengis-khan (Il conquistatore del mondo, Adelphi, traduzione di Elena Sacchini, pp. 340, e 24,50), bisogna immaginare tutta l’Asia nordorientale, dai massicci dell’Altai ai confini con la Cina. 

A nord e a occidente massicci nevosi dove appaiono, sulle pendici settentrionali, i «larici pazienti al freddo» ; e verso sud, cedri, pioppi tremuli, betulle, abeti, ontani, salici, e un intricato sottobosco di muschi e di rododendri. È la «foresta sacra» dei Mongoli. Ai piedi dei monti, pascoli rigogliosissimi, erbe alte che arrivano al petto. Poi la steppa, la steppa senza limiti, dove a giugno l’erba fitta è punteggiata di fiori — il giallo acceso delle crocifere e dei bottoni d’oro, il violetto del timo e degli iris, il bianco purissimo delle stellarie, il tenue velluto degli edelweiss. Ma «il sorriso della steppa non dura a lungo» . A metà luglio, sopraggiunge il caldo feroce, spazzato, a mezzogiorno, da violentissimi temporali. A ottobre, le tormente di neve. A novembre, il ghiaccio imprigiona i corsi d’acqua, che si libereranno soltanto ad aprile. Questo paesaggio di ghiacci, alberi e fiori era dominato da una coppia di animali sacri: il Lupo blu-grigio e la Cerbiatta fulva. Tutti i Mongoli si sentivano lupi blu-grigi e cerbiatte fulve. In primo luogo, erano lupi: gli animali inviati dal Cielo, gli archetipi della stirpe, i possenti antenati. Il lupo, colore del cielo, si incontrava con la cerbiatta, fulva come la steppa. Si amavano furiosamente: il loro connubio era l’incontro della fiera e della selvaggina, del divoratore e del divorato, dell’assassino e della vittima; connubio così spesso raffigurato negli ori della Scizia. Attraverso il lupo e la cerbiatta, i Mongoli diventavano animali. Erano come i cavalli, dai quali suggevano il sangue: come «falconi affamati» : come «cani dalla fronte di bronzo» : come «corvi notturni» : come gru «dalle zampe azzurre e dalle penne color cenere» ; come marmotte, talpe, pesci. Persino le frecce di legno e di penne, su cui scrivevano i nomi, erano una parte di loro: vibravano, attraversavano velocemente il cielo, colpivano da lontano e con innaturale precisione i cervi e i falconi, stabilendo con le vittime un legame strettissimo, che solo i Mongoli comprendevano. Sapevano che gli animali erano figure superiori agli uomini: volavano, nuotavano, odoravano, vedevano di notte, conoscevano il futuro e le lingue segrete. Così, per colpire la preda, essi non dovevano scendere verso gli animali, ma salire a un livello più alto dell’uomo, nel punto in cui l’uomo-animale si trasformava in Dio. ***Gengis-khan nacque nel 1167. Oltre che il Lupo e la Cerbiatta, contava tra i suoi antenati Dobun l’ «accorto» . Dopo la sua morte, la moglie, Alan «la bella» , ebbe tre figli. Un giorno, rivelò loro: «Ogni notte, un essere di abbacinante splendore, circonfuso di luce dorata, penetrava nella mia tenda, e si lasciava scivolare al mio fianco. È lui che, per tre volte, ha fecondato il mio ventre. Poi scompariva, portato da un raggio di sole o di luna. Sono certa che i tre fratelli sono figli di Tengri, il Cielo» . Il prozio, Qutula, era il pontefice degli sciamani: i bardi celebravano la sua voce possente, che rimbombava come il tuono nelle gole della montagna, e le sue mani vigorose, simili alle zampe di un orso, con cui spezzava un uomo in due, come una freccia. Il padre, Yisugei «il coraggioso» , ebbe poteri da khan, sebbene non ne portasse il titolo. Vinse i Tatari in battaglia: diede al figlio il nome di uno dei vinti, Temüjin, in modo che possedesse le qualità del nemico; ma fu avvelenato dai Tatari con una bevanda. In punto di morte, raccomandò il figlio alla protezione di uno sciamano. Appena il padre fu morto, Temüjin, i fratelli e la madre, Höelun, vennero brutalmente cacciati dal loro clan. Il piccolo gruppo conobbe il gelo, la privazione, la fame. Con in capo il nero berretto da vedova, la madre, che aleggiò come una potente presenza femminile sulla vita di Temüjin, raccoglieva mele, ciliegie selvatiche, sorbi, corbezzoli, mirtilli: frugava il suolo, strappando radici, cipolle ed aglio; mentre i bambini catturavano pesci simili al salmone, con gli ami e le canne infantili. Erano soli, «senza altri amici che la loro ombra» . A nove anni, Temüjin uccise un fratello; e la madre lo accusò con durezza. «Sei come la tigre che balza addosso dall’alto di una rupe, come il falcone che piomba ferocemente sugli uccelli, come il luccio che divora silenziosamente gli altri pesci» . Presto la solitudine di Temüjin finì. Conobbe Jamuqa, di qualche anno maggiore di lui, al quale promise «eterna fratellanza» . Jamuqa regalò a Temüjin un astragalo di cervo: l’altro gli diede un aliosso iniettato di piombo. Giocavano insieme sul ghiaccio dei fiumi. Danzavano insieme sotto le fronde di un albero sacro. Mangiavano insieme, dormivano insieme sotto una sola coperta; e «si parlavano a cuore a cuore dicendo parole che non si dimenticano» . Nella giovinezza Temüjin ebbe, forse, esperienze sciamaniche: immaginò di diventare uccello o serpente, imitò il linguaggio degli animali, suonò il tamburo, salì con la fantasia lungo i rami dell’Albero Cosmico. Aveva il viso acceso da un bagliore misterioso, e occhi grigioverdi da gatto o da girifalco. Il suocero lo sognò nella forma di un falcone bianco, che stringeva fra gli artigli il sole e la luna. Come disse Jamuqa, «il suo corpo era temprato nel bronzo. Non lo trapasseresti con una lesina. Era forgiato di ferro. Non lo pungeresti con un ago» . Come Achille, aveva il dono di suscitare nei giovani Mongoli il fascino dell’amicizia virile. Nel 1206, Temüjin venne eletto gran khan, con il nome di Gengis, che, forse, significa «oceanico» o «incrollabile» . Era appoggiato dal più potente sciamano mongolo: poco tempo dopo, si liberò di lui, facendogli spezzare la colonna vertebrale, ma «senza versarne il sangue» . Ora l’orfano miserabile, che si cibava di bacche selvatiche e di radici, dormiva in una grande tenda, protetto da centinaia di guardie, che avrebbero inteso nella notte perfino il suono lontanissimo di un arco di betulla. Dio lo proteggeva. Gli aveva detto: «Ti ho messo alla testa dei popoli e dei regni affinché tu strappi e atterri, dissipi e annulli, pianti e costruisca» ; ed egli non dimenticò mai di essere un riflesso del Cielo. Saliva sulle montagne sacre: si levava il berretto, gettava la cintura sulle spalle, batteva nove volte la fronte sul suolo; e libava, pregava, invocava Tengri, l’Eterno Cielo Azzurro. Così nacque quella figura quasi incomprensibile, che per decenni fu adorata e odiata da milioni di uomini. Da un lato Gengis-khan era insaziabile: voleva conquistare tutto il mondo e diventare immortale; e se una freccia colpiva uno dei suoi cavalli, il suo odio non si saziava fino a quando dieci città non fossero state distrutte, e milioni di uomini massacrati. Ma era leale, generoso, nobile, gentile, fedele: se uno dei suoi guerrieri era ferito, scoppiava in lacrime, si inteneriva. Prima del suo avvento, i Mongoli erano disprezzati dalle tribù