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Ma il raìs fa il suo mestiere

di Massimo Fini - 27/08/2011

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Non c’è da indignarsi se i soldati di Gheddafi hanno sequestrato quattro giornalisti italiani. A furia di chiamarla con altri nomi ci siamo dimenticati che cos’è la guerra. Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Italia hanno attaccato la Libia di cui Gheddafi era fino a pochi mesi fa il riconosciuto e legittimo leader. È ovvio che qualsiasi francese, inglese, americano o italiano, anche se civile, che si trovi oggi sul suolo libico sia considerato un nemico e trattato come tale. Che i quattro fossero giornalisti ha un’importanza relativa. Nella seconda guerra mondiale, l’ultima in cui vigeva ancora uno “ius belli”, non sarebbe stato nemmeno pensabile che un giornalista inglese operasse al di là delle linee tedesche o viceversa. Certamente in una guerra civile le cose sono più complesse. Perché non c’è un fronte o se c’è è labile, una zona che è sotto il controllo di una fazione può passare nel giro di due ore nelle mani di un’altra. È questa la trappola in cui sono caduti i coraggiosi inviati italiani. I giornalisti sono stati poi liberati da due giovani e generosi lealisti (gli uomini hanno occhi per vedere e cuore per sentire, i missili no). Ma se fossero stati tenuti prigionieri sarebbe stato legittimo.

Di tutte le aggressioni perpetrate dalle Democrazie dopo il crollo del contraltare sovietico quella alla Libia è la più sconcertante. Per anni Gheddafi aveva trafficato col terrorismo, ma da quando la Libia aveva pagato un enorme risarcimento per le 700 vittime dell’attentato di Lockerbie, il Colonnello era tornato a pieno titolo nell’arengo della rispettabilità internazionale. Paesi europei facevano lucrosi affari con la Libia (non olet) e il leader libico era ricevuto con tutti gli onori dai Premier anche se nessuno è arrivato alle vergognose manifestazioni di soccombismo di Berlusconi. Poi qualcuno, improvvisamente, ha deciso che Gheddafi doveva essere eliminato. “Agent provocateur” francesi e britannici furono inviati in Cirenaica per fomentar la rivolta. Quando è scoppiata Gheddafi ha cercato di reprimerla. Si disse allora che sparava sui civili. Ma una rivolta, un’insurrezione, è fatta, per definizione, da civili, altrimenti porta un altro nome, si chiama golpe militare.

Si varò una risoluzione Onu che, si disse, doveva imporre una “no fly zone” per impedire a Gheddafi di sfruttare la propria superiorità aerea. Anche se violava il principio di diritto internazionale della non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano, peraltro già buttato a mare con la Serbia, la cosa ci poteva anche stare per rendere meno sperequati i rapporti di forza fra le fazioni. Ma subito si capì che le Democrazie non volevano affatto difendere i civili libici, ma semplicemente abbattere il regime di Gheddafi bombardando con gli aerei Nato anche le sue forze terrestri, i suoi comandi e la popolazione che gli era rimasta fedele. A causa dell’intervento Nato non sapremo mai quale era la reale consistenza della rivolta. Sappiamo però che il dittatore non era così isolato come oggi si vuol far credere. Come scrive Sergio Romano sul Corriere (24/8) il suo nazionalismo, l’antiamericanismo, il no al radicalismo religioso avevano l’approvazione di una parte consistente del popolo libico.

Inoltre le grandi risorse del sottosuolo gli avevano consentito di creare nuovi ceti sociali benestanti. Se fosse altrimenti non si capirebbe la strenua resistenza che i gheddafiani, pur in totale inferiorità militare, stanno opponendo alla Nato. Il ministro Frattini ha dichiarato che “se Gheddafi continuerà a incitare alla guerra civile sarà tenuto come unico responsabile del bagno di sangue” (peraltro già avvenuto: 20mila morti). Si vuole negare a Gheddafi anche il diritto di difendersi?