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La generazione che fece la guerra nel 1939 era tanto più disillusa di quella del 1914

di Francesco Lamendola - 03/08/2013




 

Mentre la guerra del 1914 fu accolta - e perfino sollecitata - con slancio ed entusiasmo ancora romantici, da masse di milioni di uomini, e in particolare di giovani, di studenti che lasciavano i banchi del liceo per correre ad arruolarsi, quella del 1939 invece fu accolta dalle popolazioni in un tetro silenzio, mentre i giovani andavano al fronte con cupa rassegnazione, senza alcuno slancio, compresi quelli della Germania hitleriana.

Ha pesato, in questa differenza stridente, l’esperienza della prima guerra mondiale, che tutti si erano aspettati breve e “gloriosa”, mentre era stata lunghissima e spietata, con largo impiego di armi chimiche e altre tecniche inumane, e con il blocco navale alleato che aveva trasformato la guerra di eserciti in guerra di popoli, sottoponendo anche i civili alle inaudite privazioni d’una economia di guerra sempre più asfittica; e, più i generale, ha pesato il colpo gravissimo che l’idea stessa di civiltà aveva ricevuto da quei quattro anni di carneficina. I giovani che correvano agli uffici di reclutamento nell’estate del 1914 erano ingenui e pieni di entusiasmo; salivano sulle tradotte militari cantando e sorridendo alle ragazze che offrivano loro dei fiori, al suono delle bande reggimentali. Sui vagoni avevano scritto col gesso il nome della capitale nemica che si ripromettevano di conquistare di slancio, convinti che sarebbero tornati a casa, carichi di gloria, nel giro di qualche settimana, in ogni caso prima dell’inverno.

I documenti, i diari e le fotografie dell’epoca parlano chiaro: la guerra era vista – non da tutti, si capisce, ma da molti – come una specie di rito di iniziazione alla virilità: impensabile lasciarsi scappare una simile occasione, davanti agli amici e alle ragazze; e ciò era particolarmente vero nella piccola e media borghesia, ove più vivi erano i fermenti vitalistici, superomistici e “nietzschiani”, oltre a quelli puramente e semplicemente nazionalisti e imperialisti. Perfino nella vecchia Austria non c’erano, almeno in apparenza, le inquietudini, né il presentimento del fatto che quella guerra non sarebbe stata come tutte le altre; che avrebbe sconvolto assetti politici e sociali, certezze morali, modi di vivere, di pensare e di sentire; e che nulla, al termine di essa, sarebbe più stato come prima, in alcun campo dell’esistenza, dall’arte alla morale sessuale; che il vecchio mondo sarebbe tramontato per sempre e ne sarebbe sorto un altro, completamente diverso.

Questa ingenuità, questa freschezza, traspaiono chiaramente e sono state analizzate, con magistrale perspicacia, da scrittori come Stefan Zweig, nel suo celebre «Il mondo di ieri»; esse fanno un singolare contrasto con la stanchezza, la rassegnazione, il fatalismo con cui i giovani del 1939 accolsero la chiamata alle armi e si avviarono incontro al loro destino per puro senso del dovere, ma con intima e sofferta disillusione – anche qui, si capisce, con un certo numero di eccezioni, su entrambi i lati degli schieramenti in lotta.

Pesava anche, sulla generazione della seconda guerra mondiale, l’amara delusione del 1919: di una pace che non era stata una vera pace, ma solo una tregua armata; che non aveva rimosso le cause profonde del conflitto, ma solo aggravato e rinfocolato quelle antiche; che aveva deluso quanti avevano speso nell’orrore delle trincee il fiore della propria giovinezza e avevano atteso invano un ordine più giusto, come risarcimento a quegli anni di vita rubati, a quei compagni seppelliti nelle Ardenne o sul Carso o sui Carpazi, a quelle ferite, fisiche e morali, con cui erano tornati a casa, magari senza più trovare un lavoro e un decente reinserimenti nella vita civile. Perciò i giovani che andarono al fronte nel 1939 (nel 1940 per l’Italia) non nutrivano alcuna illusione: non credevano più alla guerra come “igiene del mondo”, né che ci sarebbe stata, alla fine, una pace “giusta”.