vicine. Quando salì sul trono, venne adorato come nessun potente della terra. Possedeva questo dono unico: la maestà. Come il sole allo zenit, lasciava cadere sui sudditi e sui nemici un sorriso stranamente amoroso. Nessun sorriso era così dolce, come questo sorriso nutrito di sangue. Mentre Gengis-khan guardava dal suo alto trono, l’amico della giovinezza, Jamuqa, viveva un’esistenza inquieta e incerta. Quando era alleato di Gengis, cospirava contro di lui: quando stava dalla parte dei suoi nemici, li tradiva. Infine fu preso prigioniero e portato davanti al gran khan. Come racconta mirabilmente la Storia segreta dei Mongoli (Guanda), Gengis offrì a Jamuqa il perdono dei suoi tradimenti. Voleva ricordare soltanto la loro giovinezza comune, e non riusciva a trattenere l’emozione. «Una volta la nostra amicizia era inscindibile, disse, eravamo inseparabili come le stanghe di uno stesso carro. Ora che siamo di nuovo riuniti, facciamo tornare la memoria a chi è smemorato, risvegliamo chi si è addormentato» . Anche Jamuqa ricordava con nostalgia la giovinezza, quando lui e Gengis «si dicevano parole che non si dimenticano» . «Oggi — aggiungeva — hai davanti il mondo intero. A che potrebbe servirti un compagno come me? La mia amicizia non ti serve. Sarei come una pulce nel colletto del tuo vestito, come una spina nel lembo della tua giubba. A causa mia non dormiresti sonni tranquilli... Adesso, perché il tuo cuore sia in pace, occorre che tu ti sbarazzi di me. Fammi uccidere. Solo così, se mi farai seppellire su qualche altura qui intorno, il mio spirito veglierà da lontano sui nipoti dei tuoi nipoti» . Sia pure con malinconia e rimpianto, Gengis khan obbedì alle parole di Jamuqa. «Che si faccia come lui vuole— disse ai suoi generali—. Mettetelo a morte. Ma non abbandonatelo, seppellitelo solennemente» . Così Gengis realizzò l’archetipo della sua vita. Il lupo azzurro aveva ucciso la cerbiatta fulva; e la cerbiatta sacrificata pregava, proteggeva, dava forza allo sguardo abbagliante del suo uccisore. ***Ormai Gengis-khan si sentiva allo stretto tra le vicine tribù mongole o turco-mongole, che aveva sconfitto e asservito l’una dopo l’altra. Voleva conquistare la Cina: o almeno i due regni del Nord, dominati da popolazioni «barbare» , i Tangut e gli Jurcet, i «re d’oro» dei quali era stato, anni prima, vassallo e alleato. Varcò la Grande Muraglia, dilagando verso sud, uccidendo, distruggendo, bruciando. Conobbe per la prima volta le grandi città: la capitale dei Tangut, irrigata da una rete di canali artificiali: Jinan, con il lago punteggiato da enormi fiori di loto: Taiyuan, amata da Marco Polo; e Pechino, dove entrò nel maggio 1215, incendiando il palazzo imperiale, che arse per oltre un mese. Nella Grande Pianura, scorse i campi bruno-giallastri, dove da millenni i contadini cinesi coltivavano con meticolosa dedizione ogni centimetro di terreno, e i villaggi si susseguivano ininterrottamente. Né lui né i suoi generali comprendevano il senso di quella scrupolosa attività di formiche. Meglio massacrare le popolazioni, che non sapevano allevare e governare una mandria, bruciare i raccolti e i villaggi, restituendo alla terra la dignità della steppa. Nell’Asia centrale e meridionale si estendeva l’impero islamico di Corasmia: era il mondo arabo persiano, che toccava uno splendore che non avrebbe mai più raggiunto. C’erano città meravigliose: Bukhara, Samarcanda, Herat, Ray, Balkh, Merv, Nishapur; canali e canali, giardini e giardini, vasche, fontane, filari d’olmi e di