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Mentre Valentiniano III celebra vittorie inesistenti si scatena la prima guerra anticattolica

di Francesco Lamendola - 12/02/2012


 


 

Lo studioso della penultima fase dell’Impero Romano d’Occidente, quella che si svolge all’ombra della dinastia teodosiana, è abituato a vedere i cristiani come i vincitori della secolare contesa con i pagani, specialmente dopo la battaglia del Frigido, nel 394, e la fine cruenta dell’ultimo tentativo di ripristinare i culti tradizionali (cfr. il nostro articolo: «La battaglia del Frigido e la fine del paganesimo», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 18/04/2011).

In realtà, in varie regioni dell’Impero il V secolo fu caratterizzato  da una serie di conflitti, di insurrezioni, di guerriglie che ebbero come epicentro i latifondi della nobiltà senatoria, quella stessa nobiltà senatoria che un poeta come Rutilio Namaziano ben rappresentava, con il suo anacronistico culto dell’«otium» letterario e con il suo totale disinteresse per la questione sociale, ossia per lo stato di insopportabile oppressione in cui versavano i coloni, veri e propri servi della gleba; e, in tali disordini, le comunità cristiane - che, ricordiamolo, non sempre erano la maggioranza, specie appunto nelle aree rurali - furono spesso percepite come il “nemico” e fatte oggetto di duri attacchi e persecuzioni.

La cosa è abbastanza paradossale, se si considera che, soprattutto in Gallia e in Spagna, molti grandi proprietari terrieri erano ancora pagani o paganeggianti (almeno fino a quasi tutto il IV secolo e, sovente, ancora nei primi decenni del successivo); tuttavia si spiega con il fatto che, da un lato, essi erano sostenuti dalle autorità statali, i cui interessi obiettivamente convergevano con i loro, o meglio, erano un prolungamento dei loro; dall’altro, in molte regioni periferiche dell’Occidente - come l’Armorica, fra la Bretagna, la Senna e la Loira - il substrato celtico era ancora vivo e agguerrito, non era mai stato del tutto romanizzato e infine aveva dato luogo ad una vera e propria mobilitazione permanente di pastori e contadini ribelli, i Bagaudi.

Non sappiano con certezza se i Bagaudi fossero rimasti pagani o fossero tornati al paganesimo, oppure se, pur accettando a nuova religione, l’avessero interpretata in senso egualitario, in consonanza con le loro aspirazioni ad una vita più umana, dopo che la stretta dei latifondisti, aggravatasi dopo Costantino, e il peggioramento delle condizioni climatiche - una sorta di piccola era glaciale, che provocò una serie di cattive rese agricole e di carestie - aveva reso durissima e quasi intollerabile la loro condizione.

I Bagaudi erano insorti una prima volta - o, almeno, siamo a conoscenza di una loro prima insurrezione - durante il regno di Carino (282-85), ed erano stati poi duramente repressi dall’imperatore Massimiano, il collega di Diocleziano; ma non in modo definitivo, anzi si può dire che le loro agitazioni divennero endemiche per quasi altri due secoli. Nel 407, all’indomani della grande invasione germanica oltre il Reno, insorsero ancora e imposero al generale Saro, che rientrava in Italia, la consegna di tutto il bottino racimolato durante la campagna militare.

Una nuova, grande insurrezione di questi contadini e pastori divenuti briganti si verificò nel 441 e dilagò in gran parte della Spagna. Per domarla venne nominato comandante militare, magister utriusque militiae, un latifondista di nome Asturio, che riportò effettivamente qualche successo, ma non decisivo; a succedergli fu designato suo cugino Merobaude - un altro poeta! -, cosa che spiacque agli altri latifondisti, perché era amico e futuro panegirista del generalissimo Ezio, il potente braccio destro del’imperatore Valentiniano III, che essi vedevano con la stessa diffidenza e sospettosità con le quali i loro predecessori avevano guardato a Stilicone durante il regno di Onorio, affrettandone la caduta e la morte.

