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Quanta nostalgia del “buon selvaggio” di Rousseau nei tristi Tropici di Lévi-Strauss

di Francesco Lamendola - 22/07/2013

 


 

È noto che l’opera di Claude Lévi-Strauss, quando giunse la ventata del ’68, fu sottoposta a dure critiche da parte della cultura “rivoluzionaria”, specialmente statunitense: da Angela Davis e Stokely Charmichael, esponenti di punta dei movimenti afroamericani, a Herbert Marcuse, nume tutelare della sinistra libertaria e ultra-contestatrice, all’etologo e zoologo Desmond Morris, si scagliarono tutti contro questo antropologo francese (ma di origine belga e di famiglia ebraica), titolare della Cattedra di Antropologia sociale presso il Collège de France ed esponente affermato e autorevole del pensiero strutturalista.

Che cosa gli rimproveravano, in buona sostanza? Dal punto di vista metodologico, la scarsa scientificità: l’aver privilegiato l’aspetto speculativo e l’aver scarsamente curato, nelle ricerche “sul campo”, la documentazione rigorosa, statistica, “scientifica”, appunto; dall’altro, l’aver idealizzato il “pensiero selvaggio” e, più in generale, la dimensione primitiva, per cui, pur avendo dato una forte spallata alle dominanti concezioni antropologiche etnocentriche, aveva però letto una serie di fenomeni culturali “selvaggi”, come l’esogamia e la relativa proibizione dell’incesto, in chiave tipicamente freudiana (e marxista).

Insomma, se come marxista – e sia pure anomalo – Lévi-Strauss poteva sembrare ancora troppo “eurocentrico”, come nostalgico di Rousseau era troppo “idealista”: non teneva in alcun conto l’aspetto evoluzionistico dell’uomo; pecca, questa gravissima, che si legava con l’altra, di aver immaginato il “punto zero” della civiltà in una ipotetica umanità selvaggia e “felice”, proprio come per gli illuministi. Ci voleva ben altro, per la cultura del ’68 californiano; ci voleva il crudo biologismo de «La scimmia nuda» di Desmond Morris, testo che, infatti, venne adottato per le loro lezioni sia da Herbert Marcuse che da Angela Davis.

Una faida interna alla cultura “progressista” degli anni Sessanta, dunque; non un dibattito aperto a trecentosessanta gradi, non una occasione o un tentativo di auto-critica di quella cultura (la quale, come è noto, riteneva e ritiene ancora adesso, nei suoi tardi ma impenitenti epigoni, di non sbagliare mai, quand’anche dovesse dare torto al mondo intero); qualche cosa di molto simile, dal punto di vista dei meccanismo psicologici, alla Rivoluzione culturale cinese, nella quale la giovane generazione maoista imbastì un inesorabile processo alla vecchia, accusandola, in ultima analisi, non di essere conservatrice, ma di non essere abbastanza rivoluzionaria, perché la rivoluzione non è mai “troppa” (tanto è vero che le Guardie Rosse non si peritarono di fare il processo “retroattivo” niente meno che a… Confucio).

Ed era logico. Una volta ereditato, dalla cultura illuminista, l’idea del Progresso illimitato, alla cultura marxista e “rivoluzionaria” del secondo Novecento non restava che da considerare alla stregua di nemici, attuali o potenziali, tutti coloro i quali non spingevano sempre più avanti la protesta, le rivendicazioni, la lotta; tutti coloro i quali mostravano qualche indugio, qualche esitazione, qualche scrupolo di natura “idealistica”; in breve, tutti coloro i quali non capivano che bisognava porre la cultura e lo stesso pensiero, puramente e semplicemente, al servizio della causa rivoluzionaria, subito, immediatamente: non domani, non fra un’ora, ma all’istante. Era la sindrome dell’estremismo rivoluzionario, la quale, accumulando un mito dopo l’altro – il 1793, il 1848, il 1871, il 1917 (l’Ottobre, beninteso, non il “borghese” febbraio), il 1945 (per l’Italia), il 1968, il 1977 (ancora per l’Italia) - era “costretta” a marciare sempre più avanti, a puntare sempre più in alto, gonfiando i propri slogan e proclamando che, ormai, non poteva accontentarsi di niente che non fosse il trionfo totale e irreversibile, quel «Vogliamo tutto» che sarà teorizzato da Nanni Balestrini: un misto esplosivo di massimalismo e d’impazienza.