Questa profonda differenza di attitudine spirituale emerge con evidenza da una pagina del romanzo di Wolfgang Ott, «Squali e pesciolini», dedicato al dramma della guerra sottomarina e visto attraverso gli occhi di alcuni giovanissimi sommergibilisti, volontari provenienti dalla marina mercantile (titolo originale: «Haie und kleine Fische»; traduzione dal tedesco di Mario Merlini, Milano, Garzanti, 1958, pp. 323-26):

 

«La storia della guerra navale la insegnava un ufficiale della marina del Kaiser, un ometto col pizzo e col colletto duro inamidato.  Aveva partecipato alle battaglie navali di Coronel e delle Falkland , che rappresentavano il più bel ricordo della sua vita. Nei mesi del corso  descrisse sei volte lo svolgimento di queste battaglie e la parte che vi aveva avuto personalmente. Punto culminante dello storico della marina imperiale era sempre l’affondamento della nave sulla quale era primo ufficiale.  Mentre nuotavano per salvare la vita, i marinai avevano preso a cantare “Deutschland, Deutschland über alles”. Ragion per cui, lui, che stava pure nuotando in acqua, aveva gridato sulle onde dell’Atlantico: “Cessare il canto. Risparmiare le forze.” Ed era stata per lui una cosa entusiasmante l’udire i marinai in acqua che si gridavano a vicenda: “Ordine del primo ufficiale: cessare il canto”. Gli allievi si sorbirono tre volte questo racconto e tacquero per cortesia verso quel vecchio: del resto gli credevano sulla parola. Ma quando cominciò a snocciolare la sua storia per la quarta volta, Heyne, che era seduto nell’ultima fila, gridò rivolto alla cattedra: “Riposa in pace”. Per un momento ci fu silenzio assoluto. In questo silenzio, l’allievo seduto accanto a Heyne disse: “Continui pure a cantare”. Lo storico della marina probabilmente non aveva afferrato queste parole, ma la risata che le seguì non poté non udirla. La riferì all’interruzione di Heyne e gli domandò che cosa avesse inteso dire. Heyne gli rispose che ormai quella storia la sapevano a memoria.

“Degli eroici marinai tedeschi non si parla mai abbastanza.”

“Io sono di diverso parere, signor comandante,” disse Heyne. E poi parlò chiaro:la parola “eroe”, per l’uso che se ne faceva, aveva acquisito un sapore inflazionistico, e del resto il coraggio male speso non valeva un soldo.

Prima che l’insegnante di storia della marina fosse in grado di rispondere, Heyne si era lanciato in una concione sull’economia del coraggio, come la chiamava. Cominciò con la guerra del ’70 e criticò la cosiddetta cavalcata della morte di Mars-la-Tour, in cui una brigata di cavalleria tedesca aveva dovuto attaccare frontalmente una postazione di artiglieria francese.  Secondo la tradizione, di tutta la brigata di cavalleria, dopo l’attacco restavano solo due uomini. In tutti i libri di storia questo fatto era celebrato come una grande vittoria tedesca. Secondo Heyne, invece, il generale tedesco che aveva dato l’ordine di attaccare avrebbe dovuto essere processato da un tribunale di guerra.  Bastava questo solo esempio – disse Heyne – per dare un’idea dell’infausto sistema tedesco di lavare errori militari col sangue. L’esempio peggiore di questa tendenza era il fatto d’armi di Langemarck. I fatti erano noti, disse. Non gli era tuttavia noto che cosa fosse accaduto di quel generale che mandò all’attacco, su un terreno difficilissimo e contro un nemico ben coperto, dei volontari di guerra insufficientemente istruiti. Anche in questo caso un fiasco militare era stato trasformato in una vittoria, al qual proposito era da tener presente che i volontari erano andati all’attacco cantando l’inno nazionale. Ora, andare all’attacco cantando era una delle cose più stupide che si possano fare. La stessa cosa – secondo Heyne – si doveva dire dei marinai che cantavano in acqua. Piuttosto, gli pareva importante sottolineare il fatto che nell’era della tecnica le guerre si vincono non soltanto col cuore, ma anche con la testa. Il fattore decisivo non è che si sia pronti a morire, l’importante è di servirsi della morte in maniera economica, ossia di morire utilmente, un soldato morto non serve più a niente. Questo era un fatto positivo e non un vacuo materialismo. Attualmente la guerra è, in fondo, un calcolo matematico e ciò si scorge soprattutto nella guerra di mare. Nella battaglia dello Skagerrak la flotta tedesca non aveva potuto annientare la “Home Fleet” perché le navi tedesche erano più lente delle navi inglesi. Questa circostanza non poteva essere mutata nemmeno dall’estremo valore degli equipaggi. Heyne, poi, non aveva la minima considerazione per il modo di morire secondo la tradizione, disprezzando quei disegni falsi, tanto diffusi durante la prima guerra mondiale, che presentavano un marinaio che stringeva la bandiera, in piedi sulla prora o sulla poppa di una nave da guerra che affondava, e portava la dicitura: “Fiera sventola sulle onde la bandiera nero-bianco-rossa!” E nemmeno credeva che i volontari di Langemarck fossero morti con l’inno nazionale sulle labbra. Forse, tutt’al più, quelli che erano stati colpiti al cuore mentre cantavano. Ma gli altri, quelli che si erano dissanguati a poco a poco, era ben difficile che cantassero l’inno nazionale mentre stavano morendo. Quando si muore non si canta, questo era in grado, lui, Heyne, di affermare. E nemmeno si grida: “Viva la Germania!” come vorrebbe la tradizione. Lui aveva visto morire parecchia gente, e nel migliore dei casi avevano detto: “Merda!”A questa parola l’insegnante di storia della marina ebbe un sobbalzo, come se qualcuno l’avesse punto nel sedere.

“Sissignore, hanno detto merda, niente di più, signor comandante. Un ragazzo, che al massimo aveva diciotto anni, ha chiamato due volte la mamma, prima di annegare. Anche questo succede. E qualcuno nomina anche Dio. E ci sono quelli che chiedono aiuto, quando sono nell’acqua, sebbene sappiano che non serve a niente. Ma può darsi benissimo che anch’io gridi aiuto se mi troverò sul punto di affogare, e io non so che cosa farebbe lei, signor comandante, se l’acqua le entrasse in gola e sapesse che la commedia è ormai finita. Io dubito che lei canterebbe l’inno nazionale. Vero è che c’è anche gente che canta per farsi coraggio.»

 

Questo è un buon esempio di quanto abbiamo fin qui sostenuto: che l’entusiasmo del 1914 aveva ceduto il posto, nei giovani del 1939, a un sentimento di tetra rassegnazione. Essi non si opposero alla guerra, ma nemmeno la accolsero con gioia, tutt’altro; la vissero come una tragica fatalità e ne sentirono, come i loro commilitoni della generazione precedente non avevano sentito, la profonda inutilità e l’immoralità delle sue ragioni.

Il vecchio ufficiale di marina che rievoca la crociera dell’ammiraglio Spee, culminata nella vittoriosa battaglia di Coronel e nell’olocausto delle Isole Falkland, in cui trovarono la morte gran parte degli equipaggi, ricorda con fierezza e perfino con viva nostalgia quella esperienza; ma il giovane sommergibilista della seconda guerra mondiale, dopo averlo ascoltato cin pazienza, alla fine sbotta e gli rimprovera la vacua retorica guerresca, affermando che nessuno vuol essere un eroe e che i soldati, morendo, chiamano la mamma e non cantano l’inno nazionale.

Il fatto è che i soldati della seconda guerra mondiale, e specialmente i giovani, sapevano bene che l’eroismo era ormai superato dalla tecnica e che i conflitti moderni sono solo delle grandi operazioni di macelleria industriale, nelle quali finisce per vincere chi è in grado di fabbricare un maggior numero di carri armati, di aerei, di navi e, in tal modo, di sostituire più in fretta quelli distrutti dal nemico, di quanto quest’ultimo riesca a fare a sua volta.

Nel 1914 (ma non nei mesi e negli anni successivi, non nel 1917 o nel 1918) ci si poteva ancora illudere che la guerra conservasse alcuni tratti cavallereschi: come quando il comandante dell’incrociatore corsaro «Emden» prendeva a bordo tutti gli equipaggi e i passeggeri delle navi affondate nel corso della sua crociera, fino all’ultimo uomo, e li trattava, nei limiti posti dalle circostanze, con tutta la cortesia possibile; o come quando soldati francesi e tedeschi, per la ricorrenza del Natale, sospendevano per un mutuo accordo il bombardamento delle rispettive trincee e giungevano al punto, in qualche caso, di fraternizzare e scambiarsi qualche bottiglia di vino, sia pure per pochi istanti e suscitando le rabbiose reazioni dei loro ufficiali.

Ma nel 1939 tutti sapevano che quei tempi erano finiti e che non sarebbero tornati mai più; e presto la guerra sottomarina, più feroce – da ambo le parti - di quella del precedente conflitto, e soprattutto i massicci e sistematici bombardamenti aerei delle città, diretti deliberatamente non contro obiettivi militari, ma intesi a provocare il massimo danno alle case e alle popolazioni inermi, composte in gran parte da vecchi, donne e bambini, avrebbero dimostrato che non c’era posto per alcun sentimento umano, compreso il valor militare nel senso tradizionale, ma solo per una gigantomachia industriale che avrebbe colpito indiscriminatamente tutti e che si sarebbe conclusa con la vittoria del più potente, cioè del più ricco. Altro che guerra eroica, altro che cantare l’inno nazionale immersi nell’acqua gelida, nei minuti che precedono la morte.

La generazione che fece la seconda guerra mondiale era infinitamente più triste, perché disillusa…