Merobaude si rivelò un buon condottiero e riportò diverse vittorie sui Bagaudi spagnoli, ma la durezza della sua repressione fu giudicata sfavorevolmente dai proprietari terrieri, i quali, da ottimi conoscitori del problema sociale di cui la guerriglia era espressione, si rendevano conto che la questione non poteva essere risolta in termini esclusivamente militari e che era necessario addivenire a una qualche forma di compromesso con le richieste dei ribelli. Oltre tutto, se i Bagaudi spagnoli fossero stati massacrati come Ezio aveva fatto con quelli della Gallia, le campagne si sarebbero svuotate e i latifondisti avrebbero faticato molto a rimpiazzare i loro coloni acquistando nuova manodopera sul mercato degli schiavi, ormai in via di esaurimento per la fine delle guerre offensive al di là del Reno e del Danubio.

Pertanto i latifondisti chiesero e ottennero da Valentiniano la rimozione di Merobaude dal comando, mentre i rapporti fra il suo grande protettore, Ezio, e l’imperatore si deterioravano sempre più, preparando il clima politico e psicologico che avrebbe portato all’assassinio del patrizio per mano dello stesso sovrano, nel 454, nonché, l’anno dopo, all’uccisione di Valentiniano III da parte di alcuni fedeli soldati di Ezio, per vendetta: evento che avrebbe aperto la strada di Roma alla flotta dei Vandali di Genserico e al secondo, durissimo sacco della capitale da parte dei barbari, dopo quello alariciano del 410.

In Spagna i Bagaudi approfittarono degli ondeggiamenti della politica imperiale per riprendere l’offensiva, spingersi fino al Guadalquivir e, pare, stabilire delle forme di collaborazione con gli Svevi, che si impadronirono di Siviglia e sostituirono il vescovo cattolico con quello ariano.  Ci furono pogrom di cattolici, incendi, devastazioni di chiese e anche uccisioni di vescovi cattolici, tanto più che ariani, manichei, priscilliani, si unirono ai Bagaudi e agli Svevi nello sfogare il loro astio contro la religione dominante, che essi identificavano con l’autorità imperiale romana.

Dopo di che, gli Svevi procedettero ad invadere la Lusitania e la Galizia; nel 449 si spinsero nella valle dell’Ebro, saccheggiarono Saragozza, fecero bottino a Llerda, agendo insieme a un contingente di Visigoti; di religione ariana, essi consideravano i cattolici come nemici e agivano contro di loro con durezza, come del resto stavano facendo i Vandali in Africa.

L’esercito romano tentò di reagire, ma venne duramente sconfitto e a Valentiniano III non rimase altro che la platonica consolazione di far coniare dalla sua zecca una nuova siliqua, in cui era coronato con i lauri della vittoria: una vittoria inesistente e puramente immaginaria, che doveva lenire l’umiliazione del suo amor proprio ferito e camuffare la malinconica realtà che, senza il supporto di Ezio e dei suoi fedelissimi, egli non era in grado si svolgere una politica militare autonoma fuori del’Italia.

Così riassume l’intricata situazione politico-militare in Spagna, nel quarto decennio del quinto secolo, lo studioso di numismatica Guy Lacam nel suo pregevole studio «Des siliques inconnues de Valentinien III» (apparso su: «Rivista italiana di numismatica e scienze affini», Milano, vol. CXII, 1990, pp. 163-166):

 

«En 441 les Bagaudes se comptaient si nombreux en Tarraconaise que le gouvernement romain, sous l’influence première d’Aetius, ne pouvait tarder davantage à prendre des contro-mesures énergiques.

Un important propriétaire foncier, Asturius, se vit nommé Dux utriusque militiae ad Hispanias et chargé de réduire l’insurrection avec le concours des troupes romaines. Il s’engagea dans une très dure campagne et tua un nombre considerable de Bagaudes au cours de multiples acchrocages. Mais ces derniers se montraient plus aptes à la guerrilla que leur adversaire. Celui-ci, après deux ans de marches ed de contre-marches, se demanda s’il en verrait jamais la fin. Fatigué aussi,il sollicita son remplacemt.

Nerobaude, beau-frére d’Asturius, fut appelé à lui succéder, non sans que sa nomination eût rencontré une forte op position. Il joussait de l’amitié d’Aetius. Cela suffit à susciter la méfiance des notables possédant des latifundias en Ibérie.

Poète et Panégyriste de renom, Merobaude récelait des qualités militaries qui n’avaient jamais eu l’occasion de s’exprimer. Il devait étonner et scandaliser par sa valeur.