Per Lévi-Strauss, le nostalgie russoviane sono evidenti e costituiscono il sottofondo della sua intera  concezione antropologica e filosofica, anche se un’intelligenza lucida come la sua ne avvertiva la insostenibilità sul piano speculativo. Infatti una ipotesi del “punto zero”, come egli la immaginava, aveva tratti di somiglianza con quella di un  Jean Itard, cioè con il dibattito antropologico degli ultimi decenni del XVIII secolo, più che con quella di un Desmond Morris, poiché sospingeva la questione delle origini della civiltà in un passato favoloso e sostanzialmente a-storico (ma cfr., su Itard, il nostro saggio «Il conflitto tra “natura” e “cultura” nel caso del ragazzo selvaggio dell’Aveyron», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 16/06/2008). Perfino il paleontologo gesuita Teilhard de Chardin, in quanto evoluzionista, sembrava più “aggiornato” dal punto di vista antropologico.

Alcuni passaggi di «Tristi Tropici» sono eloquenti riguardo alla nostalgia di Lévi-Strauss per il mito del “buon selvaggio”; ne scegliamo alcuni, quasi a caso.

Saputo che, lungo il fiume Pimenta Bueno, vive una piccolissima tribù che nessun bianco ha mai avvicinato, Lévi-Strauss nel 1936 lascia i Tupi Kawahib e risale la corrente in mezzo alla foresta del Mato Grosso, fino a raggiungere il villaggio in questione, abitato da appena 26 indigeni. Ed ecco alcune delle sue osservazioni in merito a questa esperienza (da: C. Lévi-Strauss, «Tristi Tropici»; titolo originale: «Tristes Tropiques», Paris, Librairie Plon, 1955; traduzione dal francese di Bianca Garuffi, Milano, Il Saggiatore, 1960, p. 312 sgg.):

 

«Non c’è prospettiva più esaltante per l’etnologo che quella di essere il primo bianco a penetrare in una comunità indigena. Già nel 1938 questa suprema ricompensa si poteva ottenere solo in poche regioni del mondo, tanto rare da poterle contare sulle dita di una sola mano. Da allora queste possibilità sono ancora diminuite. Avrei rivissuto dunque l’esperienza degli antichi esploratori, e, attraverso di essa, quel momento cruciale del pensiero moderno in cui, grazie alle grandi scoperte, una umanità che si credeva completa e perfezionata riceve all’improvviso, come una contro-rivelazione, l’annunzio che non era l’unica, che era soltanto una parte di un più vasto sistema e che, per conoscersi, doveva prima contemplare la sua irriconoscibile immagine in quello specchio una particella del quale, dimenticata per secoli, stava per dare a me solo il suo primo ed ultimo riflesso.

Questo entusiasmo è ancora possibile nel XX secolo? Per poco conosciuti che fossero gli Indiani del Pimenta Bueno, non potevo aspettarmi da essi l’impressione provata dai grandi autori: Léry, Staden, Thevet che, 400 anni or sono, posero il piede sul territorio brasiliano. Ciò che essi videro allora, i nostri occhi non lo vedranno mai più. Le civiltà che studiarono per primi si erano sviluppate in direzioni diverse dalle nostre e non avevano raggiunto la pienezza né la perfezione compatibili con la loro natura, mentre le società che noi possiamo studiare oggi – nelle condizioni che sarebbe illusorio confrontare con quelle di quattro secoli fa – non sono più che corpi indeboliti e forme mutilate. Malgrado le enormi distanze e ogni genere di intermediari (di una bizzarria spesso sconcertante quando si arriva a ricostruirne la catena) esse sono state annientate da quel mostruoso e incomprensibile cataclisma che fu, per una tanto larga e innocente frazione dell’umanità, lo sviluppo della civiltà occidentale; questa non dovrebbe dimenticare che il suo sviluppo le ha dato un secondo volto, non meno vero e indelebile dell’altro. […]

Per quattro giorni avevamo risalito il fiume; le rapide erano così numerose che dovemmo scaricare le piroghe, trasportare il carico e ricaricarlo fino a cinque volte in una sola giornata. L’acqua scorreva fra le formazioni rocciose che dividevano la corrente in diversi bracci; nel mezzo, scogli a fior d’acqua avevano trattenuto alberi che andavano alla deriva con tutti i loro rami, terra e grovigli di vegetazione. Questa, su quegli isolotti improvvisati, riprendeva così rapidamente vita che non risentiva neanche dello stato caotico i cui l’ultima piena l’aveva lasciata. Gli alberi crescevano in tutti i sensi, i fiori sbocciavano attraverso le cascate; non si sapeva più se il fiume serviva a irrigare quel prodigioso giardino o se invece sarebbe stato presto soverchiato dalla moltitudine delle piante e delle liane alle quali tutte le dimensioni  dello spazio e non più soltanto la verticale sembravano diventate accessibili, dato l’annullamento di ogni distinzione abituale fra la terra e l’acqua. Non c’era più fiume, non c’erano più rive, ma un dedalo di aiuole lambite dalla corrente, mentre il terreno affiorava fra la schiuma. […]

