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San Michele aveva un gallo

di Francesco Lamendola - 24/05/2013


 


 

Nel film «San Michele aveva un gallo», girato nel 1972 ma uscito nelle sale nel 1975, i fratelli Taviani hanno descritto, ispirandosi al racconto di Tolstoj «Il divino e l’umano», il dramma di un anarchico condannato all’ergastolo (il bravissimo Giulio Brogi), il quale, dopo aver trascorso dieci anni in cella d’isolamento, si vede incompreso e deriso dalla nuova generazione di socialisti marxisti e preferisce lasciarsi cadere in acqua e annegare, piuttosto che sopravvivere al crollo del suoi ideale rivoluzionario e alla perdita di senso della sua vita.

Al di là di alcuni aspetti legati al particolare momento storico-culturale che l’Italia stava allora vivendo, il film svolge una riflessione coraggiosa sul tema del doveroso bilancio che scaturisce dal confronto fra ciò per cui si è lottato e ciò che storicamente appare possibile e realizzabile; un tema che, di per se stesso, è sempre di attualità, almeno fino a quando ci saranno persone oneste, le quali vivono l’impegno politico e sociale con purezza d’intenti e non unicamente come una occasione per conseguire privilegi e inconfessabili vantaggi personali.

Ci sono degli uomini politici, come Giorgio Napolitano, che nel 1956 plaudivano alla repressione sovietica contro il popolo ungherese e che poi, ciò nonostante, si sono accreditati come affidabili rappresentanti del popolo italiano, fino a raggiungere le più alte cariche istituzionali, naturalmente tirando un colpo di spugna sulle loro idee precedenti, ma senza aver mai riconosciuto i propri errori, anzi con l’aria di essere sempre stati dalla parer “giusta”, quella della democrazia e della libertà; e ce ne sono altri, come Gianfranco Fini, i quali, dopo aver fatto la propria carriera all’insegna del neofascismo, hanno dichiarato che il fascismo è stato il Male Assoluto e si sono perfino compiaciuti per la sconfitta del nostro esercito a El Alamein, salvo poi continuare imperturbabili la propria carriera e raggiungere anch’essi le cariche più alte della Repubblica, semplicemente azzerando il proprio passato e sfoggiando, da un giorno all’altro, immacolate credenziali democratiche.

Non che ci sia qualcosa di male nel rivedere le proprie posizioni e nel mutare avviso; quel che lascia perplessi sono la disinvoltura, il cinismo, la spudoratezza con cui si vedono i nostri uomini politici eseguire doppi e tripli salti mortali, senza mai trarne le debite conclusioni sul piano etico e della dignità personale: senza mai sentire il dovere del silenzio, della riservatezza, di compiere un passo indietro, almeno temporaneo, almeno parziale.

Quel che lascia perplessi è il loro voler rimanere a calcare le scene, senza imbarazzo e senza rossore, dicendo esattamente il contrario di quel che dicevano prima e riciclandosi come improbabili “uomini nuovi”, senza sottoporsi neppure a una fase simbolica di raccoglimento e di riflessione, non diciamo di autocritica e di espiazione. Ma come, applaudivi ai carri armati sovietici per le vie di Budapest e ora parli di difesa delle istituzioni democratiche, come se niente fosse? Ma come, dichiari che il fascismo è stato il Male Assoluto e non sparisci in un convento di frati trappisti, per espiare il fatto di aver militato per quasi una vita all’ombra di quella diabolica ideologia? La questione non è che non si possa cambiare opinione e riconoscere uno sbaglio; è che non se ne traggano le inevitabili conclusioni sul piano morale.

La cosa, inoltre, si pone in maniera diversa per il cittadino comune o per un importante uomo politico, che ha fatto della propria fede lo strumento della propria carriera e che è giunto a occupare cariche istituzionali di altissimo livello. Il privato cittadino non deve rendere conto a nessuno di aver cambiato idea, tranne alla propria coscienza; l’importante uomo politico, specie se giunge a ricoprire incarichi nella vita istituzionale, cioè come rappresentante di tutti i cittadini e non solo di quelli che la pensano, o che la pensavano, come lui, deve render conto alla nazione intera. Se  non lo fa, se non sente il dovere morale di doverlo fare, vuol dire che ha poco senso del’onore e pochissima stima dei cittadini, che pure gli pagano il suo non simbolico stipendio e gli rendono possibile un tenore di vita molto superiore a quello dell’uomo comune.

Ma lasciamo stare i personaggi pubblici e limitiamoci al caso della persona qualsiasi; sempre che, beninteso, si tratti di una persona in buona fede, che possieda un sufficiente senso etico e che consideri la coerenza, la rettitudine, l’onestà intellettuale, come dei valori irrinunciabili, antecedenti a qualunque contenuto ideologico e coloritura politica.

L’adesione di un essere umano a un determinato sistema di idee deve confrontarsi con la realtà, a meno che egli si separi psicologicamente dal consorzio umano e ritenga di poter vivere in un bozzolo protettivo, s’intende se ha la fortuna di disporre di un sufficiente margine di autonomia economica. Il protagonista del film «San Michele aveva un gallo», Giulio Manieri, è finito in carcere nel 1870, per aver organizzato un patetico tentativo insurrezionale; ma  scopre, appena dieci anni dopo, che il suo progetto politico è totalmente superato, e che tale viene considerato dai rivoluzionari della nuova generazione. Le conclusioni che egli ne trae sono terribili: non vale la pena continuare a vivere, ora che non c’è più alcuna rivoluzione da aspettare o che, se pure una rivoluzione ci sarà, non sarà quella che egli aveva auspicato, ma qualcosa di completamente diverso, che egli non riesce a capire.

Certo, la decisione del suicidio nasce in lui anche come contraccolpo di una estrema delusione rispetto agli sforzi sovrumani che aveva fatto, nei dieci anni precedenti, per non impazzire nell’isolamento del carcere: si era tenuto aggrappato alla vita proprio dialogando con se stesso circa l’attesa rivoluzione, e adesso egli vede crollare quel castello di aspettative e di sogni che lo avevano aiutato a resistere. Al di là di questo, comunque, la problematica posta sul tappeto dai fratelli Taviani oltrepassa la contingenza di quella stagione della politica italiana e il caso psicologico particolare del personaggio di Giulio Manieri: è una problematica universale, che riguarda il rapporto esistente fra le aspettative ideologiche e il loro scontro con la realtà.

Per non aver accettato il fallimento delle loro aspettative rivoluzionarie, un certo numero di giovani, negli anni in cui veniva realizzato il film, prendevano la via del terrorismo; e poco importa, in questa sede, se si trattò di terrorismo “rosso” o “nero”: in ogni caso, fu la reazione a una nevrosi da fallimento. Un altro modo di reagire è quello di lasciarsi andare e, almeno spiritualmente, di lasciarsi morire: la strada presa da Don Chisciotte, dopo che il magnanimo “hidalgo” ha dovuto rinunciare a fare il cavaliere errante, tarpando le ali ai propri sogni.

La psicologia del rivoluzionario è una psicologia particolare: egli si attende la rigenerazione del mondo e pensa che il suo apporto sia importante, se non decisivo, per realizzare un tal fine. Il fatto che nessuna rivoluzione sociale o politica abbia instaurato il regno della giustizia e della pace non serve da deterrente; né il fatto che nessuna rivoluzione può cambiare il mondo, se gli uomini che la fanno non sono disposti a cambiare se stessi, lo scoraggia: sarebbe anzi più esatto affermare che, di solito, non ne ha alcuna coscienza. Il rivoluzionario “classico” è un uomo (o una donna) che pensa in termini manichei ed estrovertiti: la storia è il campo di battaglia fra il Bene e il Male e la vittoria del Bene dipende non da una trasformazione interiore della coscienza, ma da una strategia efficace e da una tecnica ben collaudata.

Ecco perché il rivoluzionario “classico” è un fanatico. Non ha dubbi, non ha incertezze: taglia la realtà col coltello, di qua i buoni, di là i cattivi; egli si sente arruolato dalla Storia nelle file dei buoni e destinato a guidarli, o almeno ad accompagnarli, verso l’immancabile vittoria; e tale vittoria non dipende da altro che da una propaganda più convincente, da un piano meglio concepito di quello del nemico; in beve, da una oculata individuazione dei mezzi. La rivoluzione è una tecnica per la conquista del potere: se perde, vuol dire che si trattava di una tecnica imperfetta (tale è la diagnosi di Marx sulla Comune di Parigi); se riesce, di una tecnica idonea. Al tempo stesso, però, il rivoluzionario non si sente solamente un tecnico, ma un idealista, e, se possibile, un poeta: il rivoluzionario che piace di più è il cavaliere solitario, come Ernesto “Che” Guevara, non il dottrinario, come Robespierre; inoltre, se perde, egli può sempre consolarsi pensando di aver perso una battaglia e non la guerra (perché la vittoria finale de Bene è scritta nel destino), cosa che viene ampiamente compensata dall’alone romantico che lo avvolge e lo trasfigura.

Il caso del rivoluzionario, peraltro, è un caso particolare di psicologia della militanza politica; un caso, peraltro, assai più diffuso di quanto non si pensi, perché quasi tutti gli esseri umani, in una certa fase della loro vita (la giovinezza), si sentono rivoluzionari “dentro”, anche se non si sognerebbero mai di andare a morire sulle barricate. Questo, almeno, è quel che avviene nel contesto culturale della società occidentale moderna, dove il fascino della rivoluzione ha messo radici da  più di tre secoli - dalla “glorious revolution” inglese del 1688 - ed è stato istituzionalizzato, divenendo un rito laico, in alcuni dei maggiori sistemi politici, come avviene  con la festa del 4 luglio negli Stati Uniti d’America e con quella del 14 luglio in Francia.

