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Schiaffi ai figli: per fortuna Milano non è Stoccolma

di Massimo Fini - 05/09/2011


 
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Di ceffoni da mio padre ne ho presi parecchi, e dolorosi perché aveva la mano pesante. E anche da mia madre. Eppure i miei non erano dei bruti da poco usciti dalle caverne, erano degli intellettuali. Al mio fraterno amico G. toccavano invece delle cinghiate perché suo padre, durante la guerra era stato ufficiale di marina, abituato a metodi rudi. Né io né G. siamo usciti choccati da quelle esperienze. Allora erano normali. Non c’era, forse perché erano molti di più, la concentrazione ossessiva che c’è oggi sui bambini.
Negli anni ’50 noi ragazzini milanesi, proletari o borghesi che fossimo, vivevamo sulla strada e nei terrain vague. Praticamente ogni giorno ci prendevamo a botte. Chi si sottraeva era considerato un vigliacco. Era la nostra "educazione sentimentale". Ma non è detto che fosse necessariamente negativa. Imparavamo codici di comportamento, di lealtà e onore. Se l’avversario cadeva a terra era "arimo", non si poteva infierire su di lui. Mi ricordo una volta che ci disputavamo un pallone (preda ambitissima) con dei coetanei di un altro quartiere. Prima che iniziasse l’inevitabile zuffa uno dei nostri si accorse che noi eravamo in otto e loro in sei. Allora passò dall’altra parte, per far pari. Ho frequentato quasi tutti i licei di Milano (Parini, Berchet, Carducci), perché ero un ragazzo irrequieto e ribelle e non o mai visto quegli episodi di "nonnismo" oggi tanto diffusi. Al contrario. Se uno si fosse azzardato a infastidire un handicappato avrebbe preso lui sì, un fracco di botte, sacrosante, perchè non ci provasse più. Difendere il più debole era per noi un punto d’onore. Lo stadio non era, dietro le porte, quella bolgia di teppisti armati di tutto. Il calcio era ancora una grande festa nazional popolare. Tuttavia accadeva qualche volta che due si prendessero a cazzotti. Non ci si scandalizzava. Anzi ci si divertiva. Un "quantum" di violenza, a mani nude, era considerato legittimo o quantomeno accettabile.
Il magistrato di Stoccolma che ha sbattuto in galera, per due notti, Giovanni Colasante, un distinto manager pugliese, perché due testimoni libici lo avevano visto mollare due schiaffi al figlioletto davanti ad un ristorante, potrebbe essere considerato uno zelota senza senso della misura se la legge svedese non considerasse schiaffi e scapaccioni, anche isolati, ai figli un reato grave, equiparato ai maltrattamenti, se un anno fa l’Unione Europea non avesse invitato tutti gli Stati membri a seguire l’esempio svedese e se dal 2006 l’Onu non avesse poso come obiettivo universale il divieto, per legge, di qualsiasi punizione corporale. L’educazione dei figli è una cosa molto delicata. Solo un genitore (parlo di gente normale, naturalmente) può sapere qual è il giusto mixage nel meccanismo dei premi e delle punizioni, della severità e della dolcezza, del dialogo e del ricorso alle maniere forti, il cui dosaggio, ovviamente, cambia col mutar dell’età. Lo stato borghese di derivazione illuminista, ha invece una smania codificatrice che tende a intromettersi nei fatti più intimi e privati del cittadino e della famiglia. Indicazione che in questi ultimi anni è andata assumendo forme sempre più repressiva e inquietanti. Per cui oggi un padre non può più nemmeno dare un paio di sacrosanti ceffoni al figlio disubbidiente, pena la galera. "Robe de matt" diciamo noi a Milano che, per fortuna, non è Stoccolma. Almeno per ora.
Massimo Fini