Questi indiani, che si autodesignano col nome di Mundé, non erano mai stati menzionati in tutta la letteratura etnografica.  […] Ho passato presso di loro una piacevole settimana, e raramente ospiti si sono dimostrati più semplici, più pazienti e più cordiali. Mi facevano ammirare i loro giardini dove crescevano il mais, la manioca, la patata dolce, l’arachide, il tabacco, la zucca e diverse specie di fave e di fagioli. Dissodando la terra, essi hanno cura di rispettare il ceppo delle palme dove prolificano grosse larve bianche di cui sono ghiotti: strana confusione fra l’agricoltura e l’allevamento. Nell’interno delle capanne rotonde filtrava attraverso gli interstizi la luce diffusa, pagliettata dal sole.  Queste capanne erano costruite accuratamente con pertiche piantate in cerchio e curvate su paletti forcuti che formavano archi di sostegno, fra i quali avevano sospeso una decina di amache di corda annodata. […]

Eppure, questa avventura cominciata nell’entusiasmo mi lasciava una impressione di vuoto. Avevo voluto andare fino all’estremo limite della vita selvaggia: non ero dunque soddisfatto, ormai giunto fra questi benevoli indigeni che nessuno aveva mai visto prima di me e che nessuno, forse, vedrà dopo? Alla fine di un viaggio esaltante avevo trovato i miei selvaggi. Ma, ahimé, essi lo erano tropo. Solo all’ultimo momento mi si era rivelata la loro esistenza e mi era quindi mancato il tempo per conoscerli.  Le limitate risorse di cui disponevo, il deperimento fisico in cui ci trovavamo i miei compagni ed io - e che le febbri conseguenti alle piogge avrebbero ancora aggravato – non mi permettevano che una osservazione superficiale quando sarebbero stati necessari mesi di studio. Essi erano là, pronti ad insegnarmi i loro costumi e le loro credenze e io non conoscevo la loro lingua. Vicini a me come un’immagine in uno specchio, potevo toccarli ma non potevo comprenderli. Ricevevo nello stesso tempo la mia ricompensa e il mio castigo. Poiché non era forse colpa mia e della mia professione ritenere che gli uomini differiscano tra loro?  Che alcuni meritino più interesse e più attenzione perché il colore della loro pelle e i loro costumi ci stupiscono? Giunti a decifrarli, essi si spogliano di ogni stranezza; avrei potuto anche non muovermi dal mio villaggio. Oppure, come nel precedente caso, la conservano ancora e allora non mi serve a nulla poiché non sono in grado di afferrare il significato. Fra questi due estremi, quali casi estremi giustificano i motivi di cui noi viviamo? Da questo turbamento che nei nostri lettori è causato da osservazioni elaborate quel tanto che basta per essere intelligibili e tuttavia interrotte a mezza strada poiché svelano esseri simili a coloro per i quali quelle usanze sono normali, chi è veramente ingannato? Il lettore che crede in noi, o noi stessi che non abbiamo alcun diritto di essere soddisfatti prima di arrivare a dissolvere quel residuo che è pretesto alla nostra vanità?

Parli dunque, questa terra, invece degli uomini che si rifiutano. Attraverso gli incanti che mi hanno sedotto lungo questo fiume, mi risponda infine e mi riveli la formula della sua verginità. Dov’è nascosta, dietro queste confuse apparenze che sono tutto e non sono niente?  Scelgo dei particolari, li isolo: è questo albero? è questo fiore? Ma essi potrebbero trovarsi anche altrove. Ed è anche questa menzogna, questo tutto che mi esalta e di cui ogni parte, presa isolatamente, si dilegua?  Se devo ammetterlo come realtà, voglio per lo meno raggiungerlo per intero, nel suo ultimo elemento. Rifiuto l’immenso paesaggio, lo circoscrivo, lo limito a questa spiaggia di argilla e a questo filo d’erba: nulla dimostra che il mio occhio, allargando la sua visuale, non riconoscerebbe il bosco di Meudon intorno a questa insignificante particella di terreno giornalmente calpestata dai più autentici selvaggi, ma dove manca ciononostante l’impronta di Venerdì.»

