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Si può dubitare del capitalismo?

di Jack A. Smith - 20/09/2011

   
   

Tra il 1900 e il 2011 ci sono state ventiquattro recessioni negli Stati Uniti (compresa la Grande Depressione), una ogni 4,6 anni, con variazioni tra un decennio e un altro, principalmente per l’inevitabile sovrapproduzione e per l’avidità.

Certo, il capitalismo è altamente produttivo e ha reso ricchi molti americani e ha facilitato il governo mondiale di Washington. È anche un sistema instabile responsabile di un’estrema disuguaglianza, di povertà, di stipendi stagnanti a casa e dell’aggressione all’estero per favorire gli interessi economici statunitensi. Ma quanto spesso questo sistema viene criticato dai mass media, dal governo e negli ambiti progressisti o liberali, anche con tutto il bordello che viene prospettato alla maggioranza degli statunitensi?

Fino agli anni recenti, praticamente mai, ma ora appena un po’ di più. La pubblicazione del 27 giugno di The Nation era dedicata ad articoli come “Re-immaginarsi il capitalismo”, tutti intenti a riformare il sistema esistente e non certo a sostituirlo, ma già è un passo avanti. Ancora in giugno il Dalai Lama ha detto a 150 studenti cinesi che studiano all’Università del Minnesota che “mi considero un marxista […] ma non un leninista.” L’ultimo Time Magazine riporta: “Il Marxismo in rialzo su Google”.

Cosa ha reso il capitalismo così sacrosanto nella nostra società? Non è stato sempre così. Per circa sessantacinque anni dall’inizio della Guerra Fredda che ha seguito nel 1945 la Seconda Guerra Mondiale, negli Stati Uniti il socialismo e le critiche al capitalismo sono state molto discussi tra gli immigrati e i lavoratori indigeni. Molti dirigenti di movimenti di lavoratori e di sindacati si consideravano socialisti. Il grande leader sindacale Eugene V. Debs (1855-1920) ha ottenuto quasi un milione di preferenze come candidato presidenziale dei socialisti nel 1920, mentre era nel Penitenziario Federale di Atlanta per essersi opposto alla Prima Guerra Mondiale. Si dice che il Partito Comunista aveva 100.000 iscritti nel 1940.

Il fattore essenziale del silenzio odierno sulle pecche del capitalismo è dovuto al fatto che cinque generazioni di Americani, partendo dalla fine dell’800 e sempre più accanitamente dalla Rivoluzione Bolscevica del 1917, sono stati addestrati dai loro governanti e dalle istituzioni, nel corso di una vita intera, a ritenere che è il socialismo sia un pericolo assoluto per il “modo di vita americano”, per la democrazia e la libertà.

Tutto questo è stato accompagnato da alcuni periodi di caccia ai rossi, di carcerazioni di massa, di deportazioni e di repressioni politiche, che sono culminate tra il 1945 e il 1960 con la purga dei socialisti e dei comunisti dal movimento dei sindacati e con la caccia alle streghe dei politici, l’imprigionamento dei dirigenti comunisti e i licenziamenti di insegnanti, scrittori, attori, registi e di normali lavoratori da decine di migliaia di posti di lavoro. Milioni di lavoratori hanno dovuto firmare giuramenti di fedeltà.

L’anticomunismo è diventata la parola d’ordine in tutta l’America, ma l’obbiettivo reale era e rimane ancora ben più vasto, e comprende tutte le varietà di socialismo dal Marxismo-Leninismo fino alla tenue socialdemocrazia, estendendosi fino alla democrazia sociale non socialista, e in modo implicito anche al progressismo e al liberalismo quando vengono attuate le riforme.

La parola “progressisti” è stata praticamente espulsa dal lessico negli anni ’50 per un paio di decenni, quando i liberali della Guerra Fredda, i classici reazionari, i politici e i vari boss la usarono per etichettare le persone “morbide sul comunismo”. Negli anni ’90 la stessa parola “liberale” è scomparsa per circa un decennio (vi ricordate della parola “L”?), principalmente per le paure diffuse dai Repubblicani e per l’allontanamento definitivo dei Democratici dal liberalismo.

Le due parole stanno tornando in auge, anche se l’influenza liberal-progressista sembra irrisoria, principalmente per l’implosione dell’URSS e per la fine della Guerra Fredda. Naturalmente, ci sono piccole organizzazione comuniste e socialiste e riviste di sinistra negli Stati Uniti, ma le critiche per la forma priva di regole del capitalismo o per il capitalismo in quanto tale sono considerate impensabili dal resto della società. Se tutto ciò non si modificherà, le enormi disuguaglianze economiche e le distorsioni della democrazia rimarranno praticamente le stesse, perché l’anticomunismo, comunque, non metterà mai in dubbio il capitalismo.

Riteniamo che Joel Kovel abbia ben reso l’idea, alla fine del suo notevole libro pubblicato nel 1994, “Red Hunting in the Promised Land”, dove ha riportato: “L’ordine capitalistico, con tutte le sue brillanti realizzazioni, non ha avuto successo; ha solo vinto [la Guerra Fredda]. Non ci potrà essere un futuro dignitoso per gli esseri umani se il sistema esistente non verrà messo in discussione. Per questo, il superamento dell’anticomunismo è indispensabile.”

Gli americani forse vivono nel paese più ricco del mondo, dove il 10% della popolazione possiede circa il 90% della ricchezza. In una nazione di 312 milioni di persone, l’intera élite potrebbe stare tranquillamente nello Yankee Stadium, con spazio sufficiente per regalare biglietti omaggio a migliaia di individui che fanno parte dei 46,2 milioni di americani che vivono sotto la soglia di povertà.

La democrazia non potrà mai realizzare il suo pieno potenziale in queste circostanze, e il tanto vantato “sogno americano” sta velocemente scomparendo dalla vista dei lavoratori e della classe media, proprio quando il sistema economico statunitense sembra diretto verso una seconda recessione e il depotenziamento di Social Security, di Medicare e di Medicaid. Non è giunto il momento in cui gli Americani debbano chiedersi cosa ci sia di sbagliato nel capitalismo, o almeno domandarsi dove stiamo andando e a che punto siamo arrivati?

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Fonte: Dare We Question Capitalism?

17.09.2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE