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Abbracciare un lago per abbracciare la vita

di Francesco Lamendola - 02/06/2013




 

Il lago si apre davanti, non grandissimo, ma abbastanza maestoso da incutere rispetto e ammirazione, circondato com’è da una chiostra di alte montagne dal profilo severo e tuttavia elegante e quasi svelto, come se fosse stata tracciata dal pennello di un artista dal tratto leggero e sicuro, dotato di un vivo senso dell’armonia e delle proporzioni.

È uno dei maggiori laghi alpini, del resto: lungo cinque chilometri e mezzo e largo due, profondo alcune decine di metri; circondato di boschi e di colline che poi s’inerpicano bruscamente su tre lati a formare delle nitide montagne, oggi è meta prediletta di surfisti e di velisti, perché quasi sempre attraversato dai venti che ne increspano le acque, mentre, per la stessa ragione, è piuttosto sconsigliato ai bagnanti, che ne temono le forti correnti e la temperatura gelida.

Non era così alcune decine di anni fa, quando solo poche barche a vela e a remi ne solcavano le onde e, nel complesso, le sue rive erano solitarie e silenziose; la strada che si arrampica oltre il passo e discende verso di esso era percorsa da un traffico modesto, specie nei giorni feriali; cosa che avviene anche oggi, ma solo perché una grandiosa autostrada sopraelevata, che per fortuna non si vede dal lago, ha deviato gran parte della circolazione a mezza costa, sul lato occidentale, restituendo alla conca una relativa quiete, sia pure al prezzo di qualche ristorante in meno e di qualche alberghetto abbandonato, quasi le uniche risorse di questa zona.

Il turismo stanziale è sparito, resta quello domenicale, legato alle attività nautiche e sportive; sono in molti, adesso, a venire quassù portandosi dietro la barca a rimorchio, cosa allora riservata a pochissimi. E dalle bottegucce dei paesi che si affacciano sulla riva sono sparite le cartoline illustrate con le vedute del lago, con gli oggettini di artigianato in legno - caprioli e scoiattoli, minuscole gerle e  casette con il termometro o con l’igrometro, decorate con le immancabili stelle alpine -, i giocattoli tradizionali per i bimbi, macchinette o bamboline, sostituiti ormai dai giochi elettronici che i bambini si portano dietro o, magari, dai giornalini a fumetti giapponesi che hanno acquistato prima di partire.

Insomma chi viene quassù per fare vela o surf, oppure per gettarsi con il deltaplano, non spende proprio niente e l’economia della conca guadagna poco o nulla dalla presenza di questi estranei, giusto il caffè o il cappuccino al bar, ma spesso perfino il pranzo si portano da casa e ai valligiani restano quasi solo gli inconvenienti di queste ondate settimanali, tranne il modesto guadagno per il noleggio delle barche e dei pedalò e per i servizi legati all’accesso alla spiaggia. Ma una quarantina d’anni fa le cose erano diverse, c’era forse più gente ma meno confusione, meno automobili, meno imbarcazioni, meno single o gruppi di amici e più famiglie, più bambini, più calore umano. E forse, nel complesso, più pace, più silenzio e più ascolto delle voci della natura.

I prati sono bellissimi, specie in primavera e in autunno, e i boschi di abeti formano una cornice stupenda lungo le rive e sulle pendici dei monti; più in alto, la nuda roccia si tinge di colori solenni e suggestivi, che all’alba e al tramonto diventano magici e fiabeschi: il rosa, il giallo, l’arancio, il violetto, il beige. D’inverno, poi, la neve che incappuccia le vette diventa essa stessa una tela dalle sfumature incredibili, che pare avvampi d’una sua vita misteriosa allorché i raggi si posano obliquamente su di essa e ne fanno risaltare il candore, strappando riflessi luminescenti, che sembrano animarsi per effetto d’un incantesimo. E le vette bianchissime che si riflettono nelle acque azzurre del lago, come degli iceberg alla deriva in uno specchio, creano un colpo d’occhio estremamente affascinante, quale pochi altri luoghi possono offrire.

Quanti ricordi sono legati a questo lago, ai boschi e alle montagne che lo circondano: quante gite domenicali con la famiglia, da ragazzino, e quanti giorni sereni con la nuova famiglia, una ventina d’anni dopo; che visione indimenticabile, quella delle bambine immerse nel verde fitto della foresta di faggi, in un mattino d’estate, accanto alla loro mamma: pareva che in quella verde cattedrale il tempo si fosse fermato, che lo spazio si fosse dilatato a dismisura e che quel momento avesse rotto la cerniera del qui e ora, per dilagare gioiosamente nella dimensione dell’infinito.