 

Come si vede, abbiamo scelto questa pagina di prosa non solo perché essa testimonia chiaramente la discendenza concettuale di Lévi-Strauss da Rousseau, o meglio la sua inestinguibile nostalgia per il mito del “buon selvaggio”, ma anche perché illustra in maniera esemplare la concezione strutturalista dell’Autore – simile, in questo, a quella del linguista Roman Jakobson, dello psicanalista Jacques Lacan, del filosofi Michel Foucalult e Louis Althusser e del critico letterario Roland Barthes.

Così come un’opera letteraria o artistica può essere “scomposta” negli elementi che la costituiscono, il cui valore funzionale è determinato dall’insieme dei rapporti fra ciascun livello dell’opera stessa e tutti gli altri, così Lévi-Strauss, entrato a contatto con l’ultima tribù “selvaggia” nella foresta sudamericana, si domanda in che cosa risieda precisamente tale essenza “selvaggia”, se negli uomini, nel paesaggio, nei particolari delle cose; sente che essa gli sfugge, proprio ora che è vicinissimo al mistero, e si rende conto che l’impronta di Venerdì non è impressa sul terreno argilloso in riva al grande fiume, sebbene ve ne siano tante altre lasciate dai piedi di innumerevoli, autentici selvaggi.

Isolando i particolari del luogo, con un procedimento in fondo più simile a quello della “epoché” husserliana – vale a dire a una sospensione del giudizio davanti all’oggetto - che a quello di un deliberato relativismo etnologico, Lév-Strauss cerca di afferrare quella essenza ”selvaggia” che sente sfuggirli irreparabilmente; e approda, naufrago disincantato, alla constatazione che gli uomini, in fondo, sono simili ovunque, perché esistono delle strutture logiche comuni a tutte le culture. La formazione dei miti, per esempio, o l’organizzazione familiare, rispondono a un bisogno di organizzare il pensiero e le forme della vita sociale che è proprio dell’uomo in quanto tale e che assume aspetti diversi nei differenti contesti, fermo restando che il “pensiero selvaggio” non è meno logico e meno strutturato di quello dell’uomo “civile”.

Ma è proprio questo aspetto dell’antropologia di Lévi-Strauss che non piacque, che non può piacere a quanti inseguivano ed inseguono il mito “rivoluzionario” di una umanità alternativa al modo di pensare e di sentire occidentale moderno. Per costoro, Lévi-Strauss è un “normalizzatore”, un negatore di tale radicale alterità; essi hanno bisogno di credere – un bisogno quasi religioso, a ben guardare – che il “pensiero selvaggio” non ha nulla a che fare con noi, corrotti dalla civiltà e trasformati da essa in biechi agenti dello sfruttamento politico e sociale, della discriminazione razziale e sessista, in automi senz’anima al servizio del capitale.

Però, a questo punto, chi è il vero discepolo di Rousseau e del mito del “buon selvaggio”, con tutto ciò che di puerile, di irreale, di evasivo vi è in tale concezione: l’onesto antropologo che risale i fiumi del Mato Grosso alla ricerca dell’ultima tribù ai confini del mondo, e che rimane deluso dall’averla trovata diversa, sì, ma non quanto si aspettava, non così radicalmente “altra” rispetto al mondo civilizzato; oppure i suoi critici “rivoluzionari” che non accettano la sconfitta delle loro favole e non si rassegnano alla fondamentale uniformità dei meccanismi mentali e sociali, ma hanno bisogno di credere in un “pensiero rivoluzionario” che è solo l’estremo, irriducibile travestimento di quello “selvaggio”, magari incarnato in Patrice Lumumba o in Malcom X, in Ho Chi Minh o in Ernesto “Che” Guevara?

Se nelle fronde e nelle foglie della foresta sudamericana è possibile riconoscere il bosco di Meudon, alle soglie della periferia parigina, anche il “buon selvaggio” che la abita è costretto a retrocedere in una dimensione mitica, «ab illo tempore», il che equivale, di fatto, alla sua scomparsa dall’orizzonte spirituale dell’uomo moderno. E questo, Lévi-Strauss era disposto ad accettarlo, sia pure con un senso di delusione e con un’intima amarezza (ecco allora donde proviene la “tristezza” dei suoi Tropici!); ma i suoi contestatori di sinistra, no…