Nella nostra cultura politica, essere “moderato” è quasi fonte di mortificazione e pare sinonimo di fariseo pantofolaio; non parliamo poi di “conservatore” o, Dio non voglia, di “reazionario”, che sono i nemici pubblici per eccellenza. Il Bene è sempre in avanti, nel Progresso; e la Rivoluzione è la via più breve per realizzarlo: vedi la rivoluzione scientifica, la rivoluzione industriale, la rivoluzione informatica. Indietro c’è il regresso, cioè il Male; e chi guarda indietro è un non solo un nemico, ma un nemico che va demonizzato, perché è un servitore del Male.

Che, poi, tanti rivoluzionari siano tali solamente nella loro immaginazione, non è cosa che debba stupire più di tanto: viviamo in un’epoca in cui non conta quel che si è e che si fa, ma quel che si pensa di essere, pur non facendo nulla. Resta il problema morale relativo alle conseguenze da trarre quando si assiste al crollo dei propri sogni. Giulio Manieri sceglie di togliersi la vita; il terrorista stile anni ’70, “rosso” o “nero”, sceglie di togliere la vita ad altri, ma è solo una forma di suicidio mascherato: isolandosi dal “popolo” e agendo da lupo solitario, si è moralmente suicidato, non è altro che un disperato in attesa di finire ucciso a sua volta.

La domanda che vogliamo porci adesso è un’altra: fino a che punto è giusto sentirsi dei falliti, quando si tocca con mano l’irrealizzabilità delle proprie aspirazioni politiche? Questo è un caso particolare di una problematica più vasta, relativa alla delusione in quanto tale, che sia questa di natura politica o di qualunque altra natura: affettiva, professionale e via dicendo. La psicologia, così come viene generalmente intesa, rischia di rendere un cattivo servizio, perché viene intesa come una tecnica per raggiungere l’equilibrio interiore; ma, di per sé, essa non sa, né vuole riempire di contenuti, di valori, l’esistenza dell’uomo. Pertanto fa credere che vive bene chi abbia raggiunto un soddisfacente compromesso con la “realtà”, vive male chi non l’abbia raggiunto, indipendentemente dalla natura di questa “realtà”. Quel che vogliamo dire è che, nel contesto di una realtà sociale aberrante, vivere “male” è la spia che si è conservata viva la propria anima, mentre vivere ”bene” è il segnale inequivocabile della morte interiore.

Ciò non significa che bisogna per forza cercare l’isolamento, la persecuzione, il martirio; ma semplicemente che l’equilibrio interiore, che pure è alla base di una vita riuscita, non può essere perseguito come un fine a sé stante, ma che deve essere visto, semmai, come l’esito di una vita, appunto, “ben spesa”; e per spendere bene la propria vita ci vuol altro che la psicologia, ci vuol altro che una tecnica: ci vuole, appunto, la consapevolezza, cioè una rivoluzione interiore. Ecco: il rivoluzionario “classico” è un impaziente e un superficiale, che, incapace di fare in se stesso la necessaria chiarezza e la necessaria rivoluzione, vorrebbe cambiare il mondo, pensando che tale cambiamento farà star bene anche lui, come farà star bene tutti gli altri (tranne i “cattivi”, beninteso, i quali andranno eliminati senza troppi complimenti).

Scriveva Marco Aurelio, nei suoi «Ricordi» (IV, 29, traduzione di Enrico Turolla): «Se chi non conosce che cosa vi è nel mondo, è straniero al mondo; non meno straniero è chi non conosce che cosa avvenga nel mondo. Disertore, chi sfugge a politica ragione; cieco, chi chiude la pupilla della mente; mendico, chi ha bisogno d’un altro e non ha in sé le cose utili alla vita; tumore del mondo, chi si stacca e separa se stesso dalla ragione della comune natura, in seguito a continuo malcontento pei casi suoi […]; relitto di città, chi stacca l’anima propria dall’anima comune degli esseri razionali, anima ch’è una sola.»

Questa, in definitiva, è la domanda che ogni essere umano dovrebbe farsi: voglio essere un tumore del mondo, o un fattore positivo per me e per gli altri? Prima di rispondere, bisogna aver ben chiaro che ci sono due maniere di essere un tumore. La prima, è quella di inseguire sogni irrealizzabili, predicando frattanto l’odio, la disperazione, il nulla; l’altra, quella di adeguarsi alla realtà, quale che essa sia, magari la più ingiusta, per mero servilismo e per l’egoistica ricerca del proprio comodo…