Ci sono anche dei ricordi mesti, quassù: un caro amico morto su una di queste montagne, precipitato durante un’ascensione; e poi i ricordi tristi della storia recente, la tragedia della guerra civile, le vittime gettate ancora vive in fondo alle grotte carsiche, molte delle quali esplorate personalmente in gioventù. Però, nel complesso, i ricordi lieti prevalgono di gran lunga, anche se velati di malinconia, perché tante persone care mancano all’appello e su tanti momenti felici si è depositata la polvere del tempo.

Fra tutti, comunque, il ricordo che spicca più nitido, anche se non nei particolari, ma piuttosto nel tono emotivo generale, carico di gioiosa aspettazione, è quello di una mattina di primavera, in cui il lago si lasciò percorrere lungo tutte le sue rive, da un capo all’altro, e cingere come in un abbraccio, dopo una marcia condotta in solitudine, a passo sostenuto, in seguito a una decisione improvvisa, simile a una repentina ispirazione.

Era una domenica mattina presto, al tempo della scuola superiore; il tempo era bello, si annunciava una giornata piena di sole. La stazione ferroviaria era a due passi e la corsa in littorina, mentre i campi fumanti di rugiada cominciavano a risvegliarsi nel chiarore del mattino, era piacevolissima, lungo la linea a binario unico che, ogni tanto, scavalcava un ponticello e attraversava un minuscolo borgo di pietra e di mattoni, con la sua chiesetta e il suo antico campanile, mentre il trenino si tuffava ed usciva sferragliando, a velocità moderata, da una serie di semi-gallerie scavate sul fianco della montagna, acquistando quota fino al passo e poi correndo giù allegramente, come un ciclista che aspira a pieni polmoni l’aria della discesa tumultuosa, dopo aver faticato e sudato lungo la strada in salita.

Ai piedi niente scarponi, solo un paio di scarpe da ginnastica; un berretto per il sole; un piccolo zaino sulle spalle, con una leggera giacca a vento, una bottiglia d’acqua, una mela e un paio di panini; un coltellino multilama per  tagliare il pane e sbucciare la frutta; una bussola, un altimetro e una carta topografica, precisamente una tavoletta dell’Istituto Geografico Militare; e nient’altro. Via così, senza compagni, senza inutili fardelli, senza pensieri, vagando come la nuvola solitaria della poesia di William Wordsworth: «I wandered lonely as a cloud / that floats on high o’er vales and hils, / when all at once I saw a crowd, / a host of golden daffodils», «Io vagavo solitario come una nuvola / che fluttua in alto sopra valli e colline, / quando all’improvviso vidi una folla,  una miriade di narcisi come d’oro».

Ed erano proprio così quei prati, quei colli, le pendici di quei monti: ammantati di fiori gioiosi, tripudianti nel soffio dell’aprile; e anche la poesia, benché imparata a scuola solo da poco, allora non si presentò all’immaginazione: ritorna solo ora – fatto curioso; a quanto pare, la giovinezza non vive ancora di reminiscenze letterarie, non ne ha bisogno: possiede tanta forza e freschezza da abbracciare il mondo con uno sguardo vergine, senza il prisma di ciò che altri hanno detto e che nelle pagine dei libri è stato tramandato. Età fortunata, non ancora così lontana dall’infanzia da non aver conservato frammenti dei sogni di bambino; non ancora così addentrata nella vita adulta, da aver ricevuto ferite che non si possano rimarginare in fretta, anche da parte delle nature più sensibili e pensose: e con un così vasto futuro spalancato innanzi.

La gioia di avanzare di buon passo, pieno di salute e di speranze, agile nei movimenti; la leggera incoscienza dell’età, nessun timore delle vipere, né di perdere la strada, anche se non sempre è possibile camminare in riva al lago, perché a un certo punto, sul lato settentrionale, si stende una vasta distesa di pietre, dove un ampio torrente si apre la strada verso di esso, i punti di riferimento si allontanano e bisogna procedere un po’ a naso, altrimenti il giro si farebbe troppo lungo e un mattino non basterebbe, ci vorrebbe molto più tempo.

Ora il mezzogiorno batte con forza e risplende con tutta la sua gloria in faccia alle montagne; ma già la metà del periplo è percorsa, incomincia il ritorno lungo la sponda occidentale, procedendo un poco in quota per evitare la noia della strada asfaltata e delle macchine che passano, con il sole ormai sulla sinistra, mentre sulla riva orientale saliva in cielo a destra. Una brevissima sosta per consumare un pasto frugale, nel silenzio e nella pace di una piccola radura in mezzo alla boscaglia di noccioli; uno sguardo all’altimetro - siamo a seicento metri di quota, il vento è moderato e giunge gradito a temperare l’ora più calda – e poi di nuovo avanti, verso la stazioncina.