Peu après sa prise de commandement, il s’empara d’Aracelli, place forte des bagaudes, et anéantit la population. Il avait frappe fort suiant l’exemple d’Aetius en gaule.

A Rome ce fu un tollé. Valentinien rappela Merobaude, bien que celui-ci dipendi du Magister militiae utriusque presentalis Aetius. Ce faisant, l’Empereur exerçait son doit de “sacra praeceptione”.

Le confluit entre l’Empereur, soutenant les Notables furieux contre Merobaude, et son Patrice, se résume en quelques lignes.

En massacrant les Bagaues plutôt que de traiter  avec eux pour les amener à résipiscence, au besoin en faisant droit à certaines de leurs revendications, ce qui était utopique, Aetius préparait la ruine des latifundiaires. S’il anéantissait les Bagaudes ibériens comme il l’avait fait en Gaule, où, il est vrai, les conditions étaient différentes, les grands propriétaires fonciers se retrouveraient sans main d’oeuvre, c’est-à-dire sinon ruinés du moins exposés à un effort financer considerable pour se procurer des nouveaux esclaves.

Les consequences de cette divergence de vues fut qu’Aetius s’en alla en Gaule, où divers affaires l’appellaient, laissaint à l’Auguste le soin de diriger lui-même les operations en Ibérie.

Valentinien donna des instructions fermes aux généraux, qu’il désigna pour rétablir l’ordre, afin qu’ils adoptassent un comportement souple à l’égard des rebelles. Les armes devaient appuyer des ouvertures de négociations et non les précéder.

C’etait bien mal connaître à la fois l’esprit militaire et l’esprit des Bagaudes.

L’absence d’aggressivité des troupes romaines conduisit les Bagaudes à s’étendre à travers l’Ibérie comme s’écoule une nappe d’hiule.

Les Suèves, de leur côte, saisirent l’occasion pour satisfaire leurs velléités d’expansion contenues jusqu’alors.

Les Bagaudes s’insérènt parmi les guerriers Suèves et ce fu tune armée composite aussi efficace que destructrice qui descendit jusqu’au Guadalquivir. Tandis que les premiers “baguenaudaient” à travers les provinces vioisines, les seconds occupaient Séville, et remplaçaient l’Evêque orthodoxe par un Evêque arien.

Quant aux généraux romains ils accumulaient les défaites.

L’état d’anarchie qui régnait sur la moitié de la Péninsule, suivant une ligne Cathagène-Séville; l’impuissance des troupes imperials à tenir le terrain ou à maintenir l’ordre dans les cites, provoqua un retour en force en Ibérie des hérétiques réfugiés au Maghreb auxquels Genseric menait la vie dure. Prìscilliens, Manichéens, Ariens passérent en maasse en Ibérie où de persécutés il devinrent persécuteurs. Des églises catholiques furent attaquées par les unes ou les autres de ces sects hérétiques, les fidèles massacres et parfois leurs évêques.

On peut dire que Bagaudes, Prìscilliens, Manichéens, Ariens, Suéves se trouvaient allies de facto contre les catholiques et les troupes romaines. Ce furent autant de petites guerres sectorielles qui demandaient des homes et de l’argent.

Fin 448, les Suéves conduits par leur nouveau roi Richiarius regagnèrent leur capitale: Astorga, aujourdh’hui Lèon. Chemin faisant Richiarus s’empara d’Emerita, c’est-à-dire plaça la Lusitanie sous sa dependence et pilla la Galice et le pays des Vascons qui valaient bien un detour.

En 449 Richiarius récidiva. Avec un petit contingent des Visigoths, que Theodoric lui concéda avec réticence, le Suéve et ses guerrieres procédèrent vers la vallée de l’Ebre. Ils saccagèrent Saragosse et ses environs avant d’entrer par trahison dans Llerda, place qui commandait un noeud routier important au sud de Pampelune, où ils trouvèrent matière à un riche butin. Quanta u Magister militum Vitus il subissait une écrasante défaite. Valentinien devait regretter de s’être emarquédans une tellegalère à moins qu’il ne comprit pas la gravité de la situation et les perspectives encore plus sombres qui s’offraient à l’Ibérie romaine. Cette guerre polyforme ne pouvait qu’entraîner, au fil des ans, des dépenmses extraordinaires. Elles ne justifiaient pas, pour autant, la création d’une nouvelle silique A notre avis, celle-ci traduit purement et simplement l’ambition de Valentien d’auréoler son image de marque des lauriers de la Victoire. Opération de propagande pro domo que les défaites successives de ses géneraux rendirent ridicule auprès d’une population avertie de la rèalité des faits.»

