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Lo «spirito dell’epoca» come problema storico nella concezione di Gabriele Pepe

di Francesco Lamendola - 14/06/2013


 


 


 

Lo storico pugliese Gabriele Pepe (Monopoli, 1899 - Roma, 1971) è stato professore di Storia medievale all’Università di Bari, dal 1949 fino alla morte.

È conosciuto per le sue numerose monografie, scritte con stile chiaro e scorrevole, quasi tutte incentrate sul Medioevo e sul Rinascimento nella storia d’Italia e d’Europa: «Lo Stato ghibellino di Federico II» (1938), «Il Medioevo barbarico d’Italia» (1941), «La politica dei Borgia» (1946), «Il Medioevo barbarico in Europa» (1949), «Il Mezzogiorno d’Italia sotto gli Spagnoli» (1952), «Un problema storico: Carlo Magno» (1952), «Pane e terra nel Sud» (1954), «Francesco d’Assisi tra Medio Evo e Rinascimento» (1965).

Non era un discepolo di Croce, anzi, nel citato «Il Mezzogiorno d’Italia sotto gli Spagnoli», contesta apertamente la tesi del Croce, secondo cui la Spagna avrebbe governato l’Italia meridionale come se stessa, proteggendola dalle minacce esterne e riducendo il potere dell’aristocrazia feudale; perché invece, a giudizio del Pepe, la Spagna avrebbe “usato” il Mezzogiorno d’Italia semplicemente come un antemurale contro la potenza turca e, per il resto, non avrebbe svolto in essa alcuna funzione utile, sfruttandola e lasciandola impoverita. In ciò, egli ha aperto la strada alla storiografia meridionalista di tendenza marxista e gramsciana, che possiamo definire “antispagnolista”, contro quella idealista ispirata dal Croce medesimo, che possiamo qualificare come “spagnolista”.

Gabriele Pepe non ama il Medioevo, specialmente l’Alto Medioevo; pur essendo specializzato in tale campo di studio, si può dire che egli detesta e disprezza la civiltà alto-medievale; le pagine del suo «Medioevo barbarico d’Italia» e quelle del suo «Medioevo barbarico d’Europa» sono, in effetti, una specie di pamphlet serrato, implacabile contro tutto ciò che quell’epoca ha prodotto: nella politica, nelle istituzioni, nelle leggi, nell’economia, nella cultura, nella vita d’ogni giorno. Non cerca di dissimulare la sua avversione e il suo disgusto: li offre ai suoi lettori come cosa che non necessita di alcuna spiegazione.

In particolare, egli reagisce alla storiografia romantica la quale, sulla scia del “buon selvaggio” di russoviana memoria, aveva descritto la fusione dei popoli germanici con quelli dell’Impero romano come provvidenziale per questi ultimi e per l’Europa nel suo insieme, innestando energie fresche e vigorose nel corpo ormai consunto della vecchia civiltà latina. Per Pepe, i Germani non erano altro che barbari, i quali non avevano nulla da offrire alla civiltà, se non stragi, violenze e rapine: così i Franchi, i Visigoti, i Burgundi, i Vandali. Nella storia d’Italia, gli Ostrogoti non fecero altro che adagiarsi sul corpo della sfinita civiltà romana, mentre i Longobardi altro non portarono che la loro rozzezza, la loro cieca furia devastatrice, la loro grossolana ignoranza degli usi civili, la loro assoluta miseria sul piano della cultura, dell’arte e dello spirito.

Negli ultimi anni, il Pepe si era dedicato alla stesura di una monografia, meno conosciuta delle altre, prevalentemente ad uso degli studenti universitari, riguardante i problemi di metodo storiografico relativi all’età medievale: «Introduzione allo studio del Medioevo latino», pubblicata nel 1969, dunque poco prima della scomparsa dell’Autore. Si tratta di un’opera interessante, anche per meglio comprendere il caso un po’ insolito di un medievalista che dedica la sua intera carriera di studioso alla critica feroce e sistematica dell’oggetto dei propri studi; di un medievalista, cioè, che – illuministicamente – altro non vede nel Medioevo se non una lunga, interminabile età di barbarie, una cupa ed oscura parentesi fra la luce dell’età classica e quella dell’età moderna.

