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Grande enciclopedia del quasi niente…

di Mario Grossi - 05/06/2013


Distrattamente crediamo che tra la memoria e l’oblio, tra il ricordo e la smemoratezza, tra la veglia e il sonno esista un confine netto, delineabile e sicuro che ci permette ogni volta di sapere con esattezza dove siamo. Crediamo o facciamo finta, per comodità o per pigrizia, di avere in tasca una bussola infallibile che ci permette sempre, con le appropriate triangolazioni, di fare il punto sulla carta, di individuare sulla mappa la nostra posizione.

Così facendo agevoliamo il nostro vivere comune, pena la rinuncia a una delle attività fondamentali della vita che la rendono sapida e vivibile: la ricerca dell’inutile bellezza che l’investigazione dei mondi sospesi e onirici può ancora destinarci.

In verità esiste una vasta zona di confine tra memoria e oblio, in ombra, fluttuante, in costante mutazione, non facilmente delimitabile, sospesa nella costante mutevolezza che è, per chi ci crede, il regno dei quasi morti. Una zona popolata non da vivi, ancora non disseccata nell’albore delle ossa scarnificate e morte, ma ricolma di anime in transizione, allineate sul cammino vorticoso che le trasformerà prima in lettera muta, insignificante e poi che le vedrà espunte dal mondo reale fatto di pulsazioni percepibili, di corpi in carne, di oggetti descrivibili e ancora quantificabili.

Questa vasta zona, sul limitare del mondo fatto di qualcosa, che si estende a ridosso del nulla, e che come un piano inclinato fa scivolare tutto il definito verso l’indistinto, è la patria del quasi niente.

Pascal Ory, professore alla Sorbona, con la sua Grande enciclopedia del quasi niente, edita da Elliot, tenta una ricognizione proprio in questa landa da molti non considerata degna di investigazione.

Lo fa con un libricino di poco più di novanta pagine cui è stato affidato un titolo beffardo che imprime però l’esatta cifra del clima di questa terra meravigliosa.

Sembra contraddittorio intitolare Grande enciclopedia un libricino di alcune decine di piccole pagine, ma qui sta il punto: una cosa grande deve necessariamente avere una dimensione grande? Nella terra del quasi niente, la rarefazione fa sì che questo assunto, già erroneo nel pesante mondo dei corpi viventi, non abbia più nessun senso. Nella terra del quasi niente, dove tutto sta svanendo, non c’è peso, né forma, né direzione, né senso. È tutto un vortice calmo, sospeso, avulso dal lineare trascorrere del tempo che nella sospensione si ferma.

Pascal Ory parte da una costatazione per certi aspetti scontata ma che fissa la linea maestra della sua ricerca.

“Davanti alle cose ci sono le parole. Dietro ad alcune parole non c’è molto. Ed è proprio questo che le rende importanti. Alla fine la vita non vale la pena di essere vissuta se non nell’esatta misura in cui viene riempita fino all’orlo di oggetti inutili, fatti inesistenti e verbi difettivi. Il corpo umano è costituito all’ottanta per cento d’acqua, il presente al novanta per cento di memoria, e la memoria da un’enorme quantità di quasi niente senza i quali non si riuscirebbe a respirare”.

Con esempi raccolti dalla geografia, dalla storia, dalla scienza, Ory ci mette di fronte a questo fatto compiuto.

Raggruppati in brevi capitoletti, sono deliziosi piccoli racconti che hanno uno scopo comune: dimostrare la loro fondamentale inutile importanza, la loro bellezza vana, la necessità della loro permanenza in un mondo che ormai ha fagocitato tutto, rinnegando curiosità e fantasia sull’altare del prosaico.

Nel raccontarci, ad esempio, l’inutilità, per il corpo umano, dell’appendice (che noi percepiamo solo quando s’infiamma) ci disvela un quasi niente che ha del fantastico.

“Il corpo umano racchiude, ben nascosti, molti quasi niente indispensabili, come per esempio quei due minuscoli sfinteri bianco-madreperla di una ventina di millimetri tesi tra l’angolo rientrante della cartilagine tiroide e la base della cartilagine cricoide, che vengono chiamate corde vocali”.

Due righe per descrivere un insignificante apparato di venti millimetri, e per raccontare l’intero percorso evolutivo della specie e dell’arte canora. Senza quei venti millimetri non saremmo diversi da una sogliola.

Se ci accostiamo alla geografia, ci domanda l’autore che fine ha fatto l’Asia Minore. Quella terra che ci ha dato tutti i padri della Cultura umana: il Primo Poeta, il Primo Filosofo, il Primo Matematico, il Primo Storico, il Primo Sociologo. Una terra popolata dai Frigi, dai Cilici, dai Lici, dai Lidi e dai Paflagoniani.

Chi saprebbe spiegare chi sono i Paflagoniani oggi?

Non più Asia Minore, non più Paflagoniani. Il tutto espunto e sostituito dalla Turchia che ha colonizzato tutto, a partire dagli atlanti geografici.

E così per parlare di Storia chi si ricorda più degli Avari? Il popolo barbaro di giganti che affollava i sogni inquieti degli antichi. Scomparsi in qualche landa oscura dell’Ungheria e cacciati persino dai nostri incubi notturni, di loro non è rimasta traccia se non il loro nome.

E tra i colori chi si ricorda del ciano? Fondamentale come il rosso e come il giallo. Tradotto come blu ma con tonalità di cui si è persa la sfumatura.

Il nostro mondo prosaico ha sancito la scomparsa dei colori, restano soltanto i coloranti. E il ciano permane ancora un po’ in qualche nome. Cianografia, tecnica anch’essa tramontata di riproduzione, o nel cianuro e infine nell’acido cianidrico, il famigerato Zyklon B, in uso paranoico tra i nazisti.

E ancora costituisce un quasi niente di bellezza inaudita la distrutta capitale Karakorum che volle Gengis Khan e che l’ultimo che tentò di ritrovare fu il barone sanguinario Von Ungern-Sternberg sufficientemente pazzo per inseguire i suoi sogni e il quasi niente.

È così che il quasi niente trova collocazione facendosi spazio e donandoci un piccolo respiro, un refrigerio nel tutto esplicito dei nostri giorni.

E la memoria va al caro enorme atlante ottocentesco di mio nonno che custodisco, viste le dimensioni enormi, nel soggiorno, che nel centro dell’Africa porta ancora una vasta macchia bianca inesplorata.

Quella macchia bianca e il quasi niente restano ancora un argine per la fantasia, per la possibilità di sogno in un mondo in cui tutto è stato scoperto, mostrato, conosciuto, detto, filmato.

Nel mondo occhiuto dei satelliti e di google earth c’è ancora un piccolo luogo salvifico in cui potersi rifugiare, in cui scoprire nuovamente uno stupore che ci è negato in un oggi disincantato in cui tutto è stato descritto, definito, analizzato, osservato, spiato, esplicitato.

È in questi ultimi relitti del quasi niente che poggia il senso della vita. Relitti che galleggiano in un mare che svanisce ma che sono la solida piattaforma che ci permette ancora di dire che non tutto è stato fatto e che domani può aspettarci una radiosa aurora fatta di ingenua bellezza, infantile stupore, voglia di scoprire novità sepolte sotto una pesante coltre di quotidiano disperante realismo.

Oltre le colonne d’Ercole, un altro quasi niente da riscoprire, verso Atlantide e la vita.

Hic sunt leones.