 

Ecco dunque che una scoperta numismatica e la necessità di formulare una spiegazione per l’esistenza di alcune monete romane finora sconosciute (la siliqua era una moneta d’argento, del valore di un ventiquattresimo di solido, coniata per la prima volta da Costantino e attestata fino al regno di Eraclio in Oriente, nel VII secolo)  ha permesso di gettare uno sguardo oltre la facciata ufficiale della politica imperiale tardo-romana nella “pars Occidentis” e di vedere confermata l’impotenza del governo a reprimere tanto le invasioni dei barbari, provenienti dall’esterno del “limes”, quanto le insurrezioni dei contadini poveri, al suo interno.

La cosa interessante è che, almeno nel caso della Spagna e della Gallia, sappiamo che vi furono realmente delle forme di collaborazione fra questi due “proletariati”, quello esterno e quello interno (come li denominava uno storico illustre dell’epoca tardo-antica); sappiamo, in particolare, che i Bagaudi della Gallia rivolsero un invito ad Attila affinché egli varcasse il Reno e invadesse il paese, cosa che realmente accadde nel 451; anche se poi, in quel caso, il re unno andò incontro alla sua unica sconfitta militare, proprio per mano di Ezio e dei suoi alleati Visigoti, nella memorabile battaglia dei Campi Catalaunici.

Fu in quel contesto che i Bagaudi intavolarono trattative con il governo romano, servendosi della mediazione del vescovo cattolico di Auxerre, Germano, in seguito santificato; ma pare che sia stato un caso più unico che raro, perché, nel resto della Gallia come pure in Spagna, non vi furono trattative fra le due parti, ma solo guerra senza quartiere.

In tale guerra, feroce e interminabile, non di rado i cattolici, i quali - specialmente dopo l’editto di Teodosio del 380, con il quale lo Stato aveva riconosciuto il cattolicesimo come unica religione ammessa - si trovarono sovente nella scomoda posizione di capri espiatori della rabbia e della disperazione delle classi rurali più povere, oltre che del furore persecutorio dei popoli germanici convertiti bensì al cristianesimo, ma nella forma ariana.

È questa una pagina pochissimo conosciuta dei primi secoli dell’Impero cristiano; e tuttavia è una pagina importante, perché aiuta a comprendere, in parte, anche la relativa facilità con cui crollarono le difese militari romane predisposte sul “limes” renano-danubiano; e, più tardi, la rapida e facile conquista musulmana della Siria e dell’Egitto, al tempo della grande espansione araba nel bacino del Mediterraneo.

Senza quel gravissimo malessere sociale, che indeboliva le retrovie e creava forme di cooperazione fra i provinciali esasperati ed i barbari invasori; senza la dura oppressione dei coloni e, per converso, l’egoismo di classe e la miopia dei latifondisti, incapaci di accettare l’idea che la sopravvivenza dello Stato, posto che fosse ancora possibile, esigeva una profonda riforma sociale e, dunque, dei sacrifici da parte loro, forse la storia avrebbe preso un altro corso.

Ma a che serve ragionare con i “se”, quando lo storico ha già tanta materia di studio nel ricercare le cause che hanno originato gli eventi e i fenomeni realmente accaduti, anche - come in questo caso - leggendo quel che si nasconde dietro il velleitario trionfalismo delle emissioni monetarie di un’epoca in cui le fonti sono così avare e sospette?

È un’epoca, infatti, in cui egli deve accontentarsi, per sapere qualcosa di più sui Bagaudi, dei versi del poeta Merobaude, che, oltre a non essere certo uno storico, era decisamente interessato a fornirci una versione di comodo di quegli avvenimenti: sia in quanto uomo di fiducia di Ezio, sia in quanto lui stesso protagonista di una campagna militare contro di essi.