Per tentare di penetrare in questa interessante contraddizione, ci paiono particolarmente significative le osservazioni contenute nel paragrafo intitolato «Lo spirito dell’epoca» (da: G. Pepe, «Introduzione alo studio del Medioevo latino», Bari, Edizioni Dedalo, 1969, 1989, pp. 80-82):

 

«Altro errore: lo studio delle cronache ci porta a rivivere  lo “spirito di un’età”. Ma lo spirito di un’età è anch’esso qualcosa di metafisico, se si crede che in certi secoli la massa, protagonista della storia  come le esperienze moderne di vita ci porterebbero a credere,  abbia avuto aspirazioni, idealità, volontà, che, sommate, sottratte, moltiplicate e divise ci darebbero lo spirito dell’epoca: la metafisica si confonde con la piatta mania statisticolatra della nostra età e col naturalismo delle scienze fisiche.  In realtà tale spirito è da prendere solo come espressione metaforica di cultura di un popolo, di tradizioni, di alcuni ideali che un popolo ama come i suoi più alti valori collettivi (ad esempio, la tradizione del Risorgimento in Italia). In ogni epoca esistono uomini che creano a se stessi e ad altri illusioni, speranze palingenetiche, che vogliono uscire dall’ovile, dalle esperienze collettive per creare, o per capovolgere, il peso di una realtà che li opprime. Essi creano, talvolta, dei “miti”, che dicono lo spirito di certi gruppi sociali e di certi individui in alcune età, ma non di tutta l’età astrattamente.

Arnaldo da Brescia a contatto di Abelardo sente lo spirito accendersi di nuova luce e vede nel Comune romano l’aurora di un nuovo mondo e crea intorno a sé una repubblica di prodi; un esaltato come Cola di Rienzo, che ha il petto acceso di un’immensa passione romantica, riesce a suscitare intorno a sé una nuova repubblica di prodi. Ora, se io rifò la storia di queste repubbliche romane, sono proprio sicuro che lo spirito del tempo sia nelle cronache arnaldiste e non nelle imperiali, nella “Vita” famosa di Cola, e non negli scritti degli avversari? Adriano e Barbarossa, che scannavano Arnaldo, i baroni-briganti che combattevano Cola, erano fuori dello spirito dei loro giorni? Arnaldo, Cola, furono i veri vincitori e lo spirito del mondo si sviluppò da essi, che erano coscienza morale, volontà di bene e non dai loro avversari. Da questo fatto, dal trionfo cioè dello spirito del bene, noi crediamo di poter concludere che questi portatori di verità erano anche i portatori dello spirito della loro età, che essi esprimevano. Nulla di più falso: in ogni età ci sono mille spiriti diversi e nessuno dobbiamo ipostatizzare come tipico di un’età. Lo storico deve mettere in luce tutte le tendenze: cronache, libri polemici, orazioni, tutte le forze spirituali di una storia “condenda”, che si fa “condita” con infinite forze e non con una sola.

Le facili conclusioni dell’eruditismo ingenuo, che ripete tutto ciò che si trova nelle cronache, si evitino con l’abito critico a scoprire, oltre gli errori di informazione, tutti quegli altri errori più volontari che abbondano per motivi utilitari di Ordini religiosi, di partiti politici, di interessi familiari. All’eruditismo ingenuo corrisponde l’entusiasmo a freddo, se non ipocrita, di chi si commuove ad ogni cronaca che senta di primitivo: lo si supera col giudizio estetico che trova il primitivo infarcito di retorica.»

 

Se, dunque, l’approccio di Gabriele Pepe è illuminista quanto ai contenuti, cioè al disdegno verso la civiltà medievale, è anti-illuminista quanto al metodo, allorché si scaglia contro l’ingenua credenza in un cosiddetto “spirito del tempo” o “spirito del popolo”, concetti che egli ritiene, come lo storico svizzero Eduard Fueter (1876-1928; «Geschichte der neueren Historiographie», München, 1911; traduzione italiana di G. Spinelli, «Storia della storiografia moderna», Napoli, 1944) nati appunto nell’alveo della cultura illuminista.