Tutto in poco più di mezza giornata: nel primo pomeriggio la meta è raggiunta, la littorina è già in attesa sui binari, non resta che salire a bordo e lasciarsi cadere sui sedili imbottiti, godendo il rilassamento dei muscoli e la soddisfazione della piccola impresa compiuta. Certo nulla di eccezionale, però una trovata simpatica, un’esperienza da mettere in serbo nella memoria: per misurare le forze, per abituarsi alle distanze, per imparare a contare solo su se stessi; e, soprattutto, per riempirsi gli occhi di bellezza, per godere delle voci della natura come dei suoi silenzi, del richiamo del merlo e del fringuello, dello stormire delle giovani foglie sui rami, del canto argentino del torrente che si getta nelle acque del lago; per ammirare il volo planato della poiana e del falco, per lasciarsi carezzare la pelle del viso dal soffio del vento, per sentirsi scottare la fronte nella vampa del sole a mezzogiorno.

E sempre, sullo sfondo, lo scintillio e il tremolio delle onde: quella ineffabile commistione di monte e di mare, che solo un lago alpino sa trasmettere; quel senso di libertà, di freschezza, di cosa nuova, di piccola scoperta, che solo di chi sa lasciare le strade battute da tutti conosce ed assapora, con intensità quasi voluttuosa, rubando qualche ora di spensieratezza e di serenità al ritmo scandito inesorabilmente dai meccanismi impersonali della vita moderna, dove tutto è stabilito e calcolato in anticipo…

La piccola avventura è già finita, la littorina corre veloce verso casa, le montagne scompaiono nel buio delle prime gallerie e l’ultimo riflesso del lago si spegne alla svolta dei binari, dopo aver brillato ancora una volta sullo sfondo, fra i tronchi eleganti dei faggi e degli abeti; a mezzo il pomeriggio, ritorna la vita di sempre, con le cose abituali. Resta nell’anima un profumo di primavera, di acque, di boschi, di montagne; un profumo di resina e di erba nuova, che lascia a lungo una dolcezza strana, una soavità leggera e quasi impalpabile.

Ora appaiono, come in un plastico raffinato, gli altri tre laghi, più piccoli del primo, in successione, sul versante opposto della valle; le pareti scabre, brulle, incombenti della montagna sul lato orientale, solcate da grandiose forre simili a dei canyon profondi e già segnate dalle prime ombre del tramonto; la grandiosa centrale idroelettrica; le torri medievali che svettano in posizione magnifica, dall’alto, solenni e dignitose come i signori feudali che un tempo le abitarono e le fecero presidiare dalle loro soldatesche, per controllare i traffici a cavallo delle Alpi; infine le ultime colline, i vigneti, i campi coltivati freschi di terra arata, le case sempre più ravvicinate della città ormai prossima.

Come basta poco, a volte, per ritrovare se stessi; per ritrovare il gusto della vita, delle cose buone, delle cose che fanno gioire i sensi e suscitare l’entusiasmo, la vivacità, l’ammirazione per tutta la bellezza che è a nostra disposizione, se sappiamo vederla e se sappiamo volerla, e della quale potremmo godere così spesso, senza mai saziarcene del tutto, ma accogliendola sempre come un dono nuovo, uscito per la prima volta dalla mano di Dio.

Perché ogni cosa è vergine, per chi la sa vedere con l’occhio ancora vergine; ogni cosa è intatta e carica di promesse, per chi la sa contemplare con il giusto stato d’animo; e ogni cosa è buona e infinitamente suggestiva, per chi la sa accogliere come un dono inestimabile, che nessun tesoro umano potrebbe comperare, ma che è offerto gratuitamente a chiunque possieda abbastanza umanità da saperne godere.

Abbracciare un lago, sul fiorire della giovinezza, con lo sguardo levato ai monti nella luce del mattino, è come abbracciare la vita, il suo profumo incomparabile, il suo profondo significato: è una rivelazione, una epifania, un dischiudersi ineffabile del mistero sacro. È come abbracciare l’amore, e la fede nel domani; è come stringere in mano il pegno d’una promessa che nessun orecchio umano ha mai udito pronunciare, ma che l’anima, da sempre, attende fiduciosa, con l’infallibile certezza di ciò che appartiene all’istinto più profondo.

L’anima ha bisogno di questi piccoli assaggi, di queste brevi anticipazioni del bene e della pace cui aspira fin da subito; ha bisogno di queste voci e di questi silenzi, di questi colori e di questi aromi, di questo tepore e di questa brezza, perché è assetata d’infinito ed è affamata di eternità.