pioppi, bazar opulenti, tappeti, finimenti di cuoio, tessuti laminati d’argento, sete, cotonate, famosi meloni. Come dicevano i poeti, era l’Eden in terra. Questa volta— forse l’unica— Gengis-khan non fu l’aggressore. Aveva mandato al sultano della Corasmia doni ricchissimi, accompagnati da un messaggio amichevole: «Tutto ciò che desidero è che i nostri regni vivano in pace» . Poco dopo, nel 1218, inviò in Corasmia una grande carovana commerciale, con cinquecento cammelli, accompagnata da un centinaio di suoi sudditi, tutti di religione musulmana, tra cui un messo personale. Quando varcò la frontiera, a Otrar, il governatore della città massacrò l’intera carovana, compreso il messo di Gengis khan. Gengis-khan pianse lacrime di dolore, di furore, di umiliazione, di vendetta; e scatenò sull’Asia centrale e meridionale una spaventosa tempesta di crudeltà e di ferocia. Circa duecentomila mongoli a cavallo superarono i confini della Corasmia. Alcuni percorsero milleottocento chilometri, inseguendo il sultano in fuga, che morì di sfinimento: altri catturarono il governatore di Otrar e gli fecero «colare argento fuso negli occhi e nelle orecchie» . A tutti gli abitanti, Gengis rivolse un messaggio: «Comandanti, popoli e signori, sappiate che per volere di Dio il mondo intero, dall’Oriente all’Occidente, si trova nelle mie mani. Chi piegherà il capo sarà risparmiato, ma guai a coloro che opporranno resistenza: verranno sgozzati insieme alle loro mogli, ai loro figli e alla loro clientela» . Le città vennero assalite, saccheggiate, arse, distrutte: una di esse rimase completamente disabitata, e venne chiamata «la città maledetta» . Qualcuno disse che Gengis «aveva ucciso la terra» , cancellando i filari d’alberi e i canali di irrigazione, e lasciando la campagna in balia delle tempeste di sabbia che, come i Mongoli, venivano dall’Oriente. Quanto agli abitanti, Gengis-khan seguì diversi sistemi. Il primo era il più radicale: ucciderli tutti, persino i cani e i gatti, decapitare i cadaveri, spegnere i bambini nel ventre delle madri. Altri sistemi erano più moderati: massacrare i maschi, stuprare le donne, vendere i bambini come schiavi, portare gli artigiani in Mongolia, dove avrebbero lavorato cuoi e argenti. A Bukhara, nel 1220, Gengis entrò a cavallo nella moschea principale. Le casse, che custodivano le copie del Corano, fecero da abbeveratoi ai cavalli, che calpestarono con gli zoccoli il libro sacro. Quando vide lo scempio, l’imam della moschea disse che «Il vento della collera divina soffiava sopra di loro» . Gengis-khan sapeva, con piena coscienza, di essere il flagello divino: era, in modo paradossale, sia Dio sia il Male che egli nasconde in sé stesso, o che suscita negli uomini e negli eventi. ***Negli ultimi tempi della vita, l’antico cacciatore mongolo si avvicinò a quella che noi chiamiamo civiltà, e la comprese o cercò di comprenderla con la buona volontà che metteva nelle cose. Anni prima aveva ereditato uno scrivano uiguro, munito di un sigillo d’oro, che lavorava presso i Naiman; e da quel giorno gli atti ufficiali dell’impero mongolo vennero redatti in turco-uiguro. Se rimase sempre analfabeta, volle che i suoi quattro figli imparassero la scrittura uigura. Quando fu a Bukhara, desiderò conoscere l’Islam. In generale approvò, ma non gli piacque il pellegrinaggio alla Mecca, che gli sembrò qualcosa di parziale e di limitato, «visto che il Cielo è dappertutto» . Più tardi affidò il compito di amministrare le città del Turkestan orientale e occidentale a