Con chi se la prende e contro chi è diretta la sua polemica, in questo caso? Esplicitamente, con Leopold von Ranke (1795 – 1886) e la sua «Istoria del Papato nel XVI e XVII secolo», in cui, positivisticamente, lo storico tedesco sosteneva che le società sono pervase dallo spirito dei tempi, il quale si esprime attraverso l’opera creatrice di alcuni individui geniali, che le captano, per così dire, le organizzano e le convogliano in una determinata direzione. Pepe, invece, concepisce la storia soprattutto come “storia sociale” e, quindi, non può condividere questa concezione, perché non crede a tali personalità eccezionali che agirebbero in maniera autonoma e creatrice, sia pure servendosi dello “spirito del tempo”; anzi, non crede affatto ad un tale spirito del tempo, sostenendo che si tratta di una illusione di prospettiva, dovuta all’uso ingenuo e “romantico” di certe fonti e alla trascuratezza rispetto ad altre fonti, dalle quali, se prese in esame, uscirebbe una immagine ben diversa delle epoche in questione. In questo tipo di atteggiamento, egli è lontano sia dalla storiografia illuminista (e positivista), sia da quella romantica, perché entrambe avevano valorizzato, e sia pure per motivi diversi - si confrontino le posizioni di un Voltaire, con il suo «Secolo di Luigi XIV», e di un Carlyle, con il suo «Degli eroi» - la figura dell’uomo eccezionale, creatore della storia. Indirettamente, si potrebbe pensare che Pepe rivolga i suoi strali anche contro storici come Ferdinand Gregorovius (1821-1891) e come Johan Huizinga (1872-1945), i quali, nei loro rispettivi capolavori, «Storia della città di Roma nel Medioevo» e «L’autunno del Medioevo», molto spazio hanno concesso a tale “spirito del tempo” e molto si sono basati su di esso per le loro fastose e colorite rappresentazioni - anche se deve essere sfatata la leggenda che questi storici-poeti non abbiano basato i loro studi su ricerche d’archivio serie e meticolose, quanto potrebbe desiderarlo qualsiasi storico d’impostazione “scientifica” (sia essa marxista o no).

Al mito in frantumi dell’innesto di forze fresche operato dai popoli germanici sul tronco infiacchito della civiltà latina, dunque, il Pepe contrappone la ferma convinzione che tali popoli non abbiamo dato alcun contributo significativo alla conservazione o al progresso della civiltà, e che le vere forze della rinascita siano state tutte interamente latine: il Papato, il monachesimo e le città marinare; ossia proprio quei centri di vita organizzata che i barbari, nella loro avanzata, non erano mai arrivati a conquistare e a dominare.

Lascia perplessi, comunque, l’affermazione che Arnaldo da Brescia e Cola di Rienzo incarnavano lo “spirito di bene”, espressione già di per sé  piuttosto inattesa, da parte di uno storico che mostra una così radicata diffidenza verso ogni generalizzazione e ogni idealizzazione, anzi, verso la filosofia della storia in quanto tale, sotto qualunque prospettiva essa venga coniugata; impressione che solo in parte viene controbilanciata dalla pronta dichiarazione che lo “spirito di bene”, costruttore di civiltà, non coincide con lo “spirito dei tempi”, per il semplice fatto che non uno, ma infiniti “spiriti” esistono in un determinato momento storico.

Un altro passaggio che lascia perplessi è quello in cui il Pepe parla degli ideali che un popolo ama come i propri più alti valori morali, e cita, ad esempio di ciò, la tradizione del Risorgimento in Italia: come se il Risorgimento fosse stato creazione collettiva e supremo valore morale di tutto il popolo italiano, o di gran parte di esso, e non già l’opera di piccoli gruppi, di abili minoranze, e, più ancora, un ”mito” costruito a posteriori, per ratificare l’esito di quell’opera e per giustificare le forzature, gli errori e le ingiustizie da essa compiute – qualcosa di simile a quanto sarebbe poi stato fatto per l’altro grande mito dell’Italia post-unitaria, quello della Resistenza.

Gabriele Pepe, pervaso da ideali risorgimentali, vedeva nel Risorgimento il momento più alto del sentire collettivo del popolo italiano: e commetteva lo stesso errore di prospettiva che addebitava a quanti confondono lo “spirito del mondo” (inteso, un po’ hegelianamente e un po’ cristianamente, come “spirito di bene”) con lo spirito del proprio tempo; evidentemente, non si accorgeva di non rispettare le proprie premesse metodologiche, il proprio ammonimento a non dar voce ad una sola categoria di fonti storiche, quelle che esprimono lo “spirito del mondo”, il quale però non coincide affatto con lo spirito del tempo.

Gabriele Pepe, pertanto, offre l’esempio di uno storico che, dopo averci messo in guardia, e giustamente, contro i pericoli dell’agiografia, della edulcorazione, del travisamento – talvolta ingenuo, altre volte interessato - del divenire storico, cade poi lungo e disteso sopra la buccia di banana del proprio soggettivo sentire, identificandolo con il sentire del “popolo”; errore che non è poi così innocente come potrebbe sembrare a prima vista.

In virtù di tale deformazione prospettica, infatti, è possibile far passare per valori oggettivi e condivisi delle azioni politiche, condotte da piccole minoranze, magari anche bene intenzionate, ma non necessariamente capaci di interpretare le necessità pratiche e spirituali del proprio tempo; e tramandare ai posteri una versione addomesticata dei fatti, trasformando la storia in una serie di miti autoreferenziali, che non possono mai smentire se stessi, perché costretti a vivere perpetuando il proprio auto-inganno. E di simili miti, Dio sa se è piena la storia d’Italia, specialmente moderna…