due funzionari musulmani. Amò un saggio cinese, Yelu Chucai, che apparteneva a un’antica famiglia regale. Era un abile astrologo; e, prima di ogni spedizione militare, Gengis gli chiedeva quali fossero le sorti. Yelu Chucai gli dimostrò che, invece di distruggere le coltivazioni e massacrare i contadini, sarebbe stato molto più vantaggioso ricevere imposte; e disse che «se l’impero era stato conquistato a cavallo, non poteva essere governato a cavallo» . Nel 1219, Gengis fece incidere una stele, dove risuona profondamente il linguaggio taoista. «Il Cielo è stanco dell’arroganza e dell’amore per il lusso che in Cina sono giunti a livelli intollerabili. Io, al contrario, abito nella regione selvaggia del Nord, dove non può attecchire brama di sorta. Mi volgo alla semplicità, ritorno alla purezza, mi conformo alla moderazione. Gli stracci che porto, il cibo che mangio sono gli stessi dei bovari e dei palafrenieri» . Due anni dopo conobbe un religioso filosofo taoista, Changchun, che lo raggiunse a Samarcanda dopo un viaggio lungo migliaia di chilometri. Gli chiese cosa fosse «l’elisir dell’immortalità» , del quale aveva sentito parlare: voleva varcare i limiti del tempo, prolungarsi nel Cielo, essere illimitato come il Dio che pregava nelle montagne. Con sua grandissima delusione, Changchun gli rispose che l’elisir non c’era, e non poteva esserci. Come tutti, anche Gengis doveva accettare i limiti imposti dal Cielo agli esseri umani. Col tempo, nelle regioni dell’Asia si diffuse «la pax mongola» . Gengis-khan creò un impero universale, che raccoglieva centinaia di razze e di religioni. Impose la fedeltà. Preparò un sistema di leggi, portando l’ordine e la concordia dove aveva dominato la furia e la lacerazione. «I Mongoli — scrisse Giovanni dal Pian del Carpine — sono i popoli del mondo più obbedienti verso i loro capi. Li venerano infinitamente, e non dicono mai menzogne. Non ci sono tra loro contestazioni, litigi e assassinii» . I mercanti portavano a Gengis una quantità smisurata di mercanzie, ed egli ne fissava equamente il prezzo. Godevano piena immunità: non correvano rischi. «Chiunque — disse un testimone — avrebbe potuto andare dal Levante all’Occidente con un piatto d’oro in testa, senza subire la minima violenza» . Venne stabilito un sistema di posta. Dalla capitale, partivano i messaggeri a cavallo con la lettera dell’imperatore: avevano la cintura circondata da sonagli, e andavano suonando e scampanellando fino alla prossima stazione di posta, dove altri messaggeri si precipitavano verso di loro, strappando la lettera dalle loro mani; e questa musica di sonagli attraversava lo spazio in tutte le direzioni. La morte si avvicinò. Gengis-khan comprese che, come gli aveva assicurato il filosofo taoista, non esisteva nessuna possibilità di diventare immortale. Ebbe un grave incidente di caccia, dal quale non si rimise; e diede ai figli le ultime raccomandazioni. Morì il 29 agosto 1227. Negli ultimi istanti forse immaginò che i suoi discendenti, vestiti di stoffe ricamate d’oro, si sarebbero dimenticati di lui, e della povera e austera Mongolia. Nella giovinezza era andato a caccia nelle boscaglie del Burqan-Qaldun, il monte sacro; e si stese sotto il fogliame di un grande albero isolato. Vi sostò qualche tempo, come perso in un sogno a occhi aperti, e alzandosi dichiarò che voleva essere sepolto sotto quelle fronde. Lì venne sepolto. Dopo il funerale il luogo diventò tabù, e la foresta crebbe, si dilatò e nascose tutte le figure che Gengis-khan era stato.